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Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Regionalismo, i turbamenti di Zaia e Stefani

Articolo pubblicato mercoledì 31 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Regionalismo i turbamenti di Zaia e Stefani

Intervenendo nel primo incontro dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato del Dipartimento di giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II, Luigi Di Maio ha aperto alla possibilità di un ripensamento, nel metodo e nel merito. Ne sono turbati il governatore del Veneto Luca Zaia e il suo clone ministeriale Erika Stefani, che lamenta il silenzio di Di Maio sull’osservatorio «di cui io sento parlare oggi per la prima volta … Dopo un anno di discussioni mi auguro che nessuno voglia rimangiarsi slealmente la parola e l’impegno, di cui il presidente Conte è garante».
Stefani proprio non capisce di essere la causa del problema, e non la soluzione. La tempesta si alza per le cento riunioni che attesta di aver tenuto, ma nel più stretto segreto, e senza dar conto a chicchessia. Per di più giungendo a bozze d’intesa che non trovano preciso riscontro nel contratto di governo e nei pre-accordi Bressa-Gentiloni, rispetto ai quali segnano anzi un’abnorme espansione. In questo segna un punto l’ex ministro Claudio De Vincenti nell’intervista di ieri a Repubblica. Ma dovrebbe anche ammettere che fu comunque un errore, o meglio una precisa scelta, del suo governo firmare i pre-accordi. Che sul punto specifico delle risorse collegavano, in danno del Sud, i fabbisogni al gettito tributario riferibile al territorio.
In questa vicenda non ci sono innocenti.
Certo, è con le bozze Stefani che si vuole regionalizzare la scuola, le sovrintendenze, le autostrade, le strade, i porti, gli aeroporti, le ferrovie e persino la cassa integrazione. O si legalizza il furto trasferendo al demanio regionale infrastrutture strategiche costruite con i proventi delle tasse pagate da tutti gli italiani, e altro ancora. È nelle bozze Stefani che prende maggior forma e sostanza il separatismo del “grande Nord”. Per questo, una slealtà è imputabile proprio a Stefani. Poteva mai condurre in porto una riforma stravolgente per tutto il Paese occultando le carte e chiudendo la porta a qualsiasi interlocutore, o magari aprendola solo agli amici lombardo-veneti e/o leghisti? Se non fosse stata rinviata l’audizione prevista per il 30 luglio nella Commissione per le questioni regionali, sarebbe stato interessante sentire dal ministro Marco Bussetti con quale faccia e perché abbia concordato con Stefani la integrale regionalizzazione della scuola, dopo aver firmato un accordo con i maggiori sindacati che diceva il contrario.
Per Zaia, reca danno al Sud chi blocca l’autonomia. Da sempre, usa due soli argomenti: il referendum veneto, e il cd. “efficientamento”. Abbiamo ripetutamente dimostrato che non valgono un centesimo, e per favore cambi disco.
Nessuno, poi, si è mai impegnato a ridisegnare l’Italia secondo i desideri di Zaia, tanto meno Conte. Anzi, ci pare abbia detto il contrario, e l’incontro di Palazzo Chigi con i sindacati – che, con in testa Maurizio Landini, hanno confermato il loro no all’autonomia differenziata – ne dà conferma.
Tre suggerimenti dall’avvio dell’osservatorio. Il primo a Di Maio, che nell’incontro in Federico II ha profilato un remake del regionalismo differenziato. La nuova proposta sia pubblica, aperta al confronto con tutte le regioni, con studiosi, esperti, organi indipendenti. Si avvii finalmente nel Paese il dibattito che la ministra Stefani ha cercato di impedire. Di Maio non si chiuda in una sua trattativa privata con Salvini, che non sarebbe più commendevole di quella tra Stefani e Zaia. E perché intanto non si rendono pubbliche le carte come a oggi definite? Si sente dire che questo o quel punto già non c’è più. Bene, vediamo. Il secondo suggerimento al premier Conte: nessuno scambio tra fantasmagorici piani Marshall per il Sud e modifiche strutturali dell’assetto del Paese. I piani passano, le riforme restano. Il terzo ai governatori del Sud: dopo che Enrico Rossi per la Toscana ha espresso un fermo no, è urgente una loro posizione comune. Ne prenda la testa Vincenzo De Luca, e non insista nel dire che prima di lui nessuno aveva avvertito il pericolo. È troppo facile dimostrare il contrario.
Non ci faccia ricordare che la colpevole inerzia e la bassa cucina in passato della politica meridionale ha concorso a produrre i guasti di oggi.
Ormai, ci sono due Italie: quella degli egoismi territoriali, bene rappresentata da Stefani e Zaia; e quella degli eguali diritti, cui l’osservatorio della Federico II si candida a dare voce. Ma Stefani e Zaia stiano sereni. La Federico II non dismetterà l’indipendenza di giudizio e non prenderà parte a tifoserie. Nei suoi quasi 800 anni di storia ha conosciuto tempi tanto bui che persino Stefani e Zaia sarebbero sembrati fari di civiltà.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Gianfranco Viesti (Università di Bari) – Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Articolo pubblicato dalla rivista Il Mulino (n. 3 del 2019).

Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Il nostro è un Paese giovane, ma con un futuro denso di incertezze. Un Paese segnato sin dalla sua nascita da una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra le sue regioni; e che nel suo processo di sviluppo ha visto consolidarsi forti disuguaglianze economiche territoriali. Un Paese con una significativa debolezza dei suoi apparati centrali di governo – nella loro efficienza, nella capacità di garantire ai cittadini servizi pubblici e diritti di cittadinanza comparabili –, dove c’è voluto un secolo per raggiungere nel Mezzogiorno livelli di istruzione elementare simili a quelli del resto d’Italia. Anche per tutto questo, un Paese con lunghe e alterne vicende di contrapposizioni di interessi territoriali.

Nel secondo dopoguerra l’Italia ha provato a unificarsi davvero. Ha puntato a rafforzare l’economia delle sue regioni più deboli, a vantaggio della crescita dell’intero Paese, e a garantire maggiore uniformità fra i suoi cittadini nella fruizione dei grandi servizi, a partire da istruzione e salute. È stato, pur con tutte le sue contraddizioni, il periodo migliore della nostra storia economica: la maggiore coesione sociale e territoriale è andata di pari passo con tassi di crescita mai raggiunti, e che non saranno mai più raggiunti. Certo, quella crescita è stata collegata a condizioni abilitanti storicamente determinate e irripetibili. Tuttavia, non si sfugge: quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva. La stessa identica logica dell’integrazione europea.

Con gli anni Settanta, il «miracolo» è scomparso. E questo ha portato con sé il rinascere di conflitti distributivi: la spinta e i danari per lo sviluppo si sono spostati dall’industrializzazione del Sud alla riconversione del Nord; ma al Mezzogiorno sono stati garantiti trasferimenti compensativi: spesso distorsivi, in un intreccio sempre più negativo fra classi dirigenti politiche nazionali e locali. Con gli anni Novanta, la grande crisi fiscale e la stretta sulla tassazione hanno provocato per la prima volta la nascita di un movimento politico a esplicita base territoriale, fortemente antimeridionale. La Lega ha condizionato le scelte politiche a cavallo del secolo: la sua minaccia politica è stata ad esempio importante per spingere nel 2001 i governi di centrosinistra a una riforma del Titolo V della Costituzione certamente affrettata, e con diversi elementi problematici. E ha contribuito al diffondersi di un pericoloso veleno, una sottocultura in base alla quale l’impiego delle risorse pubbliche è sempre, per definizione, a somma zero: più a te significa sempre meno a me. In questo anche favorita dal progressivo venir meno dei partiti politici nazionali, sedi per propria natura deputate alla composizione di differenti interessi territoriali, e alla loro mediazione in scelte di interesse collettivo. Ancora fino alla fine del primo decennio di questo secolo gli effetti concreti di questo veleno sono stati parziali: certo, con l’esplodere della «questione settentrionale» lo sviluppo del Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica. Ma le stesse richieste di «autonomia regionale differenziata» di Lombardia e Veneto sono state bellamente ignorate dai governi Berlusconi 2008-11. Ma con la grande crisi, la situazione è cambiata: le derive già presenti si sono accelerate. Sono mutati gli scenari europei. Si è affievolita la condivisione del grande progetto di integrazione. Si sono rafforzati sovranismi di varia natura e intensità: egoismi e isolazionismi nazionali, come quelli di alcune giovani e incomplete democrazie dell’Est; egoismi regionali, come quelli che hanno segnato lo scenario spagnolo degli ultimi anni. Il voto sulla Brexit sembra uno spartiacque: l’offerta politica di un presunto ritorno alla sovranità, della ricostruzione di confini e barriere, si è rivelata vincente.

Ed è profondamente mutato il quadro nazionale. La crisi è stata cattiva, profonda, persistente, assai più di quanto si riuscisse a vedere nel corso del suo dipanarsi; e ha prodotto un terremoto elettorale che è sotto gli occhi di tutti. Le scelte di politica economica, in parte necessarie per la pessima condizione dei conti pubblici, in parte obbligate in tempistica e dimensione da nuove regole europee assai discutibili, hanno compresso i redditi, ridotto il benessere, accresciuto la pressione fiscale e tagliato i servizi, ricentralizzando le grandi scelte di bilancio e spostando a livello regionale e locale molti sacrifici. L’Italia è entrata in un’era di aspettative fortemente decrescenti; ha visto aumentare disillusioni e timori, egoismi e rancori. La ricerca di capri espiatori, ovviamente diversi da sé. Fossero essi le regole e le istituzioni europee (pur non esenti da evidenti criticità), i flussi migratori (pur assai problematici nella loro dimensione e dinamica), le élite, la «casta» dei privilegiati (pur sovente sorde all’ascolto delle difficoltà diffuse). E, naturalmente, i meridionali; in realtà sempre più spesso i centro-meridionali, con uno spostamento d’ufficio di Roma («ladrona») nel Mezzogiorno. La parte parassita del Paese, che gode di elevati servizi e prestazioni senza meritarli grazie a lavoro, reddito e sforzo fiscale; che vive alle spalle dell’Italia che produce.

L’Italia di oggi sembra segnata da una crescente sfiducia nel futuro e dal conseguente prevalere, in molti cittadini, dell’interesse per le proprie sorti, individuali o di piccolo gruppo. E quindi da una scarsa attenzione per i grandi servizi collettivi: gli italiani sembrano assistere piuttosto passivamente alla progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale, alla compressione selettiva e cumulativa dell’università, al declino della scuola. Infine, da una domanda di politiche di breve termine; non a caso la maggioranza dei cittadini pare approvare le scelte della coalizione di governo, orientate verso il soddisfacimento di interessi individuali o di piccoli gruppi. Molti italiani non hanno più fiducia nella capacità delle politiche pubbliche di cambiare in meglio il Paese, di migliorare il loro futuro.

Ad esito di tutto questo, l’Italia di oggi è teatro di una lotta sorda e sotterranea per spartirsi i residui delle risorse pubbliche. In questo pienamente leghistizzata. Convinta cioè che «più a te» significhi automaticamente «meno a me», senza fiducia nelle logiche dell’integrazione, nell’investimento nel futuro, negli effetti positivi del recupero di disuguaglianze e disparità.

È in questo clima che matura, a partire dal 2017, il progetto della «secessione dei ricchi». Non giunge inatteso. È preannunciato dalle vicende del federalismo comunale: nel 2009, con la legge 42, si è provato a modificare il finanziamento degli enti locali, ancorandolo a criteri oggettivi; ma poi in sede di attuazione, in presenza di risorse decrescenti, la loro definizione è diventata teatro della guerra, largamente vittoriosa, dei comuni più ricchi a quelli più poveri. Dalle vicende del finanziamento delle università, in cui una girandola di norme e di indicatori quasi sempre costruiti ad hoc ha ripartito risorse totali fortemente decrescenti in modo assai asimmetrico, a danno del sistema degli atenei del Centro Sud e del Nord periferico. Da modifiche dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, che stanno contribuendo ad accelerare – invece di contrastare – le migrazioni sanitarie di pazienti da una regione all’altra. Tutte vicende segnate dal ruolo cruciale ma nascosto di agenzie tecniche pseudo-neutrali, incaricate di produrre numeri tali da far sembrare precise scelte politiche nulla più che esiti di algoritmi; e, soprattutto, dalla totale mancanza di discussione pubblica e dal disinteresse del sistema dell’informazione. Dalla fuga della politica.

Ma che cosa è la secessione dei ricchi? Rimandando il lettore interessato a maggiori dettagli a un volumetto scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore Laterza, si può ricordare sinteticamente che si tratta della richiesta di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ai sensi del III comma dell’articolo 116 della Costituzione (come riformata nel 2001), di ulteriori e particolari forme di autonomia. Alle tre regioni capofila poi sono pronte ad accodarsene altre. In questa richiesta vi sono almeno tre elementi di evidente criticità, tali da giustificare una definizione così forte.

Innanzitutto, non si tratta di specifiche materie, collegate a specifiche condizioni della specifica regione, tali da rendere ragionevoli poteri e competenze non riconosciute alle altre, in un regionalismo «differenziato». Ma della richiesta politica di poter disporre praticamente di tutte le competenze che teoricamente possono essere trasferite in base alla lettera di quel comma. La Lombardia chiede ben 131 nuove funzioni legislative e amministrative. Nessuna evidenza è presentata sulla circostanza che in queste materie la gestione regionale sarebbe più efficace e/o più efficiente di quella nazionale: è un dogma che non occorre dimostrare. È in gioco così gran parte dell’intervento pubblico che si realizza in Italia: dalla regionalizzazione della scuola alla sostanziale cancellazione del Servizio sanitario nazionale, dai beni culturali all’assetto del territorio, dalle infrastrutture all’energia, dal lavoro alla previdenza complementare. Vi sono differenze fra Emilia-Romagna da un lato e Lombardia e Veneto dall’altro su alcuni aspetti cruciali, a partire dalle richieste delle ultime due di regionalizzare il personale della scuola e di acquisire al demanio regionale parti del patrimonio infrastrutturale esistente (dalle autostrade alle ferrovie agli aeroporti) per poterlo mettere a valore; incuranti del fatto che esso è stato realizzato con le risorse della collettività nazionale. Nell’ultimo anno il ministro incaricato del dossier (una leghista veneta) ha cercato di soddisfare in ogni modo queste richieste, ma quanto il governo Conte sia disposto alla fine a concedere è avvolto nelle nebbie: i testi delle parziali intese di merito già raggiunte sono, al maggio 2019, segreti.

In ogni caso, una radicale revisione di come funziona l’Italia. Per i promotori, si tratta di modifiche opportune, che possono migliorare le politiche pubbliche e avvicinarle ai cittadini. Ma, a parte gli evidenti dubbi che questo sia vero su una tale sterminata congerie ed estensione di materie, la questione centrale è che essi la chiedono solo per se stessi. Non propongono, cioè, una modifica dell’articolo 117 della Costituzione, volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese; propongono l’attuazione del 116: cioè un trasferimento solo per se stessi.

Che gli altri si arrangino, in una situazione in cui l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco; un vero e proprio unicum al mondo: con 4 regioni a statuto speciale, due provincie autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna con ambiti un po’ diversi) e poteri centrali con la responsabilità delle politiche e dei servizi nei ritagli di Paese residui.

In secondo luogo, questa richiesta sterminata fa il paio con la volontà di poter acquisire risorse finanziarie assai più ampie di quelle oggi erogate dallo Stato centrale in quei territori per quelle funzioni. Più ampie le competenze, più ampia la differenza nelle disponibilità economiche. Date le condizioni della finanza pubblica, questo non può che avvenire senza incrementare la spesa complessiva: e quindi utilizzando risorse oggi spese in altre regioni. Questo è da sempre stato esplicito nelle richieste venete; il grande obiettivo sbandierato ai cittadini di riprendersi i «propri soldi» (in realtà, della collettività nazionale). Chiaro, anche se pudicamente meno reiterato, in quelle lombarde. Escluso invece in quelle emiliane, anche se senza alcuna obiezione alle posizioni delle prime due.

Richieste santificate dalla pre-intesa raggiunta con le regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più. Di fronte all’enormità di questo patto, persino l’attuale governo sembra pensare ad altre disposizioni finanziarie. Ma nelle ipotesi di intesa (sulla sola parte finanziaria) disponibili sul sito del Dipartimento degli Affari regionali si prova comunque a far rientrare dalla finestra ciò che non entra più dalla porta: si stabiliscono criteri per cui – specie nella scuola – le regioni potrebbero disporre di risorse ben maggiori, sottraendole alle altre; così come un canale privilegiato per la spesa per investimenti pubblici.

Infine, l’idea delle tre regioni è sempre stata ed è quella di concludere l’intesa con il governo (ci si è arrivati ad un passo il 15 febbraio 2019) e di puntare poi ad un rapido ed indolore passaggio parlamentare di mera ratifica. A quel punto il gioco sarebbe fatto. Ciascuna intesa potrebbe essere modificata solo con l’assenso della regione interessata, e non potrebbe essere sottoposta a referendum abrogativo. L’enorme potere attuativo e di definizione di tutti gli aspetti di dettaglio, normativi e finanziari, passerebbe nelle mani di Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte al controllo parlamentare e – se il colpo riuscisse perfettamente – anche a quello della Corte Costituzionale. Il percorso non è ancora definito. L’idea che il Parlamento non debba discutere e poter emendare nulla pare davvero estrema. Ma in queste vicende le ipotesi estreme, neanche immaginabili nell’Italia di qualche anno fa, sono molte.

Una parte delle classi dirigenti di Lombardia, Veneto ed Emilia sta dunque provando a ristrutturare profondamente l’Italia. A farsi quasi Stato nello Stato. La prospettiva dell’indipendentismo veneto (arrivata fino all’indizione di un referendum nel 2014 su «volete voi il Veneto indipendente», poi vietato dalla Corte costituzionale) è al momento abbandonata. Molto più comodamente, si resta parte di un Paese membro dell’Unione europea: con tutti i vantaggi in termini di libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone che ne derivano; con sicurezza, difesa, politica estera comune; con l’enorme debito pubblico che rimane nella responsabilità solidale di tutti gli italiani. Ma con poteri legislativi e amministrativi straordinariamente vasti; e con le relative risorse che «rimangono» nella regione senza essere trasferite alla fiscalità generale, poste così al di fuori da manovre nazionali di austerità o di revisione della spesa in quegli ambiti.

Ci si mette il più possibile al riparo da eventuali crisi di sistema del Paese, purtroppo non impossibili. Lasciando il governo dei conti pubblici a un Tesoro con lo stesso debito ma con un minor gettito fiscale disponibile (una volta detratte le risorse che rimangono nelle regioni) per farvi fronte. Si pongono le basi per una diversa organizzazione della sanità o della scuola; con il potere di operare scelte politiche anche profonde: di rompere i principi di universalismo della sanità pubblica, o di riconoscere e finanziare a piacere le istituzioni private nell’istruzione, di organizzare una previdenza complementare solo per i propri cittadini. Si accrescono enormemente i poteri di gestione e di intermediazione di risorse pubbliche delle classi dirigenti regionali.

Il processo nasce e trova alimento dalla pluridecennale predicazione leghista. Ma il favore intorno ad esso è ben più esteso, profondo. Con interessanti differenze fra le regioni. In Veneto il consenso per «l’autonomia» è assai vasto (testimoniato anche dalla sensibile partecipazione al referendum consultivo del novembre 2017): coinvolge gran parte delle forze economico-sociali e quasi tutte le rappresentanze politiche. Certo, il consenso è, genericamente, «per l’autonomia»: non è chiaro quanto vi sia conoscenza del fatto che i dirigenti e i programmi scolastici verrebbero a dipendere dalla politica regionale, o che quelle della Laguna non sarebbero più acque territoriali italiane. Il Veneto soffre molto della vicinanza alle privilegiate aree a statuto speciale di Friuli-Venezia Giulia e, soprattutto, Trento e Bolzano: si pensi che per ogni studente trentino si spende il 70% in più che per gli altri studenti italiani. Ma invece di intestarsi una proposta volta a ridare razionalità ed equità al sistema delle autonomie, mira esso stesso a divenire «speciale»: e che gli altri, in particolare i meridionali spreconi, si arrangino. Più articolata pare la situazione lombarda: regione assai più legata da interessi e consuetudini alla comunità nazionale; con una Milano freddissima su questo tema, così come evidente dalla assai scarsa partecipazione elettorale al referendum del 2017. La grande sorpresa è però l’Emilia guidata dal Partito democratico. Che chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre: per sé, e non per tutti. Con il 116 e non con il 117: rinunciando quindi a porsi alla testa di qualsiasi progetto di riforma nazionale. Che rivendica i principi dell’unità del Paese e si fa vanto di non richiedere risorse aggiuntive: ma che si allinea in toto alle altre due nel percorso e nella pressione politica; e che sottoscrive senza problemi testi che le darebbero non pochi vantaggi economici. Il tutto nell’assordante silenzio delle comunità culturali e politiche di Lombardia ed Emilia, che non trovano evidentemente necessario o elegante discutere del futuro proprio e degli altri italiani; derubricando forse questa grande prospettiva a questione amministrativa. Silenzio pur rotto dalle forti prese di posizioni contrarie dei due sindaci di Bologna e Milano, dell’ex presidente della Regione Emilia-Romagna, di alcuni intellettuali: ma senza che ne sia scaturita discussione diffusa.

Balbettano, su questo come su altri temi, le altre regioni; con le principali del Sud a zig-zag fra il desiderio di acquisire maggiori poteri di gestione e intermediazione per sé e le preoccupazioni per l’essere i loro cittadini le principali potenziali vittime. Protesta la Toscana, in difesa di una ben diversa concezione di autonomia, ma con un filo di voce. Si accoda nelle richieste la Liguria, che punta, come prospettiva strategica, alla gestione del sistema autostradale e ferroviario e del demanio portuale e aeroportuale e ai relativi incassi da concessioni e traffico; un luminoso futuro, sia detto con un filo di ironia ma anche con preoccupazione, da esattore di transito.

Nella politica nazionale c’è solo la Lega: vociante al Nord, silenziosa e reticente nel resto del Paese dove cerca consenso; ma pronta in qualsiasi momento all’offensiva finale per i propri «veri» territori ed elettori. I 5 Stelle paiono aver preso coscienza solo negli ultimi tempi di quel che essi stessi hanno convenuto nel contratto di governo, e frenano. Silenti gli altri, tranne l’estrema sinistra, contraria. Silenti, nonostante il nome, i fratelli d’Italia e i forza-italiani. Silente il Partito democratico, spaccato fra alcuni dei suoi esponenti che avanzano perplessità e le componenti lombardo-venete, e soprattutto quella – assai più potente – emiliana, che chiedono condivisione e assoluto silenzio in pubblico. Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte, e si prova a non perderle inseguendo anche un po’ la Lega. Partiti incapaci di una discussione aperta e basata sui fatti e di una mediazione politica fra le diverse posizioni; di formulare proposte basate sui propri valori di riferimento e sul complessivo interesse nazionale.

Al momento in cui scrivo, non è affatto chiaro come terminerà questa vicenda. Ma le convinzioni e gli interessi politico-economici da cui nasce e le questioni che essa solleva sono destinati a restare, a incidere ancora a lungo, nell’Italia di oggi e di domani. Forse aggravate da contrapposizioni sempre più sorde fra i cittadini di diverse regioni, di cui purtroppo si vedono le avvisaglie. Con esse, e con il permanere di una politica incapace di proporre e progettare una profezia positiva di un futuro condiviso, il rischio che il nostro giovane Paese progressivamente, passo dopo passo, di fatto si dissolva.

Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Due milioni di veneti non decidono per l’Italia

Articolo pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Due milioni di veneti non decidono per l’Italia

Sull’autonomia il premier Conte notifica ai governatori che non possono avere tutto quello che chiedono. Sulla scuola, il sottosegretario Giuliano (M5S) informa che «tutto il personale e quindi anche il curricolo, quello che si farà a scuola, rimane di competenza nazionale». Zaia, “basito”, afferma: «Noi veneti ne abbiamo le tasche piene di tutta questa storia … è una autentica presa in giro (copyright Bonaccini, NdA) … a nome dei 2 milioni 328 mila veneti che hanno votato per il sì all’autonomia dico che siamo stanchi, stanchissimi. La misura è colma». Fontana segue a ruota con gli insulti sui “cialtroni” al governo.
Dopo il ceffone, Conte scrive (Corriere della sera, 21 luglio) un – troppo – accorato appello ai cittadini lombardo-veneti. L’aggressività degli aspiranti secessionisti testimonia la loro voglia di farsi Stato. Zaia e Fontana schiumano di rabbia perché con la regionalizzazione integrale del personale della scuola, ora cancellata, già pregustavano una succulenta polpetta di governo di decine di migliaia di docenti e 8 o 10 miliardi in più. Ma non è finita. Sopravvive la disposizione che smantella la potestà legislativa statale in materia di “norme generali sull’istruzione”? Se così fosse, l’intesa rimarrebbe inaccettabile.
Oggi segniamo un piccolo punto per l’unità della Repubblica, ma i rischi per il Sud e il paese sono ancora molti e gravi, dalle risorse all’ambiente, alle infrastrutture, al lavoro, alla sanità e altro ancora. Come sempre, le carte sono nascoste da una fitta nebbia e al popolo sovrano non è dato sapere.
Preoccupa, poi, la bellicosa Stefani: «Chi riesce a garantire servizi efficienti riuscendo a risparmiare dovrà gestire come meglio crede queste risorse. … Premiare e stimolare l’efficienza e punire gli incapaci, sono questi gli obiettivi della Lega per far crescere il Paese» (Libero, 20 luglio). Il mondo della Stefani si divide in incapaci al Sud e virtuosi al Nord, secondo i luoghi comuni – ormai smentiti ampiamente – che hanno inquinato il dibattito. Si vuole o no giungere preliminarmente alla definizione di lep e fabbisogni standard, superando la spesa storica che è in danno del Sud? O si punta al privilegio sulle risorse per le tre regioni, certificato da fonti non sospette come pericoloso per la finanza pubblica e la coesione nazionale? Prepari le armi De Luca, senza illudersi di essere un giorno trattato alla pari.
La Stefani dovrebbe vergognarsi. Se gli stracci volano, è colpa sua e della sua segreta e privatissima trattativa con le regioni. Come ministro della Repubblica avrebbe potuto e dovuto aprire la fase preparatoria alle altre regioni, a esperti, studiosi, organi indipendenti, forze sociali, associando per tempo e non a cose fatte i ministri competenti per materia, informando periodicamente le Camere sugli stati di avanzamento, verificando in corso d’opera gli equilibri realizzabili e i limiti costituzionali e finanziari. Invece, ha consentito, o favorito, che in segreto le bozze di intesa gonfiassero a dismisura i pre-accordi Bressa-Gentiloni, andando ben oltre il richiamo nel “contratto” di governo.
L’errore della Stefani va corretto, riconducendo la discussione sull’autonomia su binari di serietà scientifica, di dati affidabili, di rispetto della Costituzione. Per questo, il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Federico II terrà lunedì 29 luglio la prima riunione dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato, il cui obiettivo è seguire con continuità e con analisi ragionate i lavori nelle sedi istituzionali. Introdurrà il direttore Staiano, parteciperanno Giannola, Viesti, Esposito, Cerniglia e io stesso. Interverrà Di Maio, con il quale si cercherà una interlocuzione lontana da qualsiasi tifoseria.
Presidente Zaia, la smetta di marciare su Roma con il mantra che 2.328.000 veneti hanno votato sì all’autonomia. Ci rammenta che circa 45 milioni di altri italiani aventi diritto al voto non hanno mai avuto occasione di parlare. Nessuno ha chiesto a loro – invero, nemmeno ai lombardo-veneti – se si dovesse o potesse regionalizzare la scuola, quel che resta del servizio sanitario nazionale, l’ambiente, le sovrintendenze, beni culturali vanto dell’Italia nel mondo, o ancora infrastrutture – pagate con i soldi di tutti gli italiani e poste a garanzia del debito sovrano – che lei vorrebbe ora trasferite al demanio regionale. Anche quei 45 milioni di italiani sono stanchi, stanchissimi. Anche noi ne abbiamo le tasche piene. Anzi, a esser sinceri, lei, con la sua allieva ed emula Stefani, ce le ha proprio sfondate.

Massimo Sideri – Se gli americani credono nel Sud più degli italiani

Articolo pubblicato mercoledì 7 febbraio 2018 dal Corriere della Sera.

Se gli americani credono nel Sud più degli italiani

Siamo nella periferia partenopea, laddove fino a 15 anni fa venivano inscatolati i pelati Cirio prima del crac. Nel cortile del complesso universitario una torre fumaria ricorda quel non lontano passato. Lavori che non ci sono più sostituiti da formazione per i lavori che verranno. Prima della forza del brand Apple, sebbene non vada sottovalutato quello dell’Università Federico II, nessuno avrebbe sperato di portare qui ragazzi non solo italiani ma anche dal resto del mondo per imparare il linguaggio universale della programmazione. «Le app made in Napoli» prima sarebbe stata una facile ironia con tutt’altro senso. «Dobbiamo essere orgogliosi, per la prima volta al mondo nasce una collaborazione tra Apple e Cisco e nasce al Sud, a Napoli» ha detto il premier Paolo Gentiloni lo scorso 19 gennaio all’inaugurazione di una Cisco Academy al fianco della già rodata Apple Academy presso l’Università Federico II. Orgogliosi non c’è dubbio. Ma c’è spazio anche per una riflessione. Sebbene non siano «posti di lavoro» come aveva forse con eccessivo entusiasmo raccontato l’allora premier Matteo Renzi, ma formazione, va riconosciuto che lo Stato ha creduto nel progetto (sono stati usati fondi regionali) lasciandosi trainare dal privato americano. Peraltro a visitare l’Academy si può toccare con mano ciò che è stato raccontato dal professore di Berkeley Enrico Moretti nel suo ormai noto saggio La nuova geografia del lavoro: intorno all’Università sono risorte piccole attività come il bar dove al fianco dell’icona di San Gennaro c’è quella di Steve Jobs. Napoli è sempre stata politeista. Ma la vera domanda che tutti eludiamo è come mai non ci sia il privato italiano. Il convitato di pietra. Diciamoci la cruda verità: nessuna azienda italiana avrebbe mai puntato su questa periferia difficile per un progetto così ambizioso. Perché lo fanno gli americani? Per certi versi potrebbero apparire naïf. Forse perché hanno, più di noi, fiducia nelle politiche economiche. Forse perché nella letteratura e nella cinematografia americana il Meridione è ancora quello del Talento di Mr Ripley dove i vitelloni dell’aristocrazia Usa del dopoguerra venivano a spendere dollari. Forse. Ma alla fine la verità è che noi italiani siamo i maggiori portatori di preconcetti nei confronti del Meridione.

Lettera di Dario Antiseri e Flavio Felice sui problemi della scuola

Appello pubblicato mercoledì 17 gennaio 2018 dal sito del Centro Studi e Ricerche “Tocqueville-Acton”.

Lettera di Dario Antiseri e Flavio Felice sui problemi della scuola

Ai politici:

Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Pietro Grasso, Stefano Parisi, Vittorio Sgarbi, Beatrice Lorenzin, Paolo Gentiloni, Valeria Fedeli, Raffaele Fitto, Lorenzo Cesa, Rocco Buttiglione, Luigi Zanda, Mario Adinolfi

Sui problemi della scuola

Illustri Signori,

È sconcertante constatare come nel corso della campagna elettorale tra i più urgenti problemi da loro affrontati – e che interessano centinaia di migliaia di famiglie e milioni di cittadini – sia sostanzialmente assente “il grande tema” della scuola e dell’università. Ed è proprio per questo che ci permettiamo di sottoporre alla Loro attenzione il seguente non eludibile interrogativo: uno Stato di diritto può avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola?

  1. La scuola di Stato è un patrimonio grande e prezioso che va protetto, salvato; solo che quanti difendono il monopolio statale dell’istruzione non aiutano la scuola di Stato a sollevarsi dalle difficoltà in cui versa. Nessuna scuola sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, una segreteria più operosa, una biblioteca ben fornita, un laboratorio ben attrezzato, insegnanti più preparati, ecc. bastano a fare la differenza. Me se nessuna scuola sarà mai uguale all’altra, non sarà allora che tutte potranno migliorarsi attraverso la competizione? In breve, non esistono forse buone ragioni per affermare che è tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di migliorare il nostro sistema formativo: la scuola statale e quella non statale?

         La realtà è che, è bene insistervi, il monopolio statale dell’istruzione è la vera, acuta, pervasiva malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola. E favorisce l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non pochi genitori.

Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà: unicamente l’esistenza della scuola libera garantisce alle famiglie delle reali alternative sia sul piano dell’indirizzo culturale e dei valori che sul piano della qualità e del contenuto dell’insegnamento.

Il monopolio statale dell’istruzione viola le più basilari regole della giustizia sociale: le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte – per un servizio di cui non usufruiscono – e una seconda volta con la retta da corrispondere alla scuola non statale.

Il monopolio statale dell’istruzione devasta l’efficienza della scuola: la mancanza di competizione tra istituzioni scolastiche trasforma queste ultime in nicchie ecologiche protette e comporta di conseguenza, in genere, irresponsabilità, inefficienza e aumento dei costi. La questione è quindi come introdurre linee di competizione nel sistema scolastico, fermo restando che ci sono due vincoli da rispettare: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione.

  1. Chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato: è semplicemente contrario al monopolio statale nella gestione della scuola. E questa non è un’idea di bacchettoni cattolici o di biechi e ricchi conservatori di destra. É la giusta terapia per i mali che necessariamente affliggono un sistema formativo intossicato dallo statalismo. Scriveva Gaetano Salvemini su «L’Unità» del 17 ottobre 1913: «Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere». Sempre su «L’Unità» (17 maggio 1919), Salvemini tornerà ad insistere sul fatto che «il metodo migliore per risolvere il problema […] è sempre quello escogitato dai liberali del nostro Risorgimento: non vietare l’insegnamento privato, ma mantenere in concorrenza con esso un sistema di scuole pubbliche». La verità è che la concorrenza è la migliore e più efficace forma di collaborazione; è, come dice F.A. von Hayek, una macchina per la scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio – e questo vale nella ricerca scientifica, nella vita di una società democratica e sul libero mercato. Nell’ambito del sistema formativo strutturato su linee di competizione, la scuola privata – è ancora Salvemini a parlare – «rappresenterà sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica. Obbligandola a perfezionarsi senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta». Di conseguenza: «se nella città, in cui abito, le scuole pubbliche funzionassero male, e vi fossero scuole private che funzionassero meglio, io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se i miei figli saranno educati male». Insomma, con Salvemini si trova d’accordo Luigi Einaudi allorché afferma che il danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno creato da ogni altra specie di monopolio». E non è da oggi che contro le disastrose conseguenze del monopolio statale dell’istruzione si sono schierati, in contesti differenti, grandi intellettuali come Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e tra altri ancora, Bertrand Russell, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani.

  1. «È tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse». E ancora: «Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio». Questa una coraggiosa e lungimirante dichiarazione fatta tempo addietro da Luigi Berlinguer, al quale è legata la Legge 62/2000, in cui si definisce il passaggio dalla “Scuola di Stato” a “Sistema Nazionale di Istruzione” costituito dalla “Scuola Pubblica Statale” e la “Scuola Pubblica Paritaria”. Solo che dichiarare giuridicamente uguali Scuola Statale e Scuola Paritaria finanziando solo la prima e lasciando morire di inedia la seconda è un ulteriore inganno perpetrato da una politica cieca e irresponsabile. E qui va detto che tra le diverse proposte – tese a sradicare in ambito formativo il diffuso, insensato e deleterio pregiudizio stando al quale è buono solo ciò che è pubblico ed è pubblico solo ciò che è statale – la migliore è sicuramente quella del “buono-scuola”. Idea avanzata da Milton Friedman e ripresa successivamente Friedrich A. von Hayek e sulla quale, da noi, ha insistito negli anni passati Antonio Martino. Con il “buono-scuola” i fondi statali sotto forma di “buoni” non negoziabili (vouchers) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro “buono”. Ed è così, che pressata nel vedere diminuire l’iscrizione alla propria scuola o vedere allievi già iscritti scappare da essa, ogni scuola sarà spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti. In poche parole: quella del “buono-scuola” è una misura in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza del sistema formativo. Una domanda ai politici di sinistra da sempre ostili all’idea del “buono-scuola”: ma quando riuscirete ad aprire gli occhi e capire che il “buono-scuola” è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti? E una domanda ai politici liberali e a tutti gli altri sedicenti tali: uno Stato nel quale un cittadino deve pagare per conquistarsi un pezzo di libertà è ancora uno Stato di diritto?

  1. La questione se lo Stato di diritto possa avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola è, dunque, un problema ineludibile. Di seguito, alcune proposte “classiche” a tale nevralgico interrogativo:

Alexis de Tocqueville: «[…] voglio che si possa organizzare accanto all’Università una seria concorrenza. Lo voglio perché lo richiede lo spirito generale di tutte le nostre istituzioni; lo voglio anche perché sono convinto che l’istruzione, come tutte le cose, ha bisogno, per perfezionarsi, vivificarsi, rigenerarsi all’occorrenza, dello stimolo della concorrenza».

Antonio Rosmini: «I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone nelle quali ripongono maggiore confidenza».

John Stuart Mill: «Le obiezioni che vengono giustamente mosse all’educazione di Stato non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l’istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla: è una questione completamente diversa».

Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato».

Bertrand Russell: «Lo Stato è giustificato nella sua insistenza perché i bambini vengano istruiti, ma non è giustificato nel pretendere che la loro istruzione proceda su un piano uniforme e miri alla produzione di una squallida uniformità».

Karl R. Popper: «L’interesse dello Stato non deve essere invocato a cuor leggero per difendere misure che possono mettere in pericolo la più preziosa di tutte le forme di libertà cioè la libertà intellettuale».

Luigi Einaudi: «In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori, ognora rinnovati, abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura».

Luigi Sturzo: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità».

  1. È del 14 marzo 1984 la Risoluzione “sulla libertà di insegnamento nella Comunità europea”. Con essa il Parlamento europeo ha inteso rendere chiaro che «il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adeguamento dei loro obblighi, in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Successivamente, il 4 ottobre 2012, una ulteriore Risoluzione del Parlamento europeo stabilisce: «1. L’Assemblea parlamentare richiama che il godimento effettivo del diritto all’educazione è una condizione preliminare necessaria affinché ogni persona possa realizzare ed assumere il suo ruolo all’interno della società. Per garantire il diritto fondamentale all’educazione, l’intero sistema educativo deve assicurare l’eguaglianza delle opportunità ed offrire un’educazione di qualità a tutti gli allievi, con la dovuta attenzione non solo di trasmettere il sapere necessario all’inserimento professionale e nella società, ma anche i valori che favoriscono la difesa e la promozione dei diritti fondamentali, la cittadinanza democratica e la coesione sociale. A questo riguardo le autorità pubbliche (lo Stato, le Regioni, e gli Enti locali) hanno un ruolo fondamentale e insostituibile che garantiscono in modo particolare attraverso le reti scolastiche che gestiscono; 2. È a partire dal diritto all’educazione così inteso che bisogna comprendere il diritto alla libertà di scelta educativa».

Ebbene, nei Paesi post-comunisti entrati nell’Unione Europea – come nel caso di Slovenia, di Slovacchia, Repubblica Ceka, Polonia – la parità tra scuole statali e scuole non statali è stata introdotta in modo pieno. Questa, per scuola non statale, la situazione nei Paesi della Vecchia Europa: in Belgio gli stipendi di tutto il personale sono a carico dello Stato; in Spagna sono a carico dello Stato tutte le spese; in Portogallo è erogato dallo Stato l’equivalente del costo medio di un alunno di scuola statale; in Lussemburgo sono a carico dello Stato tutte le spese; in Inghilterra nelle maintained schools sono a carico dello Stato tutti gli stipendi e le spese di funzionamento, oltre all’ 85% delle spese di costruzione; in Irlanda le spese di costruzione degli immobili sono a carico dello Stato, in misura completa per le scuole dell’obbligo e dell’ 88% per le scuole superiori; in Germania sono a carico dello Stato e delle Regioni (Länder) lo stipendio dei docenti (85%), gli oneri previdenziali (90%), le spese di funzionamento (10%) e la manutenzione degli immobili (100%); in Francia sono possibili quattro alternative: a) integrazione amministrativa, con tutte le spese a carico dello Stato; b) contratto di assunzione, con spese di funzionamento e per i docenti a carico dello Stato, a condizione che i docenti abbiano gli stessi titoli dei colleghi statali; c) contratto semplice, con spese per il solo personale docente a carico dello Stato; d) contratto di massima libertà che non prevede alcun contributo.

  1. Dove il diritto alla parità tra Scuola statale e Scuola non statale è stato e viene tradito è in Grecia e in Italia. Qualche dato sulla situazione italiana. Nel 2012-2013 il totale degli studenti iscritti era di 8.943.701, di cui 7.763.964 iscritti alla Scuola statale e 1.036.403 iscritti alla Scuola paritaria. Nell’anno 2013-2014 gli studenti frequentanti la Scuola in Italia ammontavano a 8.882.905, con 7.746.270 iscritti alla Scuola statale e con 993.544 iscritti alla Scuola paritaria (di questi iscritti alla scuola paritaria 667.487 sono alunni delle Scuole cattoliche). Nei due anni scolastici 2012-2013 e 2013-2014 la spesa per ogni allievo della Scuola statale è stata rispettivamente di € 6.411,16 e di € 6.414,57; mentre il contributo medio dello Stato per ogni alunno della Scuola paritaria è stato rispettivamente di € 481,47 e di € 497,21: una autentica elemosina. E nel frattempo, in questi anni di crisi economica, molte famiglie, non potendo permettersi di pagare la retta, sono state costrette a ritirare il proprio figlio dalla Scuola paritaria e iscriverlo alla Scuola statale, con la conseguente chiusura di Scuole non statali, anche di grande prestigio. Tra il 2012-2013 e il 2014-2015 si sono perse 349 scuole e 75.146 alunni delle Scuole paritarie e 423 scuole e 48.066 alunni delle Scuole cattoliche. Nell’anno scolastico 2015-2016 sono state chiuse 415 scuole non statali.

In Italia la scuola libera è solo libera di morire. E mentre non ci sono manifestazioni sindacali, occupazioni di scuole o convegni sulla scuola in cui non vengano lanciati slogan contro la Scuola paritaria che succhierebbe risorse a scapito delle Scuole statali, non ci si rende conto che le rette pagate dalle famiglie che iscrivono i loro figli alla Scuola paritaria fanno risparmiare allo Stato circa sei miliardi di € ogni anno. E, dunque, è la Scuola paritaria a danneggiare la Scuola statale, oppure è una politica cieca e irresponsabile di destra e di sinistra – intossicata di statalismo – a danneggiare sia la Scuola statale che quella non statale?

  1. Se poi ci rivolgiamo al più specifico problema dell’Università – con tutte le continue denunce di corruzione soprattutto in relazione ai concorsi per professore – non Le pare che la soluzione più ragionevole, per rimettere sulla giusta strada il nostro sistema formativo superiore, possa proprio consistere nell’abolizione del valore legale del titolo di studio? Un governo dopo l’altro, con una riforma dopo l’altra, non hanno portato al disastro gran parte della nostra Università? Si pensi al 3+2 applicato in maniera meccanica e non oggettiva (dove e solo dove davvero serviva); o si pensi alle varie proposte di regole per i concorsi – tutte fallite!; con le ultime in base alle quali Einstein non sarebbe neppure ammesso al concorso e Kant (avendo pubblicato monografie e non articoli su “riviste accreditate”) verrebbe sicuramente bocciato.

  1. Sono ormai decenni, nel corso dei quali si è insistito, inascoltati, contro i guai generati dal monopolio statale sulla gestione della scuola. All’inizio fu la Destra ad impegnarsi per il buono-scuola – impegno che ben presto venne tuttavia dimenticato. Nel mondo cattolico il card. Camillo Ruini si espose, con ben argomentate considerazioni, per la giusta causa di una effettiva parità tra scuole di Stato e scuole non-statali – la sua, però, fu una battaglia che non durò a lungo. La Sinistra (insieme ai fondamentalisti anticlericali e alla massoneria) è stata sempre semplicemente cieca di fronte ai danni generati dal monopolio statale nella gestione della formazione – e ciò nonostante lo scossone dato da Luigi Berlinguer con la Legge 62/2000. E a proposito di Sinistra, non va dimenticato quel battagliero comunista romagnolo il quale, parecchi anni fa, in un dibattito a Milano sulla parità scolastica, confessò pubblicamente il suo grande disagio nel constatare che alla Sinistra non fosse entrata in testa una semplice e profonda “verità di sinistra”, e cioè che l’introduzione del buono-scuola equivarrebbe ad una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti.

Insomma: un fallimento dopo l’altro. Quello della conoscenza è un diritto primario senza del quale una democrazia muore. Con tante buone ragioni per non cedere più ad illusioni, ci siamo permessi di inviare questa lettera, spinti dal desiderio di sapere la Loro risposta a questi due interrogativi: 1. Quali sono le ragioni per non essere d’accordo sulla proposta del bono scuola (o su quella forma articolata di buono scuola elaborata dalla dott.ssa Suor Anna Monia Alfieri – che è il “costo standard di sostenibilità per allievo”)? 2. È ragionevole rifiutare, per quanto riguarda il sistema universitario, quella terapia consistente nell’abolizione del valore legale del titolo di studio? E, da ultimo, signora Ministro, la pregheremmo di ritirare la deplorevole proposta di sperimentazione di licei ridotti a quattro anni – un ulteriore furto di conoscenza nei confronti dei nostri giovani.

Cordiali saluti

Dario Antiseri

Flavio Felice

Camerino abbandonata, la rivolta dei prof

Articolo di Alessandra Camilletti pubblicato domenica 28 gennaio 2018 da Il Messaggero.

Camerino abbandonata, la rivolta dei prof

Sisma, 56 docenti universitari al governo: «Nessuna casetta consegnata»

Nella zona rossa sono chiusi gli edifici storici che ospitavano la scuola di Giurisprudenza, la facoltà di Informatica, il Rettorato, la direzione amministrativa e il polo di alta formazione. Strutture danneggiate dal sisma che ha colpito al cuore l’Italia, alcune completamente inagibili dopo, in particolare, le due scosse del 26 e del 30 ottobre 2016 e poi quella del 18 gennaio. E nessuna casetta, di poco più di trecento previste, ancora consegnata. La zona rossa di Camerino, città di settemila anime nelle Marche, è la più estesa del cratere. E da qui, da 56 professori che all’Università di Camerino hanno insegnato, parte un appello al Governo a fare presto, a riaprire la città. Ad accelerare la ricostruzione di Camerino e del prestigioso Ateneo, che si sono sempre rispecchiati e riconosciuti l’una nell’altro. Ateneo che nella città ducale conta settecento anni di storia, tra i più antichi d’Italia, e nomi illustri come Norberto Bobbio ed Emilio Betti e che negli ultimi due anni è riuscito anche ad aumentare le iscrizioni.

I NUMERI

Sono circa 1.200 le matricole su un totale di 8.150 iscritti, con una crescita del 20 per cento forse aiutata dall’azzeramento delle tasse universitarie. Le strutture chiuse dal sisma si sono trasferite. Al Campus già operativo hanno dovuto trovar posto anche Rettorato, uffici, Alta formazione e Giurisprudenza. La facoltà di Informatica è attiva nel Polo informatico. Ma la ricostruzione, la restituzione del centro storico ai suoi cittadini e agli studenti, sottolineano i professori, va accelerata. Il quadro più complessivo, dice che sono poco più di 300 le casette per i cittadini richieste alla Regione, una sessantina di queste “aggiunte” a dicembre. E al momento, risultano anche pronte 118 Sae. Il Comune ha pubblicato l’elenco degli assegnatari. Il problema è che non sono completate ancora le opere di urbanizzazione e non è possibile consegnare le chiavi.

L’ISTANZA

L’Appello per una tempestiva ricostruzione di Camerino e della sua università è stato inviato al premier Paolo Gentiloni, che il 6 novembre scorso intervenne all’inaugurazione dell’anno accademico. A promuovere l’Appello, il professor Alessandro Monti, già ordinario di Politica economica alla facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo ed esponente del comitato scientifico della Fondazione Bruno Visentini. «Ho cercato di rintracciare i colleghi, alcuni dei quali, come me, non insegnano più a Camerino ma restano ancora molto legati all’Università. E molto volentieri tutti hanno aderito. Abbiamo inviato la lettera alcuni giorni fa, ancora non abbiamo avuto risposte», spiega Monti. Tra gli aderenti molti nomi noti del mondo accademico e istituzionale. Tra loro Luciano Violante, già presidente della Camera dei deputati, e l’avvocato, già senatore, Guido Calvi, Giovanni Verde, già vice presidente del Csm, i costituzionalisti Antonio Baldassarre e Romano Vaccarella. Il giudice della Corte internazionale di giustizia all’Aia Giorgio Gaja, gli economisti Piervicenzo Bondonio, Giorgio Brosio, Mauro Marconi, Luciano Milone, Mario Sebastiani. Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, che di Bobbio è stato allievo. Tra gli obiettivi prioritari, riaprire il centro storico, con un cronoprogramma chiaro. «È trascorso quasi un anno e mezzo e la situazione si trascina un po’ – sottolinea il professore Alessandro Monti -. Quando ci sono terremoti è sempre difficile, ma nella precedente esperienza del ’97 furono iniziati subito i lavori. Oltre a puntellare gli edifici, sono necessari gli adempimenti per arrivare agli appalti: i cantieri non si vedono. Sostanzialmente, si procede a rilento e si tratta di capire se è possibile accelerare un po’. Capiamo che non si può capovolgere la situazione da un momento all’altro, ma magari dare un po’ più lena. Per fortuna a Camerino non ci sono state vittime. Ma molti si sono trasferiti, la cittadinanza vive una situazione di precarietà, la facoltà di Giurisprudenza soffre. Il Rettorato e le sedi che si trovavano nel centro storico restano chiuse. Una chiusura che allontana la ripresa della vita quotidiana. Il timore di ulteriori scosse fa procedere con molta prudenza nella realizzazione delle opere strutturali». Così l’appello, per sollecitare «soluzioni intermedie» per ridare respiro a Camerino e di far superare una «drammatica situazione di stallo». Passaggio importante, si spiega nella lettera, anche dotare di risorse il commissario straordinario, Paola De Micheli.

LE ATTIVITÀ

A fine dicembre è stata inaugurata l’area commerciale “Vallicenter”, con otto attività economiche e produttive delocalizzate a seguito del sisma. È stata realizzata dalla Regione con i fondi europei ed è la prima delle tre urbanizzazioni cittadine previste per il settore terziario. Per l’area maggiore, la “San Paolo”, dove si prevedono 69 attività, i lavori di urbanizzazione sono stati aggiudicati nei giorni scorsi, come la direzione dei lavori. Si tratta di un centro commerciale progettato proprio da Unicam. Certo, i cittadini non mollano. Camerino partecipa al progetto di crowdfunding lanciato dall’Anci per ricostruire le aree terremotate anche con piccoli progetti, con sottoscrizioni. In questo caso, l’obiettivo è il turismo all’aperto, con la ristrutturazione dell’area camper e l’ampliamento da 8 a 26 piazzole: servono 149 mila euro. Da subito, inoltre, è stata creata un’associazione, “Io non crollo”, con l’obiettivo dichiarato di «contribuire alla ricostruzione fisica, morale e sociale dell’intero territorio camerte».

Giuseppe Travaglini (Università di Urbino) – Più università il motore dello sviluppo

Articolo pubblicato lunedì 8 gennaio 2018 dal supplemento Affari&Finanza di la Repubblica.

Più università il motore dello sviluppo

Alcune settimane fa, in un convegno sull’Università italiana nell’Europa di domani organizzato dal Miur a Roma, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha affermato che il Paese ha bisogno di più università. Un’affermazione nuova, in controtendenza rispetto alle vulgate degli ultimi anni secondo cui la cultura sarebbe un “lusso” e il numero degli Atenei italiani addirittura “eccessivo”.

Il sapere e la ricerca sono il motore della crescita economica, oltre che di quella culturale e sociale di ogni cittadino. E le risorse che un Paese destina alla filiera della conoscenza sono il segnale più inequivocabile della sua volontà di investire nel futuro.

Ma qual è il quadro attuale? Il sistema universitario italiano è composto da 67 università statali, 19 non statali e 11 telematiche. Se lo raffrontiamo con il Regno Unito emerge una sproporzione a nostro svantaggio, tra due nazioni comparabili per numero di abitanti: 97 università in Italia contro le 161 anglosassoni. Ma anche per quanto riguarda il corpo docente e il personale amministrativo, il rapporto è sbilanciato: in Italia i docenti sono 56.480 contro i 185.580 inglesi, e il personale amministrativo in Italia è pari a 61.636 unità contro le 196.935 del Regno Unito. Insomma, un capitale umano britannico almeno tre volte superiore al nostro. E per l’Italia un deficit che toglie carburante al nostro sistema formativo superiore. E ai suoi fallout economici per innovazione e competitività.

Questo deficit è stato ricordato dal Rettore dell’Università di Urbino Vilberto Stocchi, in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Non c’è da sorprendersi se la percentuale dei laureati italiani è inferiore alla media dei Paesi economicamente più avanzati. Non solo. L’ultimo rapporto Ocse ha evidenziato che in Italia soltanto il 18% dei 25-64enni è laureato, mentre la media Ocse è due volte più elevata. Inoltre figuriamo all’ultimo posto fra tutti i Paesi europei nella fascia dei laureati tra i 25 e i 34 anni (24,2% contro una media Ue del 37,3).

Eppure, a fronte di queste criticità la ricerca italiana a livello internazionale, si colloca ai primi posti per numero di pubblicazioni scientifiche e per citazioni. Con punte di eccellenza (si pensi al tema delle Onde gravitazionali). Nel confronto Ocse con i principali paesi europei, i ricercatori italiani hanno il più alto tasso di produttività (800 articoli ogni 1.000 ricercatori, contro i 450 della media europea) e il maggior numero di citazioni (1.800 contro 1.450 della media europea). E tali dati appaiono ancora più sorprendenti se si osserva che l’età media di ingresso di un ricercatore è addirittura di 39 anni. E quella dei professori ordinari è di ben 58 anni.

I dati del Miur illustrano gli sforzi fatti dal sistema universitario per migliorare la ricerca e i piani formativi. Tuttavia, questi avanzamenti sono avvenuti in un contesto che ha visto dal 2009 un significativo taglio delle risorse. Come ha rilevato la Corte dei Conti, il Fondo per il finanziamento ordinario delle università è stato ridotto dell’11% negli ultimi 7 anni, con un taglio di 800 milioni. E ammonta appena allo 0,42% del Pil, contro l’1,5% di Francia e Germania. E tali risorse sono state commisurate al costo standard e alla quota premiale (anche per gli stipendi dei docenti). Con le performance degli Atenei divenute oggetto di valutazione (caso unico nella Pa) da parte di un’agenzia esterna, l’Anvur. Dal cui giudizio dipende parte delle risorse erogate alle università. Naturalmente, i tagli si sono abbattuti sulla spesa per la ricerca, sul rinnovamento della didattica e sul reclutamento dei giovani studiosi (fino a tre volte inferiori di numero a quelli di paesi come la Germania), valorizzati invece presso le istituzioni estere dopo essere stati però formati in Italia.

Insomma, un quadro di trasformazioni, con taglio delle risorse e restringimento dell’autonomia universitaria. Eppure, come è stato detto, il Paese ha bisogno di università. Ed è bene che la politica e la società civile prendano coscienza di questa necessità, perché oggi serve davvero più università. Serve al Paese perché la sfida del lavoro si gioca sulla qualità della formazione. Serve alle imprese perché la competizione è nell’innovazione. Serve alle università perché la conoscenza è nella ricerca. E serve ai nostri giovani, perché una formazione superiore e qualificata rende più duttili alle continue trasformazioni di tecnologia e globalizzazione, e contribuisce a configurare i nuovi orizzonti.

Perciò, abbiamo bisogno di più università. Poiché l’investimento nel sapere non è l’appendice ma è premessa per ogni idea di sviluppo. E garanzia del libero fluire delle idee in tutte le aree del sapere. A patto però che la politica e la società siano disposte a riconoscerne importanza e valore.

Prof universitari ancora sul piede di guerra: esami di gennaio a rischio

Articolo di Marzio Bartoloni pubblicato mercoledì 13 dicembre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Prof universitari ancora sul piede di guerra: esami di gennaio a rischio

Per gli studenti universitari, dopo l’appello di autunno ora è a rischio anche quello invernale. I docenti universitari – almeno gli 11mila che hanno già aderito al clamoroso sciopero dell’ottobre scorso quando saltò il primo degli appelli previsti in quella sessione – sono di nuovo sul piede di guerra. Nei giorni scorsi hanno scritto una lettera aperta al premier Gentiloni per annunciare la loro delusione per la soluzione trovata finora in manovra per lo sblocco degli scatti di stipendio. Se non ci saranno novità importanti nel passaggio alla Camera – avvertono – sono pronti a proclamare un nuovo sciopero.

Nel mirino della protesta il blocco degli stipendi del periodo 2011 – 2015: l’intervento previsto finora in manovra – che costa 150 milioni all’anno a regime – non recupera il pregresso, ma guarda al futuro e punta attraverso l’introduzione di scatti biennali e non più triennali a favorire soprattutto i giovani (anche in chiave pensionistica) che sono stati i più penalizzati in passato. La norma prevede che il nuovo meccanismo comincerà a decorrere con i suoi effetti giuridici dal 1 gennaio del 2018. Mentre gli effetti economici si vedranno solo due anni dopo. Ma i docenti nella loro lettera bocciano la norma, prevista nella legge di bilancio già approvata al Senato, lì dove prevede meccanismi selettivi che attribuiscono gli scatti in base a criteri premiali di merito. Un fatto che non va giù ai prof universitari che aderiscono alla protesta che lamentano il fatto che così «si introduce una premialità non prevista dalla legge 240/2010 (la riforma Gelmini, ndr) e così si riconoscono gli scatti, bloccati dal 2011 al 2015 per tutti i docenti, solo ad alcuni di essi e non a tutti i docenti meritevoli».

L’eventualità di un nuovo sciopero degli esami, già per l’appello di gennaio-febbraio, si deciderà dunque in questi giorni alla Camera. In realtà già al Senato, attraverso un emendamento presentato da Francesco Verducci del Pd, erano stati stanziati altri 60 milioni come una tantum per il pregresso (anche se, visto l’importo, avrebbe comportato un ristoro parziale del blocco del passato). L’emendamento alla fine non è stato approvato ma il Governo, attraverso il vice ministro dell’Economia Enrico Morando, si è impegnato a recuperare l’intervento. Che tra le altre cose – a quanto trapela dalla maggioranza – dovrebbe anche abolire il meccanismo premiale previsto per gli scatti biennali del futuro accontentando così almeno parte delle richieste dei prof in rivolta. Che nella loro lettera chiedono anche un riconoscimento per «i docenti universitari andati in quiescenza negli anni 2015-2016-2017». E concludono con un avvertimento: «Se il Governo persisterà nel suo proposito di ignorare le nostre legittime richieste, dovrà assumersi per intero la responsabilità politica di quanto accadrà».