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Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Regionalismo, i turbamenti di Zaia e Stefani

Articolo pubblicato mercoledì 31 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Regionalismo i turbamenti di Zaia e Stefani

Intervenendo nel primo incontro dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato del Dipartimento di giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II, Luigi Di Maio ha aperto alla possibilità di un ripensamento, nel metodo e nel merito. Ne sono turbati il governatore del Veneto Luca Zaia e il suo clone ministeriale Erika Stefani, che lamenta il silenzio di Di Maio sull’osservatorio «di cui io sento parlare oggi per la prima volta … Dopo un anno di discussioni mi auguro che nessuno voglia rimangiarsi slealmente la parola e l’impegno, di cui il presidente Conte è garante».
Stefani proprio non capisce di essere la causa del problema, e non la soluzione. La tempesta si alza per le cento riunioni che attesta di aver tenuto, ma nel più stretto segreto, e senza dar conto a chicchessia. Per di più giungendo a bozze d’intesa che non trovano preciso riscontro nel contratto di governo e nei pre-accordi Bressa-Gentiloni, rispetto ai quali segnano anzi un’abnorme espansione. In questo segna un punto l’ex ministro Claudio De Vincenti nell’intervista di ieri a Repubblica. Ma dovrebbe anche ammettere che fu comunque un errore, o meglio una precisa scelta, del suo governo firmare i pre-accordi. Che sul punto specifico delle risorse collegavano, in danno del Sud, i fabbisogni al gettito tributario riferibile al territorio.
In questa vicenda non ci sono innocenti.
Certo, è con le bozze Stefani che si vuole regionalizzare la scuola, le sovrintendenze, le autostrade, le strade, i porti, gli aeroporti, le ferrovie e persino la cassa integrazione. O si legalizza il furto trasferendo al demanio regionale infrastrutture strategiche costruite con i proventi delle tasse pagate da tutti gli italiani, e altro ancora. È nelle bozze Stefani che prende maggior forma e sostanza il separatismo del “grande Nord”. Per questo, una slealtà è imputabile proprio a Stefani. Poteva mai condurre in porto una riforma stravolgente per tutto il Paese occultando le carte e chiudendo la porta a qualsiasi interlocutore, o magari aprendola solo agli amici lombardo-veneti e/o leghisti? Se non fosse stata rinviata l’audizione prevista per il 30 luglio nella Commissione per le questioni regionali, sarebbe stato interessante sentire dal ministro Marco Bussetti con quale faccia e perché abbia concordato con Stefani la integrale regionalizzazione della scuola, dopo aver firmato un accordo con i maggiori sindacati che diceva il contrario.
Per Zaia, reca danno al Sud chi blocca l’autonomia. Da sempre, usa due soli argomenti: il referendum veneto, e il cd. “efficientamento”. Abbiamo ripetutamente dimostrato che non valgono un centesimo, e per favore cambi disco.
Nessuno, poi, si è mai impegnato a ridisegnare l’Italia secondo i desideri di Zaia, tanto meno Conte. Anzi, ci pare abbia detto il contrario, e l’incontro di Palazzo Chigi con i sindacati – che, con in testa Maurizio Landini, hanno confermato il loro no all’autonomia differenziata – ne dà conferma.
Tre suggerimenti dall’avvio dell’osservatorio. Il primo a Di Maio, che nell’incontro in Federico II ha profilato un remake del regionalismo differenziato. La nuova proposta sia pubblica, aperta al confronto con tutte le regioni, con studiosi, esperti, organi indipendenti. Si avvii finalmente nel Paese il dibattito che la ministra Stefani ha cercato di impedire. Di Maio non si chiuda in una sua trattativa privata con Salvini, che non sarebbe più commendevole di quella tra Stefani e Zaia. E perché intanto non si rendono pubbliche le carte come a oggi definite? Si sente dire che questo o quel punto già non c’è più. Bene, vediamo. Il secondo suggerimento al premier Conte: nessuno scambio tra fantasmagorici piani Marshall per il Sud e modifiche strutturali dell’assetto del Paese. I piani passano, le riforme restano. Il terzo ai governatori del Sud: dopo che Enrico Rossi per la Toscana ha espresso un fermo no, è urgente una loro posizione comune. Ne prenda la testa Vincenzo De Luca, e non insista nel dire che prima di lui nessuno aveva avvertito il pericolo. È troppo facile dimostrare il contrario.
Non ci faccia ricordare che la colpevole inerzia e la bassa cucina in passato della politica meridionale ha concorso a produrre i guasti di oggi.
Ormai, ci sono due Italie: quella degli egoismi territoriali, bene rappresentata da Stefani e Zaia; e quella degli eguali diritti, cui l’osservatorio della Federico II si candida a dare voce. Ma Stefani e Zaia stiano sereni. La Federico II non dismetterà l’indipendenza di giudizio e non prenderà parte a tifoserie. Nei suoi quasi 800 anni di storia ha conosciuto tempi tanto bui che persino Stefani e Zaia sarebbero sembrati fari di civiltà.

Lorenzo Fioramonti: «Tassa sulle bibite. All’università serve un miliardo»

Articolo di Luca Telese pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da La Verità.

«Tassa sulle bibite. All’università serve un miliardo»

Il viceministro all’Istruzione: «L’università ha bisogno di un miliardo che possiamo ricavare con imposte su bevande e merendine zuccherate. Meno obesi, più risorse. Se non arrivano i soldi, a dicembre mi dimetto

«Lei sta parlando con un viceministro condizionato…».

In che senso?

«Ho preso questa decisione: resterò al governo solo se nella prossima manovra ci sarà un miliardo in più per l’università e per la ricerca».

È serio?

«Più che serio. Determinato».

Però lei stesso ricorda che questo governo è il primo ad avere aumentato gli stanziamenti per l’università.

«Vero, ma non basta. Negli ultimi vent’anni, chi ci ha preceduto ha tagliato in ogni forma e ogni modo. Solo la Grecia ha fatto peggio».

E voi?

«Abbiamo scelto di investire 110 milioni in più. Poi abbiamo rischiato che questi fondi venissero congelati».

Quando?

«A dicembre, dopo l’accordo con l’Europa, Tria aveva bloccato 100 milioni, fino a luglio, per una sorta di autosalvaguardia. Poi, dopo una trattativa serrata ne abbiamo sbloccati 70».

E da 100 milioni vuole passare a un miliardo?

«Sì. Ma senza toglierlo a nessuno».

Come si fa?

«Ho sviluppato un modello di nuove entrate ottenute con disincentivi economici a cose che fanno male alla salute e all’ambiente».

Nuove tasse?

«Soltanto su alcuni prodotti: bevande, snack e merendine ad alto contenuto zuccherino. E poi voli aerei, industrie fossili, gratta e vinci».

Il prelievo migliora i consumi?

«L’ordine di grandezza lo stiamo valutando. Potrebbe essere 10 centesimi su una bibita da 1 litro o su una merendina da 100 grammi. Meno bambini obesi e più fondi: risultato straordinario».

Vuole punire?

«No. Mandare un messaggio».

Lorenzo Fioramonti: cresciuto in periferia a Roma. Professore universitario, si è formato tra Africa, Sudamerica e Nord Europa. Viceministro dell’Istruzione con delega per l’università. Era il volto più noto del famoso «governo ombra» del M5S. Serio, quadrato, ma anche molto critico: «Dobbiamo finire di fare ridicole guerre tra gialli e verdi: pensare non all’immagine di un partito, o di un governo, ma di tutto il Paese».

Si è laureato in storia economica a Tor Vergata. Poi?

(Allarga le braccia). «Inizio a girare».

Dove?

«In Belgio, a Gand, servizio volontario europeo. Vinsi una borsa di studio per lavorare in un’associazione ambientalista».

Per fare che cosa?

(Risata). «Prima le pulizie. Poi cucinare in un ristorante dell’associazione…».

Grandioso.

«Molto utile per perfezionare francese e inglese. Quindi in Inghilterra, una summer school di macroeconomia e statistica a Essex».

E poi?

«Prendo un dottorato tra Siena e l’istituto europeo di Fiesole. Il terzo anno vado a fare una ricerca sul campo, sul tema che studiavo: come cambiano i Paesi post autoritari quando tornano alla democrazia».

E dove va?

«A Pretoria, in Sudafrica. Dopo un po’ di tempo inizio a lavorare per la cooperazione allo sviluppo».

Mette su famiglia.

«Conosco e mi innamoro di Janine. Che è tedesca, ma nata e cresciuta in Venezuela. Per cinque anni abbiamo vissuto tra il Sudafrica, il Venezuela e l’Europa».

Mi dica una cosa sul Sudafrica.

«È un paradiso ricco di contraddizioni. L’unico posto dove i vantaggi tecnologici del “primo mondo” convivono con quelli ecologici e ambientali del “terzo mondo”».

Esempio?

«In una delle foto a cui siamo più affezionati Janine allatta il nostro secondo figlio in un parco, e al fianco ha una zebra che fa altrettanto con il suo cucciolo».

Fantastico. E com’è stata la vita a Caracas?

«In Venezuela sono stati usati presupposti giusti per fare cose sbagliate».

Lo dice mai ai tifosi chavisti del M5s?

«Sempre, ma non sono sicuro di averli convinti. Anch’io ero appassionato di Chavez all’inizio».

Poi ha cambiato idea.

«Era diventata una dittatura. Sostenuta dal 20% della popolazione. Non producono nulla, importano tutto, dipendono totalmente dal petrolio».

Quindi, fuga.

«Nel 2008 provo a tornare in Italia con un assegno di ricerca all’università di Bologna. Io e mia moglie vogliamo aprire un centro di ricerca, investiamo tutti i nostri risparmi, 120.000 euro in un terreno, dove edificarlo».

E come va a finire?

«Un doppio disastro. All’università quando c’è il concorso mi dicono: “Non ti presentare”».

Perché?

«Mi fanno capire che “non è leale” presentarsi con un curriculum come il mio: “Metti in difficoltà un’altra persona che lavora da tanti anni”».

E come pensano che lei accetti?

«Dicono: “Verrà anche il tuo momento”».

Per il centro avevate comprato il terreno a Ripoli.

«Ma durante gli scavi per il tunnel della variante di valico si produce una frana che colpisce il nostro Comune. Perdiamo tutto. Siamo in causa con Autostrade da 10 anni».

Vuole ritirare le concessioni?

«Mi basterebbe che pagassero i danni che producono».

Dopo le batoste, altra fuga.

«Stava per nascere il mio primo figlio e mi propongono un contratto da junior professor di economia politica a Heidelberg, in Germania. Avevo 32 anni. Passo da 1.200 euro al mese (di cui 800 per l’affitto) a 2.500 netti più casa e asilo pagati e 5.000 euro annui per i viaggi».

Quanto resiste?

«Tre anni. Poi arriva una offerta da Pretoria e torniamo in Sudafrica».

È il 2012, e lei diventa professore associato.

«Ottengo anche un secondo stipendio per restare in ateneo. Apro il mio centro di ricerca con oltre 30 ricercatori ed elaboro il progetto di un campus universitario completamente ecosostenibile».

E lo accettano?

(Sorriso). «Mi affidano 50 milioni di dollari per realizzarlo. Viene costruito in tre anni. A oggi ci lavorano 300 persone».

A questo punto scrive il libro che la porterà in Parlamento: Gross domestic problem, tradotto in italiano con Presi per il Pil.

«Il Pil è un indice molto imperfetto e obsoleto. Misura solo i consumi di mercato».

Indicatore non attendibile?

«Gli Stati Uniti che spendono quasi la metà del Pil in spese militari e mediche appaiono più virtuosi del Costarica, dove l’esercito è abolito per legge, le scuole sono gratis, i tassi di istruzione molto più alti di quelli dello Zio Sam, l’aspettativa di vita è altissima grazie alla sanità pubblica che costa una frazione di quella americana. Ma per il Pil, gli Usa sono sviluppati e il Costarica no».

Come arriva al M5s?

«Un giorno mi chiama Giorgio Sorial, ex parlamentare 5 stelle e oggi nello staff del ministero dello Sviluppo».

Perché?

«Aveva letto il mio libro quando faceva l’ingegnere in Irlanda e mi propone di presentarlo alla Camera nel 2017».

E lì conosce Di Maio.

«A dicembre, mentre ero a Roma per le feste di Natale, Luigi mi invita a pranzo a Milano. Accetto. E lui mi dice: “Vuoi stare nella squadra di governo e aiutarmi a costruirla?”».

Lei arruola Pasquale Tridico, futuro presidente dell’Inps, e Filomena Maggino, che doveva essere ministro della Qualità della vita.

«Ministero purtroppo mai nato. Ora lei lavora con Conte, nella cabina di regia di Benessere Italia».

Quando ha saputo del contratto di governo con la Lega?

«Guardando il telegiornale».

E di essere viceministro?

(Sorride). «Mezz’ora prima del comunicato stampa, la sera prima del giuramento. Via Whatsapp».

II ricercatore cui si diceva di non presentarsi è diventato il responsabile dell’università italiana.

«Mi impegno molto per questo settore, però non ho mai avuto la delega alla ricerca, nonostante fosse nei patti».

Come si trova?

«Un ministro ha decine di uffici e centinaia di collaboratori. Io ho 7 persone. Facciamo i salti mortali».

Il rapporto con Bussetti?

«Cordiale con lui e il suo gabinetto. Tuttavia, molto spesso, lavoro dalla mattina alla sera solo per capire che cosa fanno, e come, sui miei temi».

Sembra folle.

«Talvolta apprendo di decisioni che riguardano le mie deleghe solo dal passaparola».

Che cosa pensa del governo?

«Siamo diversi dalla Lega, per questo bene il contratto. Avrei preferito meno sbaciucchiate all’inizio, in cui si voleva far credere di andare d’amore e d’accordo. E meno litigate nei sei mesi successivi: più compostezza avrebbe giovato al Paese».

Sembra folle.

«Il bisticcio continuo è soffocante. Facciamo cose belle che si perdono nell’infantilismo dei tweet».

Faccia un esempio su che cosa migliorare.

« Ho seguito i dossier europei. Ho la fortuna di parlare inglese, francese e tedesco».

E che cosa ha capito?

«Per anni l’Italia non è stata all’altezza. Abbiamo mandato burocrati a leggere discorsi quando avremmo dovuto avere politici all’altezza».

Perché?

«L’autorevolezza è il frutto di competenze e avremmo dovuto mandare i migliori. Le decisioni vere si chiudono a cena, nei coffee break, parlando le lingue».

E quindi?

«Dobbiamo proiettare autorevolezza, soprattutto in Europa. Ne va del futuro del Paese. Serve progettualità nel lungo periodo».

Davvero senza fondi si dimette?

«Non sono venuto qui per una poltrona, ma per cambiare. Se non ci riesco, a Pretoria sto benissimo».