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Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Regionalismo, i turbamenti di Zaia e Stefani

Articolo pubblicato mercoledì 31 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Regionalismo i turbamenti di Zaia e Stefani

Intervenendo nel primo incontro dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato del Dipartimento di giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II, Luigi Di Maio ha aperto alla possibilità di un ripensamento, nel metodo e nel merito. Ne sono turbati il governatore del Veneto Luca Zaia e il suo clone ministeriale Erika Stefani, che lamenta il silenzio di Di Maio sull’osservatorio «di cui io sento parlare oggi per la prima volta … Dopo un anno di discussioni mi auguro che nessuno voglia rimangiarsi slealmente la parola e l’impegno, di cui il presidente Conte è garante».
Stefani proprio non capisce di essere la causa del problema, e non la soluzione. La tempesta si alza per le cento riunioni che attesta di aver tenuto, ma nel più stretto segreto, e senza dar conto a chicchessia. Per di più giungendo a bozze d’intesa che non trovano preciso riscontro nel contratto di governo e nei pre-accordi Bressa-Gentiloni, rispetto ai quali segnano anzi un’abnorme espansione. In questo segna un punto l’ex ministro Claudio De Vincenti nell’intervista di ieri a Repubblica. Ma dovrebbe anche ammettere che fu comunque un errore, o meglio una precisa scelta, del suo governo firmare i pre-accordi. Che sul punto specifico delle risorse collegavano, in danno del Sud, i fabbisogni al gettito tributario riferibile al territorio.
In questa vicenda non ci sono innocenti.
Certo, è con le bozze Stefani che si vuole regionalizzare la scuola, le sovrintendenze, le autostrade, le strade, i porti, gli aeroporti, le ferrovie e persino la cassa integrazione. O si legalizza il furto trasferendo al demanio regionale infrastrutture strategiche costruite con i proventi delle tasse pagate da tutti gli italiani, e altro ancora. È nelle bozze Stefani che prende maggior forma e sostanza il separatismo del “grande Nord”. Per questo, una slealtà è imputabile proprio a Stefani. Poteva mai condurre in porto una riforma stravolgente per tutto il Paese occultando le carte e chiudendo la porta a qualsiasi interlocutore, o magari aprendola solo agli amici lombardo-veneti e/o leghisti? Se non fosse stata rinviata l’audizione prevista per il 30 luglio nella Commissione per le questioni regionali, sarebbe stato interessante sentire dal ministro Marco Bussetti con quale faccia e perché abbia concordato con Stefani la integrale regionalizzazione della scuola, dopo aver firmato un accordo con i maggiori sindacati che diceva il contrario.
Per Zaia, reca danno al Sud chi blocca l’autonomia. Da sempre, usa due soli argomenti: il referendum veneto, e il cd. “efficientamento”. Abbiamo ripetutamente dimostrato che non valgono un centesimo, e per favore cambi disco.
Nessuno, poi, si è mai impegnato a ridisegnare l’Italia secondo i desideri di Zaia, tanto meno Conte. Anzi, ci pare abbia detto il contrario, e l’incontro di Palazzo Chigi con i sindacati – che, con in testa Maurizio Landini, hanno confermato il loro no all’autonomia differenziata – ne dà conferma.
Tre suggerimenti dall’avvio dell’osservatorio. Il primo a Di Maio, che nell’incontro in Federico II ha profilato un remake del regionalismo differenziato. La nuova proposta sia pubblica, aperta al confronto con tutte le regioni, con studiosi, esperti, organi indipendenti. Si avvii finalmente nel Paese il dibattito che la ministra Stefani ha cercato di impedire. Di Maio non si chiuda in una sua trattativa privata con Salvini, che non sarebbe più commendevole di quella tra Stefani e Zaia. E perché intanto non si rendono pubbliche le carte come a oggi definite? Si sente dire che questo o quel punto già non c’è più. Bene, vediamo. Il secondo suggerimento al premier Conte: nessuno scambio tra fantasmagorici piani Marshall per il Sud e modifiche strutturali dell’assetto del Paese. I piani passano, le riforme restano. Il terzo ai governatori del Sud: dopo che Enrico Rossi per la Toscana ha espresso un fermo no, è urgente una loro posizione comune. Ne prenda la testa Vincenzo De Luca, e non insista nel dire che prima di lui nessuno aveva avvertito il pericolo. È troppo facile dimostrare il contrario.
Non ci faccia ricordare che la colpevole inerzia e la bassa cucina in passato della politica meridionale ha concorso a produrre i guasti di oggi.
Ormai, ci sono due Italie: quella degli egoismi territoriali, bene rappresentata da Stefani e Zaia; e quella degli eguali diritti, cui l’osservatorio della Federico II si candida a dare voce. Ma Stefani e Zaia stiano sereni. La Federico II non dismetterà l’indipendenza di giudizio e non prenderà parte a tifoserie. Nei suoi quasi 800 anni di storia ha conosciuto tempi tanto bui che persino Stefani e Zaia sarebbero sembrati fari di civiltà.

«Devono milioni all’Erario». L’indagine sul doppio lavoro di 411 docenti universitari

Articolo di Fiorenza Sarzanini pubblicato lunedì 7 maggio 2018 dal Corriere della Sera.

«Devono milioni all’Erario». L’indagine sul doppio lavoro di 411 docenti universitari

Via alle richieste di risarcimento in tutta Italia. Nel mirino Ingegneria, Architettura e Chimica

Lavorano a tempo pieno nelle università, ma non hanno rinunciato all’attività privata. E per questo dovranno adesso risarcire lo Stato versando nelle casse delle strutture pubbliche quanto hanno illecitamente guadagnato. Sono 411 i docenti di Ingegneria, Architettura e Chimica finiti sotto inchiesta in tutta Italia. Obiettivo di un’indagine della Guardia di Finanza che ha già portato a decine di segnalazioni alla Corte dei Conti e in alcuni casi anche alla magistratura ordinaria. Dopo le condanne già emesse dai giudici contabili, si è deciso di effettuare controlli a tappeto nei principali atenei proprio per verificare il rispetto di quella legge che impone a chi sceglie il lavoro a tempo pieno di garantire un impegno di 350 ore e quindi il divieto a svolgere ulteriori attività ma anche ad accettare incarichi presso la pubblica amministrazione. Un’attività sollecitata dallo stesso presidente della Corte nel discorso di avvio dell’anno giudiziario quando ha evidenziato i risultati positivi per l’Erario ottenuti grazie a questo tipo di verifiche.

In Lombardia il record dei doppi incarichi

Il record del doppio lavoro spetta alla Lombardia con 60 casi, seguita da Campania con 49 e Lazio con 38. E quale sia l’entità del danno si comprende dalle prime contestazioni: 42 milioni di euro già richiesti a 172 professori. È solo l’inizio, anche tenendo conto che entro qualche settimana le verifiche saranno ampliate alle facoltà di Economia, Medicina e Giurisprudenza. I controlli già pianificati riguardano tutte le Regioni italiane con 35 casi in Sicilia, 31 in Emilia, 30 in Toscana fino agli 8 dell’Umbria e della Basilicata, i 6 del Trentino e i 5 del Friuli. È stato effettuato un lavoro di analisi della documentazione custodita presso le università e adesso si procede con le contestazioni. Il meccanismo è uguale ovunque: il docente si impegna a svolgere le proprie mansioni in esclusiva — tranne casi eccezionali che devono essere comunque autorizzati — e dunque a totale disposizione degli studenti, ma in realtà accetta incarichi privati molto ben remunerati e addirittura in altre aziende statali. I dati acquisiti dai finanzieri consentono di effettuare una stima ben più alta di quello che potrà essere il risarcimento da chiedere ai professionisti. Alla fine di questa tornata di controlli si conta di arrivare almeno al doppio della cifra già accertata, quindi oltre gli 80 milioni di euro. Del resto nell’elenco degli atenei figurano il Politecnico di Milano e quello di Torino; Tor Vergata, Romatre e la Sapienza nella capitale; la Federico II di Napoli e l’Unipa di Palermo. Università che ora dovranno vedersi restituire i soldi che sarebbero stati illecitamente percepiti dai professori. L’elenco dei docenti da controllare è stato compilato dopo una serie di verifiche effettuate grazie al controllo delle partite iva, ma soprattutto delle ore effettivamente garantite all’insegnamento e soprattutto a quelle attività necessarie per gli studenti come i corsi di formazione, la ricerca e l’aggiornamento scientifico, l’orientamento, il tutorato e la verifica dell’apprendimento. Compiti che i professori hanno invece eluso proprio per dedicarsi al secondo lavoro. E senza rispettare quelle disposizioni della legge che invece appaiono fin troppo esplicite. Secondo la normativa il professore a tempo pieno «può svolgere perizie giudiziarie e partecipare a organi di consulenza tecnico-scientifica dello Stato purché prestate in quanto esperto nel proprio campo e in assolvimento dei propri compiti istituzionali».

L’ingegnere non autorizzato e le consulenze per i progetti

In Liguria gli accertamenti per smascherare chi percepisce due o più stipendi sono già stati avviati da diverso tempo. Uno dei casi più eclatanti riguarda il professor Paolo Pinceti, docente di ingegneria presso l’università di Genova al quale la procura della Corte dei conti ha chiesto un mese fa un risarcimento per danni erariali di circa 2 milioni e mezzo di euro perché nel corso della sua carriera ventennale avrebbe accettato numerosi incarichi privati senza mai chiedere l’autorizzazione all’ateneo. Alla fine del 2017 i giudici contabili del capoluogo ligure hanno invece condannato il professore di architettura dell’ateneo cittadino Marco Casamonti a restituire 689 mila euro. Una delle contestazioni più gravi riguarda «le assenze dalle lezioni, emerse grazie all’analisi dei documenti ufficiali del Consiglio di facoltà e del Consiglio di dipartimento». Il professore risultava presente e invece si faceva sostituire dagli assistenti anche in alcune sessioni di esame.

Nel mirino avvocati commercialisti e medici

Mentre sono in corso gli accertamenti sui primi 411 professionisti, la Finanza sta già pianificando i prossimi obiettivi proprio tenendo conto di quanto è stato già scoperto a livello territoriale. Tra i casi citati dal presidente della Corte dei Conti di Milano c’è quello del professor Marco Baldoni — tra i massimi esperti per la rigenerazione delle ossa con le cellule staminali — che lo scorso anno è stato condannato a risarcire sia l’ospedale San Gerardo di Monza con 236.406 euro, sia l’università Bicocca con 4 milioni 155 mila euro. I giudici gli hanno contestato di aver svolto attività esclusiva di odontoiatra al San Gerardo e di professore ordinario a tempo pieno di Clinica odontoiatrica all’Università Bicocca, oltre alle visite nel suo studio privato. Proprio partendo da vicende analoghe (in passato ci sono stati numerosi medici di fama tra i quali il chirurgo Mario Baldini che lavorava presso la clinica Santa Rita di Milano ed è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire 306 mila euro) si è deciso di ampliare i controlli. Uno dei settori che la Guardia di Finanza si appresta ad esplorare è quello dei commercialisti che vengono scelti come docenti presso le facoltà di Economia, ma in molti casi rimangono spesso impegnati anche in attività private soprattutto per quanto riguarda le prestazioni alle aziende.

 

“Trentamila universitari senza borsa di studio”

Articolo di Corrado Zunino pubblicato giovedì 1 febbraio 2018 dal sito di la Repubblica.

“Trentamila universitari senza borsa di studio”“Trentamila universitari senza borsa di studio”

La denuncia della Link: “In nove regioni un ritardo di quattro mesi, gli studenti fanno lavoretti per anticipare le spese invece di studiare”. In Campania e Sicilia non ancora erogate tutte le risorse del 2016-2017

Denunciano gli studenti della Link che le borse di studio universitarie – destinate ai “privi di mezzi e idonei” – non arrivano. Da quattro mesi. In nove regioni. Erano previste per ottobre scorso, ma il riparto del Fondo integrativo statale è bloccato e l’assegno (a volte integrato da  agevolazioni su mense e alloggi) non si vede. Per pagare spostamenti e libri, nel caso dei fuorisede affitti, pranzi e cene, gli studenti devono anticipare in proprio o attraverso la famiglia di provenienza. Gli importi minimi di base di una borsa di studio ammontano, secondo il decreto ministeriale del 14 luglio 2015, a 5.118,36 euro per un fuorisede, a 2.821,67 euro per un pendolare, a 1.929,22 euro per uno studente in sede.

Almeno trentamila idonei beneficiari sono in attesa al Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna), al Centro (Marche) e al Sud (Abruzzo, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia): non hanno ricevuto la borsa per l’anno accademico 2017-2018, quello in corso. Scrive la Link: “Per poter anticipare le spese molti studenti hanno dovuto trovare lavoretti, spesso pagati all’ora, sottraendo tempo alla preparazione”.

Sul riparto delle risorse c’è stato un incontro tra ministero dell’Istruzione e Regioni lo scorso 5 gennaio, poi di nuovo il 19 gennaio, ora la questione è passata alla conferenza Stato-Regioni. Serve ancora tempo. “Chiediamo l’immediato sblocco dei finanziamenti, che devono essere distribuiti in base al fabbisogno regionale”, gli studenti organizzati.

In Toscana, regione non annoverata tra quelle in ritardo, si è registrata una riduzione dell’importo e così, per ottenere la copertura di tutti gli idonei, in Emilia Romagna. Gli Enti di diritto allo studio, poi, hanno subito l’applicazione di nuove restrittive regole sull’Iva, norme che hanno reso più dispendiosi i servizi. Il Piemonte ha aumentato le risorse a disposizione garantendo lo stesso livello dell’anno passato, ma in Campania e in Sicilia devono essere ancora erogate le borse di studio del 2016-2017. “Registriamo nel Paese la mancanza di alloggi e il costante aumento del costo dei pasti nelle mense”, dice la Link.

Nell’ultima Legge di bilancio era stato approvato un aumento di 10 milioni di euro a questo fine, ma, oltre all’esiguità della cifra, uno dei problemi ormai cronici è legato all’affidamento alle Regioni, spesso con bilanci in disordine, delle scelte sul tema. Già l’ex ministra Stefania Giannini aveva provato a spostare l’erogazione: “Lasciamo alle Regioni la gestione di mense e alloggi e diamo alle università i fondi per le borse di studio”.

Gli universitari della Link ora lanciano la campagna “E’ tempo di riprenderci quello che ci spetta”. Attraverso assemblee e mobilitazioni proveranno a costruire in ogni regione l’AltroBando, una serie di proposte di miglioramento delle norme che regolano il welfare studentesco. In primavera si aprirà la discussione sulle borse nei consigli di amministrazione degli Enti per il diritto allo studio.

Gian Antonio Stella – Scuola, chi lascia costa 27 miliardi

Articolo pubblicato martedì 30 gennaio 2018 da Il Corriere della Sera.

Scuola, chi lascia costa 27 miliardi

Ventisette miliardi e mezzo di euro: ecco quanto ci è costato negli ultimi anni l’abbandono di studenti nella scuola pubblica. Sono tantissimi, 27,5 miliardi. Due volte e mezzo il costo del tunnel della Manica. Eppure il tema, che dovrebbe far tremar le vene a ogni uomo di governo, è quasi assente in campagna elettorale. Un milione e ottocentomila ragazzi hanno mollato? Vabbè…

Certo, è tutto il sistema scuola a essere trascurato. Lo denunciava giorni fa, sul Corriere, Marco Imarisio: «In campagna elettorale c’è anche lei, ogni tanto fa qualche fugace apparizione, ma sempre in secondo piano. Non si vede, non si sente. Dal rumore di fondo che ci accompagnerà fino al 4 marzo emerge un dato chiaro. La scuola non è una priorità». Come se «investire maggiore attenzione e risorse nella scuola non significasse investire sul nostro futuro».

Si può misurare, quel prezioso investimento. Si tratta, come spiega un’inchiesta di Tuttoscuola in uscita oggi, di quasi settemila euro (per l’esattezza 6.914,31) che lo Stato impegna ogni anno (la fonte: Education at a glance OECD) per ogni studente delle «secondarie superiori». C’è chi lascia subito, un anno dopo essersi iscritto, chi dopo due o tre o quattro… Per non dire dello spreco di chi butta via tanti soldi e tanta fatica alla vigilia della maturità. Come lo sciagurato Gigio Donnarumma che mesi fa, dando un pessimo esempio a tutti i ragazzi della sua età, scelse di rinunciare al diploma di ragioniere per volare alle spiagge di Ibiza con un aereo privato messo a disposizione dal suo cattivo maestro, Mino «Lucignolo » Raiola.

Fatto sta che, tirate le somme, i ragazzi che hanno mollato gli studi nell’ultimo decennio nel sistema scolastico statale, stando ai calcoli di Tuttoscuola su dati del Miur sono stati 1.744.142. Un 28,5% «disperso, non pervenuto, “fumato” dal sistema di istruzione statale». Quelli che hanno abbandonato, dice il dossier, hanno lasciato in media dopo poco più di due anni: per l’esattezza 2,3. Risultato: hanno gettato tutti insieme l’equivalente di 27.438.139.345 euro. Una somma immensa. Ma niente, accusa la rivista di Giovanni Vinciguerra, «rispetto al costo sociale per le vite “segnate” di questi ragazzi senza istruzione e quindi in larga parte senza futuro».

Per capirci, «se è difficile trovare lavoro per chi ha raggiunto solo il diploma secondario superiore (il 28% rimane disoccupato), figurarsi quali sono le prospettive di coloro che neanche ci arrivano. Non a caso ben il 45% di coloro che sono in possesso della sola licenza media sono disoccupati». Ed è difficile purtroppo, insiste il dossier, «che non tocchi lo stesso destino ai “fuoriusciti” dalla scuola statale degli ultimi dieci anni».

«Non c’era stato appena spiegato che la dispersione è in calo?», chiederanno i lettori più attenti. Sì, e il nuovo studio lo conferma. Lo stesso Tuttoscuola pubblicava due settimane fa la notizia che, pur restando «forti squilibri territoriali», la Cabina di regia ministeriale istituita da Valeria Fedeli e guidata da Marco Rossi Doria scriveva che «cala la dispersione scolastica, con un tasso del 13,8% di coloro che abbandonano precocemente gli studi (dato 2016) contro il 20,8% di dieci anni fa. L’Italia si avvicina dunque all’obiettivo Europa 2020, al raggiungimento del livello del 10%». Dati ufficiali.

Quei dati però, per esser paragonabili agli altri numeri Eurostat (ogni Paese ha sistemi scolastici diversi) si riferiscono «a tutto l’insieme» del settore, compresi i corsi professionali o i corsi di recupero di istituti privati, in base a un indice «early school leavers, che fa riferimento alla quota dei giovani dai 18 ai 24 anni d’età». Ma è «uno» degli indicatori. «Il nostro», spiega la rivista, è «un indicatore empirico, di immediata comprensione, che misura la differenza tra il numero di iscritti all’ultimo anno delle superiori e quelli al primo anno di 5 anni prima. Non a campione, ma su numeri reali del Miur».

E i numeri reali per il sistema scolastico «statale», insiste, sono questi: «In Sardegna nell’ultimo quinquennio (dall’anno scolastico 2013-14, ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, all’anno in corso 2017-18, quindi non un’era fa) si sono dispersi nella scuola statale il 47,1% degli studenti degli istituti professionali e il 31,7% degli istituti tecnici, in Sicilia rispettivamente il 42,7% e il 29,7%. In Toscana il 32,7% degli studenti degli istituti professionali ha abbandonato: uno su tre». A farla corta: «Sono, ancora una volta, gli studenti dei professionali a far registrare, con il 32,1%, il più elevato tasso di abbandono». C’è un miglioramento, «ma la situazione resta drammatica».

Lì è il problema forse oggi più vistoso, scriveva due settimane fa il nostro Dario Di Vico: «Sembra incredibile che nel Paese dei Neet e con un tasso di disoccupazione giovanile al 32,7% gli imprenditori non trovino giovani da assumere». Penuria soprattutto di figure professionali. «Le aziende del Friuli Venezia Giulia si lamentano di avere pochi giovani che escono dalle scuole tecniche e “troppi liceali” e stiamo parlando comunque di una fase precedente al 4.0, che renderà ancora più grave la carenza di figure specializzate». E questo perfino in una regione dove la dispersione negli istituti professionali risulta «solo» dell’ 11,4%.

La realtà è così pesante che gran parte della campagna elettorale dovrebbe essere centrata lì. È vero, sono problemi complessi, «ma almeno parlarne, vivaddio, spiegare come si intenderebbe affrontarli…». Macché. Dice tutto una ricerca nell’archivio dell’Ansa, che non sarà la Bibbia ma aiuta a capire. Nell’ultimo anno, speso in gran parte da tutti per preparare l’Armageddon della campagna elettorale, sapete quante volte Matteo Renzi ha parlato della dispersione scolastica? Risposta dall’archivio: zero. E Silvio Berlusconi? Zero. Matteo Salvini? Zero. Giorgia Meloni? Zero. Luigi Di Maio? Zero. Pietro Grasso? Una volta: «Il problema delle baby gang nelle città e nelle periferie viene dalla disattenzione al fenomeno della dispersione scolastica». Evviva. Sarà stata una coincidenza, ma era proprio la mattina in cui il Corriere aveva sollevato il tema…

 

Scuola, aperta a tutti amica di pochi

Articolo di Corrado Zunino pubblicato venerdì 22 dicembre 2017 da la Repubblica.

Aperta a tutti amica di pochi

Chi viene da famiglie benestanti e con molti libri in casa, parte avvantaggiato. E più la formazione si fa alta più crescono le disuguaglianze

I capaci e i meritevoli, in condizioni però svantaggiate, si trovano nelle aule delle scuole tecniche e professionali. Nell’Istituto di istruzione superiore Melissa Bassi di Scampia, Napoli. Nel Pertini della Borghesiana, Roma. L’articolo 34 qui fatica a vedersi. Basta l’ultimo rapporto di Almadiploma, consorzio delle università italiane, per comprendere. Nei licei, il 92 per cento dei diplomati ha conseguito il titolo di studio senza ripetizioni. Si scende all’84 per cento negli indirizzi tecnici e al 78 nei percorsi professionali. Il rapporto tra discente e famiglia di provenienza è ancora stretto. Tra i ragazzi che frequentano il classico il 59 per cento ha genitori laureati, l’aliquota declina al 43 per cento per lo scientifico, crolla al 13 per il tecnico-economico e all’8 per chi si è iscritto a un professionale per l’industria e l’artigianato. Ai licei vanno i figli alto-borghesi (47 per cento al classico) e poco i ragazzi di famiglia proletaria (8 per cento). La ricchezza di partenza, il numero dei libri presenti in casa, gli incontri intellettuali possibili in età di formazione, incide sui voti: il 14 per cento dei ragazzi con almeno un genitore laureato ha concluso la secondaria di primo grado con “dieci o dieci e lode”, solo il 4 per cento, invece, fra chi ha genitori con un titolo di scuola media. La metà esatta dei diplomati professionali è pentita del corso di studi affrontato e alla vigilia della Maturità uno su cinque è disorientato rispetto al proprio futuro. Non si può dire che la scuola sia carogna con chi è povero, piuttosto che il mondo intorno alla sua scuola offre allo studente non abbiente meno possibilità. Nelle fasi di crisi economica e colpevole disinvestimento — il 2008-10 è stato drammatico — tutto ciò che servirebbe a ridurre le distanze si fa più magro: cicli di ripetizioni gratuite, restituzione di ore tolte agli istituti professionali (otto ore di laboratorio sottratte, tra il 2007 e il 2010), docenti di ruolo, investimenti veri sulle scuole del fare: gli Istituti tecnici superiori. La questione — i meritevoli non abbienti, “gli intelligenti non valorizzati”, come dice Jacopo Buffolo dell’Unione degli studenti — si fa più tagliente quando la formazione si fa più alta: l’università. «Hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi», dice la Costituzione. E lo Stato ha introdotto la “no tax area” esonerando gli studenti con redditi familiari fino a 13.000 euro. Ma, a fronte di una Germania che non ha rette d’ateneo in quasi tutti i Lander del Paese, nel decennio 2006-2016 la pressione fiscale universitaria da noi è cresciuta del 61 per cento e la tassa media è passata da 775 euro a 1.249. Due regioni di tradizionale benessere hanno ridotto l’importo delle borse di studio. A dicembre l’Emilia Romagna ne coprirà solo l’85 per cento: i fondi statali sono in ritardo e 3.147 universitari non avranno l’assegno da 3.170 euro (già limato, peraltro). La Toscana ha ridotto fino a 180 euro l’importo e ha aumentato il costo dei pasti nelle mense. Campania e Sicilia devono ancora erogare le borse dello scorso anno.

Negato a 50 mila studenti il diritto a borse di studio

Articolo di Nadia Ferrigo pubblicato venerdì 17 novembre 2017 da La Stampa.

Negato a 50 mila studenti il diritto a borse di studio

In Italia solo un misero 2% del totale riceve sostegno economico. Nel nuovo anno, aumentano del 10% gli “idonei non beneficiari”

Ai «capaci e meritevoli» la nostra Costituzione garantisce il diritto allo studio con borse e servizi, dall’alloggio alla mensa. O meglio, dovrebbe garantire. In Italia solo poco più del 2% del totale degli studenti riceve un sostegno economico contro il 20% di Francia, Germania e Spagna, lontanissimi dall’80% di Svezia e Danimarca. Essere gli ultimi in classifica ancora non basta: l’anno accademico appena inaugurato registra un aumento di oltre il 10% degli studenti «idonei non beneficiari», cioè che per reddito e merito dovrebbero avere una borsa, ma non riceveranno nulla. Erano 45.090 ragazzi nel 2011, 49.444 nel 2015 e la buona notizia dell’aumento delle immatricolazioni nell’ultimo anno accademico porterà a un altro balzo in avanti.

Una vergogna tutta italiana che ancora una volta fotografa un Paese spaccato in due: le Regioni più ricche come Veneto, Friuli e Toscana riescono a integrare con risorse proprie il fondo statale, mentre Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna rischiano di non soddisfare nemmeno la metà delle richieste.

«Con le risorse a nostra disposizione copriamo il 42% delle borse, così la Regione si è impegnata per un finanziamento straordinario – continua Luigino Filice, pro rettore dell’Università della Calabria -. Ai nostri “idonei non beneficiari” è l’università a garantire l’esenzione dalle tasse e un contributo per l’alloggio». «In Lazio gli idonei sono passati da 16.780 dello scorso anno a 20.790. Considerando che alle Regioni tocca coprire il 40% e al fondo statale il 60%, l’aumento previsto di 10 milioni di euro non può bastare per tutti – spiega Carmelo Ursino, presidente dell’Andisu, che rappresenta tutti gli enti per il diritto allo studio -. Secondo le nostre stime servirebbero altri 60 milioni. Poi c’è la drammatica situazione dei posti letto: se ne chiedono sempre di più, ma il posto non c’è».

A casa con mamma e papà

Otto universitari su dieci vivono a casa con mamma e papà. Cinque anni fa, come rileva il rapporto di Eurostudent sulle condizioni sociali ed economiche degli studenti europei, erano sette su dieci. Le famiglie che possono permettersi di pagare un affitto diminuiscono, così crescono le richieste per le residenze universitarie. Anche in questo caso i posti non bastano per tutti. Tra strutture degli enti universitari regionali, collegi e alloggi messi a disposizione dalle università in Italia ci sono poco più di 45 mila posti letto, circa 10 mila in più di quindici anni fa, la maggior parte nel Nord. «In Piemonte abbiamo duemila posti, assolutamente insufficienti – spiega Marta Levi, presidente Edisu -. Quest’anno resteranno fuori 1.500 ragazzi. Stiamo aspettando l’autorizzazione per un nuovo studentato, 90 posti». Ancora troppo pochi, proprio come nella virtuosa Toscana.

«Abbiamo richieste per 7 mila posti letto, riusciremo a garantirne 5 mila. A chi è in attesa proveremo a dare un contributo per l’alloggio – spiega Marco Moretti, presidente Dsu Toscana -. Quest’anno c’è una difficoltà in più: il cambio del regime dell’Iva sui servizi in vigore dall’estate ricade sugli studenti». Gli enti potevano infatti chiedere una compensazione all’Agenzia delle Entrate per l’imposta sui servizi per gli studenti, dalla metà di giugno si è passati all’esenzione: si traduce in una perdita di milioni di euro per gli enti regionali, che hanno chiesto al Ministero un fondo straordinario per ammortizzare la spesa. A spulciare le classifiche europee, l’Italia è tra i peggiori anche sugli importi delle borse. «Saremo in piazza a fine novembre per chiedere di invertire la rotta – conclude Andrea Torti, portavoce del sindacato studentesco Link -. Investire in università e ricerca non è un vantaggio per gli studenti, ma per tutto il Paese».

 

Diritto allo studio, gli studenti avvertono:  idonei in crescita del 10%

Articolo di Marzio Bartoloni pubblicato venerdì 10 novembre 2017 sul sito di Scuola24.

Diritto allo studio, gli studenti avvertono:  idonei in crescita del 10%

Nel nuovo anno accademico aumenteranno gli studenti con i requisiti per accedere ai servizi per il diritto allo studio. I dati delle graduatorie per borse di studio e posti alloggio relativi al 2017/2018 evidenziano un aumento generale del numero degli idonei. A segnalarlo è Link-coordinamento universitario che ieri ha organizzato a Roma un incontro con alcuni dei rappresentanti degli enti per il diritto allo studio.

In Lazio – segnala Link – sono passati da 16.780 dello scorso anno a 20.790 attuali, con un aumento del 24%; in Puglia le domande sono aumentate dell’8%; anche i dati relativi a Molise (+16%), Toscana (+3%), Emilia-Romagna (+3%) confermano un incremento che in media si attesta al 10%, trend che si prevede sarà confermato anche dai dati delle altre Regioni del Paese, ad oggi non ancora definitivi. Per questo – spiegano gli studenti – l’aumento di 10 milioni del fondo statale per le borse di studio previsto in manovra «non è un rimedio adeguato, ne servirebbero 175 in più per garantire una borsa a tutti gli aventi diritto, e comunque il nostro Paese manterrebbe il fanalino di coda nella classifica europea. Difatti solo l’11% degli studenti otterrebbe una borsa di studio contro il 39% della Francia, il 30% della Spagna e il 25% della Germania».

Ancora «più grave – aggiungono gli studenti di Link – è la situazione relativa ai posti alloggio per i fuori sede. In Italia il 73% degli universitari vive con i genitori, contro il 51% della Spagna, il 39% della Francia e il 4% della Danimarca. Tuttavia il nostro Paese offre posti letto in strutture organizzate solo per il 2% degli studenti fuori sede, contro il 10% di Francia e Germania e il 20% di Danimarca e Svezia». Dai primi dati a disposizione la situazione è solo in peggioramento, in Piemonte il numero degli aventi diritto al posto letto aumentano del 24%, passando da 4.052 dello scorso anno a 5.063 di quest’anno, portando gli esclusi a quota 1.572. Nel Lazio la situazione non è migliore: gli idonei aumentano del 32% e i vincitori di posti alloggio sono 1.937 a fronte di 3.082 idonei non beneficiari, in Puglia 1873 posti alloggio su un totale di 2.987 richiedenti. Questi dati vanno di pari passo con il caro-affitti, che negli ultimi anni aumentano mediamente del 4%, per una media di 416 euro al mese per una singola e 302 euro al mese per una doppia: ma i prezzi delle grandi città sono molto più alti. «Ci troviamo di fronte ad una reale emergenza abitativa che necessita di risposte strutturali. È necessario un piano straordinario per mettere a disposizione gli edifici pubblici dismessi e abbandonati e predisporre ulteriori residenze studentesche».

 

Massimo Inguscio e Gilberto Corbellini – Scienza, il bene dei beni

Articolo pubblicato domenica 17 settembre 2017 dal supplemento “Domenica” di Il Sole 24 Ore.

Scienza, il bene dei beni

L’inclusione da parte di Unesco di antiche faggete tra Toscana e Calabria e delle opere di difesa veneziane tra i siti riconosciuti come “patrimonio dell’umanità”, riposiziona l’Italia al primo posto, davanti a Cina, Spagna e Francia, quale sede geografica e politica del maggior numero di siti (53).

In quale misura il Paese è consapevole del valore economico e politico, oltre che culturale, di tale patrimonio? L’articolo 9 della Costituzione impegna la Repubblica sia a investire nella crescita della cultura e nella ricerca scientifica e tecnologica sia a preservare il paesaggio e il patrimonio storico e artistico. Per decenni le due dimensioni, ricerca tecno-scientifica e tutela di paesaggio-patrimonio, sono state pensate come distinte. Ma la situazione è cambiata.

Il Mibact ha fatto molto negli ultimi anni per migliorare la capacità di valorizzare queste risorse, riorganizzando, razionalizzando e liberalizzando le offerte per il consumo turistico e migliorando la qualità e l’efficacia della comunicazione. Serve, però, urgentemente investire in ricerca e reclutamento di giovani studiosi e tecnici, perché le conoscenze e tecnologie per la conservazione, lo studio e la comunicazione dei contenuti sono in continua evoluzione, e le opportunità cambiano di conseguenza. Siamo al primo posto per patrimonio culturale e ambientale posseduto, ma non per investimenti in ricerca e sviluppo di competenze nel settore, largamente surclassati dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Quest’ultimo Paese, in particolare, ha lanciato negli ultimi dieci anni una strategia per sviluppare sinergicamente la ricerca sul patrimonio culturale, con importanti risultati in termini di leadership scientifica internazionale, occupazione e incentivazione del turismo.

Il lavoro per promuovere il patrimonio culturale e ambientale italiano vede il Cnr tra i principali attori, con un impegno e un lavoro che partono da lontano, se pensiamo ad esempio alla fase di recupero culturale ed artistico durante e dopo l’inondazione di Firenze del 1966. Il Cnr è impegnato a sviluppare competenze, ricerche, servizi e prodotti spendibili nell’ampio e articolato campo della scienza del patrimonio culturale. La “scienza del patrimonio culturale” (heritage science) è diventata negli anni, da quando il termine è stato usato dal Science and Technology Committee della UK House of Lord nel 2006, un ambito di studi multi- e interdisciplinari che ha gettato davvero un ponte tra le cosiddette “due culture”, e si sta dimostrando fertile di ricadute economiche in primo luogo, ma anche conoscitive e culturali in generale. Stante una percezione spesso distorta della scienza, l’applicazione di metodi e tecnologie sperimentali allo studio, conservazione e trasmissione del patrimonio culturale aiuta anche la società a capire come funziona la scienza e perché svolge un ruolo essenziale per il progresso umano.

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