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Difendiamo la scuola del Sud

Articolo di Armida Filippelli pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Difendiamo la scuola del Sud

Si è molto parlato dei risultati delle prove Invalsi: il 35 per cento degli studenti di terza media legge un testo di italiano senza capirlo, il Meridione è in grande sofferenza e tutti dobbiamo allarmarci e contribuire a trovare soluzioni. È soprattutto alle medie che crescono le difficoltà, che poi diventano rilevanti alle superiori. Ancora una volta è comprovato che al Sud e nelle isole il sistema scolastico registra le maggiori difficoltà, strettamente legate allo status socioeconomico delle famiglie. Il direttore dell’Invalsi, Ricci, fa notare che al Sud gli studenti affrontano l’esame di terza media, avendo competenze da quinta elementare. All’esame di maturità i candidati con gravi lacune sono il 42 per cento, ma in Campania, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna i ”gravi ritardi” superano il 60 per cento! In Calabria 7 maturandi su 10 non riescono a leggere l’inglese. A una lettura più attenta dei dati Invalsi, però, non deve sfuggire che c’è un aumento statisticamente significativo rispetto ai dati del 2018, di 2,3 punti nel Nord Ovest, di 4 nel centro, di 2,5 nel Sud e di 4,1 nelle isole. Quindi si registra un miglioramento e prima di aumentare il coro dei catastrofisti e di concionare sulle colpe della scuola e dei docenti, occupiamoci subito di efficaci azioni politiche per cercare soluzioni adeguate. Se analizziamo meglio i problemi, scopriamo che il 35 per cento degli studenti del Sud che non capisce quello che legge, non ha frequentato il nido, non ha mai sperimentato il tempo pieno e ha accumulato più di una bocciatura. È evidente che bisogna agire con provvedimenti di sistema, soprattutto sull’incremento dei nidi perché quando parliamo di contesti deprivati, frequentare il nido aiuta a sviluppare le cellule neuronali e le abilità linguistiche. Bisogna potenziare il tempo pieno, favorire le compresenze dei docenti, che permettano maggiore permanenza a scuola e consentano una didattica individualizzata, con migliore assistenza pedagogica per contrastare l’alternativa pericolosa della strada e dei suoi modelli. Quindi uno studente di Napoli o di Palermo, quando si siede per la prima volta nei banchi, ha già accumulato tre anni di scuola in meno di uno studente di Milano o di Reggio Emilia. Quando il contesto familiare è degradato per difficoltà economiche e la genitorialità è fragile le difficoltà si manifestano da subito, determinando dispersione scolastica, bassi rendimenti e bocciature. Inoltre non dimentichiamo che uno dei fattori di miglioramento dell’istruzione è la formazione e la selezione dei docenti. Per diventare insegnante bisogna sapere ma anche “saper insegnare” e quindi occorre una formazione specialistica di pedagogia, di didattica, di psicologia oltre le competenze disciplinari. Bussetti, attuale ministro dell’Istruzione, oltre i tagli all’organico dei docenti, ha tagliato ogni possibilità di riforma della formazione docente. Spero vivamente che tutta l’attenzione mediatica solleciti ai decisori politici nuove strategie di potenziamento della scuola, con cospicui investimenti nel sapere, nelle tecnologie, con politiche di riequilibrio delle differenze di ricchezza e di conoscenza tra Nord e Sud. Insomma l’opposto dell’autonomia differenziata di cui tanto si discute, che vuole impadronirsi della scuola per farne uno strumento di governo della cultura e della conoscenza, condizionando la libertà e la democrazia del Paese. Occorre una grande mobilitazione per difendere la scuola organo costituzionale, “la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare, la scuola che è funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà” (Calamandrei). L’art. 34 recita: “La scuola è aperta a tutti. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. È l’articolo più importante della nostra Costituzione.

Al Sud è vietato il Politecnico

Articolo di Domenico Cacopardo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da ItaliaOggi.

Al Sud è vietato il Politecnico

Per legge, non si possono aprire succursali che sono ostacolate dalle pesanti baronie locali

Che la questione autonomia allargata non sia un capriccio politico o non soltanto un passo per la dissoluzione dello Stato unitario, me l’hanno mostrato le numerose e-mail ricevute dopo l’articolo di ieri, nel quale, tra l’altro, evocavo il disastro dell’istituzione delle regioni, l’invenzione dei tecnici democristiani e comunisti per assicurarsi nel 1947 una sorta d’insediamento permanente nella società e nell’architettura costituzionale del nostro Paese. C’è, quindi, un disagio diffuso al quale lo Stato nazionale deve dare qualche risposta, in coerenza con le norme della Costituzione modificate su input del centro-sinistra, con le mani di Franco Bassanini. Cercherò di percorrere una strada più esemplificatrice del passato, facendo parlare i fatti, non i pregiudizi o l’ideologia. Partiamo dagli esami di maturità che definiscono lo stato di preparazione degli studenti che hanno completato gli studi medi superiori (high school). Il ministero della pubblica istruzione comunica che il maggior numero dei 100 e dei 100 e lode si è verificato al Sud, a partire dalla Puglia, regione che detiene il record. Questo dato va confrontato con i punteggi conseguiti nelle prove Invalsi, l’unico metodo stabilizzato internazionale che definisce con una metodologia universalmente (o quasi) accettata, il livello della preparazione degli studenti (e indirettamente la capacità degli insegnanti, che, almeno nel bel Paese pour cause si sono sempre opposti all’applicazione del metodo). Ebbene, per l’Invalsi la situazione è opposta: proprio le regioni del 100 e del 100 e lode sono quelle nelle quali i coefficienti Invalsi sono i più bassi, denunciando soprattutto una grave insufficienza nelle prove di italiano. In Calabria e in Campania il 60% dei ragazzi non ha mostrato le conoscenze minime richieste dal test. Se avete dimestichezza con qualche professore universitario potrete avere diretta conferma del fatto che la preparazione degli studenti provenienti dal Sud è in genere più scarsa di quella di coloro che vengono dal Nord e che ciò si riflette sulla comprensione dei testi di studio e delle lezioni. Tra parentesi, se pensiamo all’atavico gap del Sud e delle isole, prima di decidere interventi finanziari ed economici, occorrerebbe immaginare un intervento organico sulla scuola e sulle università: una strada che comporterebbe qualche decina di anni di cure speciali, ma che è l’unica per far entrare in Europa un pezzo di Italia che, al di là della retorica, ne è rimasta fuori. Soprattutto nelle università: c’è solo una ragione corporativa e un’inaccettabile chiusura mentale e morale, per rifiutare, com’è stato rifiutato, che, per esempio, il Politecnico di Milano aprisse una scuola in Sicilia. Addirittura è la legge che proibisce al Politecnico meneghino, a quello torinese, alla Bocconi e via dicendo, di entrare nell’enclave clientelare e baronale costituita dal sistema universitario di Sud e isole. Se si vuol fare qualcosa, basterebbe un decretino (non uno dei decretoni cui ci ha abituato Conte) di un solo articolo: «È abrogato il divieto ecc. ecc.» Un altro tema caldo che non può essere dimenticato riguarda il livello e la qualità della spesa pubblica. Anni fa, regnante (con difficoltà e l’ostilità di Silvio Berlusconi) al Tesoro quel personaggio spesso sottovalutato, a torto, che si chiama Giulio Tremonti e al Lavoro Maurizio Sacconi, l’unico politico e ministro che avesse studiato la materia, si cercò di porre all’odg del Paese la questione dei costi standard. Detta in parole povere: qualcuno, alla Ragioneria dello Stato aveva scoperto (numeri solo dimostrativi) che l’ago da puntura fornita agli ospedali del Sud e delle isole costava alcuni multipli in più di quanto non costasse al Centro (così così) e al Nord. Insomma, come nella scuola, una sorta di inversione dei dati di base: dove i costi della sanità sono minori, l’efficienza è maggiore (e sappiamo tutti che c’è un biblico correre al Nord del malati del Sud, Napoli compresa); dove i costi sono maggiori, minori i risultati. L’extra-costo concentrato al Sud e isole è il prezzo di corruzione, criminalità e clientelismo. L’approccio, quindi, alle finanziarie, immaginato da Tremonti e Sacconi avrebbe comportato un avvicinamento dei conferimenti al Sud e isole ai costi standard definiti sulla media nazionale dei costi. Chiaro? Ovviamente l’ostilità all’iniziativa ha vinto confinandola ai margini delle manovre finanziarie dello Stato. Allora, dunque, che fare? Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pretendono un’autonomia allargata che non faccia pagare loro il prezzo delle dissipazioni, del clientelismo, della criminalità del Sud e delle isole. Fattori tutti che sono incistati nella politica regionale e comunale e che sono rimuovibili soltanto con tagli degli apporti finanziari. Il punto è che molti dissentono sulla strada intrapresa: un nuovo equilibrio economico e istituzionale a favore del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) può non essere un adeguato incentivo al miglioramento della qualità della spesa nelle altre regioni. Anzi, è possibile che aggravi gli squilibri e accentui le tendenze centrifughe. Tuttavia, la guerra mossa dai 5Stelle (con motivazioni light, niente di serio e approfondito che ci potrebbe e dovrebbe essere), all’ipotesi di autonomia allargata è sospetta: i grillini non sono espressione del Sud e delle isole che vogliono migliorare e accorciare le distanza dal Nord e dall’Europa, ma del Sud e delle isole parassitarie abituate ai sussidi e agli impieghi pubblici (non ai lavori). La partita in corso non vedrà, almeno per ora, una soluzione convincente. E, alla fine risulterà decisiva nella sopravvivenza della formula di governo. Ma solo per tifoserie, non per problemi reali, come quello di cogliere l’occasione per riqualificare la spesa al Sud e nelle isole. Una riqualificazione che provocherebbe una crisi del clientelismo e del mal governo che da quelle parti dominano da oltre un secolo.

Cesare Mirabelli – L’Autonomia tradisce la Costituzione. Ecco perché

Articolo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da Il Messaggero.

L’Autonomia tradisce la Costituzione. Ecco perché

La richiesta della Lombardia e del Veneto, oltre che dell’Emilia-Romagna, di ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia», differenziate rispetto alle altre Regioni a statuto ordinario, anima le polemiche politiche di questi giorni e manifesta, nella attuazione del principio autonomistico, una insidia.
La Costituzione afferma che la Repubblica «riconosce e promuove» le autonomie territoriali, dando corpo al principio di sussidiarietà tra le istituzioni, per il quale i poteri connessi alla rappresentanza politica e alla pubblica amministrazione devono essere esercitati al livello di maggiore efficienza, vicinanza e controllabilità da parte dei cittadini. Allo stesso tempo la Costituzione stabilisce che la Repubblica, della quale Stato e Regioni sono componenti, è «una e indivisibile», affermando un principio che la Corte costituzionale ha considerato uno dei «principi supremi dell’ordinamento costituzionale», sottratto anche alla revisione della costituzione.

L’unità e indivisibilità non ha solamente carattere territoriale, vietando la secessione. Unità e indivisibilità sono elementi essenziali della comunità nazionale, nella quale si esprime, come dovere inderogabile dei cittadini e obiettivo delle istituzioni, la solidarietà politica, economica e sociale.
Questi principi trovano espressione anche nel disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, e devono costituire le fondamentali linee guida per la attribuzione di una particolare autonomia alle Regioni che ne fanno richiesta.

La Costituzione pone specifici limiti e vincoli di carattere formale e di sostanza. La legge che attribuisce le forme e condizioni particolari di autonomia deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di una intesa tra il Governo e i rappresentanti della Regione interessata. La specifica determinazione di queste “forme e condizioni” di autonomia non può essere rimessa, con delega al Governo, a successivi decreti legislativi, sui quali non si esprimerebbe un voto delle Camere di approvazione ed una maggioranza qualificata.
L’autonomia differenziata è inoltre circoscritta nelle materie indicate dall’articolo 116 della Costituzione, che non possono essere integrate con il ricorso a questa procedura. In altri termini, la legge ordinaria non può ampliare le materie determinate dalla Costituzione, come invece si riscontra per le cinque Regioni a statuto speciale, il cui statuto è adottato con legge costituzionale.

Altrettanto chiari sono i vincoli che la Costituzione pone dal punto di vista sostanziale. L’attribuzione dell’autonomia differenziata ad alcune Regioni deve rispettare i principi, espressamente richiamati dall’articolo 116 della Costituzione, del cosiddetto federalismo fiscale, stabiliti nell’articolo 119. Le Regioni, come gli altri enti territoriali, devono avere tributi propri e disporre di compartecipazione al gettito dei tributi statali riferibili al loro territorio.
Ma questo non significa che ogni Regione deve ricevere e tenere per sé tutto quello che è prodotto nel suo territorio. Un “fondo perequativo” istituito dallo Stato deve riequilibrare la attribuzione delle risorse per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Non basta che il fondo esista, deve essere dotato delle risorse necessarie per finanziare in tutte le Regioni, e negli enti territoriali, le funzioni pubbliche loro attribuite.

È evidente, per esemplificare, che su Roma gravano gli oneri connessi all’essere capitale, funzione questa svolta nell’interesse dello Stato, e il cui finanziamento non può essere posto a carico della comunità cittadina. Inoltre lo Stato deve destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali per rimuovere gli squilibri esistenti e promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale. Ancora una volta, per rispettare quanto la Costituzione prescrive, le risorse aggiuntive devono essere adeguate in relazione al fine da perseguire.
Questo quadro rende evidente che l’autonomia differenziata è questione nazionale e non di interesse esclusivo delle Regioni che ne hanno fatto richiesta. È compito dello Stato, e per esso del Governo che costituisce il centro di imputazione unico e unificante delle trattative per le intese con le singole Regioni, avere una propria visione ed assicurare la compatibilità e la coerenza tra unità e autonomie. È un percorso stretto, che richiede un forte esercizio di ragionevolezza.

Il rischio è che l’autonomia differenziata costituisca uno strumento che consolida la divaricazione esistente o determina una nuova frattura nelle condizioni economiche e sociali del Paese. La frammentazione delle discipline e il permanere di Regioni svantaggiate si ripercuoterebbe anche sulla crescita di quelle più sviluppate.
Esiste anche una opportunità: procedendo con il rispetto delle forme, per gli obiettivi di valorizzazione delle autonomie e di garanzia della solidarietà che la Costituzione prevede, si potrebbe delineare, senza forzature nei modi, nei tempi e nei contenuti, una riforma non destinata, come è già accaduto in passato, a determinare nuovi conflitti e ad essere giudicata nel tempo negativamente anche da chi la ha promossa.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Roberto Danovaro (Università Politecnica delle Marche) – Quella percezione da scalfire delle nostre (buone) università

Articolo pubblicato giovedì 11 luglio 2019 dal Corriere Adriatico.

Quella percezione da scalfire delle nostre (buone) università

Sono uscite in questi giorni le graduatorie relative alla qualità degli atenei italiani. Direi che esistono ragioni di soddisfazione per la regione Marche perché tutte le università regionali mostrano punteggi elevati che le pongono ai primi posti della graduatoria per i medi atenei statali. In questo caso si può veramente dire che lavorare in un ateneo di medie dimensioni è bello, nel senso che, per uno studente universitario, frequentare un ateneo marchigiano è sicuramente un vantaggio rispetto a studiare in un mega-ateneo come quello di Roma o altri, non foss’altro che per la possibilità di avere un rapporto diretto con i docenti. In Italia, in generale, la qualità del corpo docente e delle infrastrutture di ricerca universitarie è ottima. La preparazione degli studenti che escono dai nostri corsi di laurea magistrale è eccellente. Non è un giudizio benevolo, ma una constatazione che nasce dall’evidenza che all’estero i nostri studenti ricevono moltissime offerte di borse di studio e di ricerca. Allora tutto bene? No, certamente non è tutto positivo. Ci sono moltissime cose da migliorare. In primo luogo esiste una percezione negativa sulla capacità dell’Università di promuovere il merito, almeno per quanto riguarda le carriere dei giovani. Gli scandali dei concorsi, come quello recente dell’Università di Catania, sottolineano quanto il mondo universitario sia ancora in alcuni casi chiuso e che alcuni concorsi siano ancora troppo pilotati e poco trasparenti. L’autonomia universitaria, cosa buona in linea di principio, è stata utilizzata purtroppo anche per promuovere interessi particolari a discapito dei migliori. Anche se questa non è la regola, e ci tengo a sottolinearlo. I giovani che trovano una collocazione nelle università italiane non sono tutti non meritevoli, anzi la stragrande maggioranza è di alto livello. Gli scandali recenti rischiano da dare una percezione sbagliata delle nostre Università, di fare di tutta un’erba un fascio. Quindi, il fatto che in alcune università italiane (come in altri ambiti pubblici) siano stati condotti dei concorsi in modo scorretto non deve diventare un alibi per chi non riesce a raggiungere gli obiettivi sperati o per fuggire all’estero. Molti dei nostri giovani laureati vanno all’estero anche perché sono attratti da molte più opportunità in termini di borse di studio e di posti di dottorato. Non solo perché sono stati scalzati da altri candidati meno meritevoli. I finanziamenti pubblici alla ricerca nella sola Germania sono pari a circa 92 miliardi di euro all’anno, mentre il finanziamento a tutte le università italiane non raggiunge 8 miliardi di euro oltre a circa 6 miliardi per gli enti di ricerca e ai finanziamenti strategici. Se consideriamo che il PIL della Germania è circa 3000 miliardi di euro e quello dell’Italia circa 1.8 miliardi non c’è dubbio che l’attenzione del nostro Paese per la formazione e la ricerca sia ancora troppo bassa per poter competere con i migliori. Se in Germania vengono bandite fino a 10 volte più borse di studio di quelle italiane, diventa normale che un bravo neolaureato italiano sia attratto dall’opportunità di farlo all’estero. Ma i problemi non finiscono qui. Ci sono troppi corsi di laurea a numero chiuso. Io sono da sempre contrario al numero chiuso. Mi sembra contro la logica della selezione del migliore, perché il migliore si vede alla fine del percorso non all’inizio, e contrario ai principi della Costituzione. Dobbiamo offrire a tutti la possibilità di scegliere il corso di laurea che preferiscono. La selezione non va fatta con test (a pagamento) che nulla hanno a che fare con il merito, ma con i risultati degli esami di profitto dei corsi. Se ci sono troppe domande per alcuni corsi, come ad esempio per medicina, si devono potenziare le strutture e i docenti, non mettere il numero chiuso, per poi magari scoprire che non formiamo abbastanza medici ed essere obbligati a reclutare dottori dalla Polonia perché i nostri medici vanno in pensione e non abbiamo giovani ricambi che abbiano studiato nelle nostre ottime università. Mantenere un figlio all’università costa ancora troppo per una famiglia monoreddito o in condizioni disagiate. Si fa ancora troppo poco per sostenere gli studenti che vengono da fuori sede e che hanno bisogno di alloggi, di sostegno di diverso tipo (libri, alloggi, biblioteche, mense) da parte degli atenei. Il sistema universitario regionale, a mio avviso, deve fare di più se vuole essere più attrattivo per gli studenti che vengono da fuori regione. Analogamente, i corsi di laurea italiani non sono molto attrattivi per gli studenti stranieri. Questo risultato è in parte dovuto al fatto che siamo reticenti ad attivare corsi di studio internazionali in inglese. Inoltre, non abbiamo docenti stranieri o sono pochissimi, mentre gli italiani abbondano nelle migliori università all’estero. Sono anomalie che andrebbero corrette se vogliamo università all’avanguardia. Infine, un’ultima nota negativa, in Italia ci sono ancora pochissimi laureati, circa il 20% della popolazione, contro una media del 33% dei paesi OCSE e circa il 40% in Spagna, Francia e Germania. È difficile far crescere un paese, sia culturalmente sia economicamente, se non formiamo di più e meglio le nuove generazioni e non le prepariamo ad affrontare, con le migliori conoscenze, i problemi che verranno. Quindi rimbocchiamoci le maniche, c’è ancora molto da fare per i nostri giovani se vogliamo che restino in Italia per migliorare il nostro Paese.

FLC CGIL – Ministro Bussetti, giù le mani dalla scuola nazionale e costituzionale. E si ricordi dell’intesa che ha sottoscritto con noi il 24 aprile 2019

Comunicato stampa di Francesco Sinopoli, Segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL, pubblicato lunedì 8 luglio 2019.

Ministro Bussetti, giù le mani dalla scuola nazionale e costituzionale. E si ricordi dell’intesa che ha sottoscritto con noi il 24 aprile 2019

Il Ministro Bussetti mostra due volti: uno quando parla con i giornali nazionali e con i Sindacati e un altro quando parla dai giornali locali.

Da quel che egli sostiene sul Corriere del Veneto del 7 luglio 2019 sembra emergere una totale dimenticanza di quanto ha sottoscritto con i maggiori sindacati della Scuola e dell’Istruzione il 24 aprile 2019.
Glielo ricordiamo noi, allora, quanto ha sottoscritto nell’Intesa:

“Il Governo si impegna a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo status giuridico di tutto il personale regolato dal CCNL, e la tutela dell’unitarietà degli ordinamenti statali, dei curricoli e del sistema di governo delle istituzioni scolastiche autonome”.

Ora, il Ministro dice che il suo modello si ispira a quello della Val d’Aosta e del Trentino, dove – ricorda in altro articolo lo stesso Corriere del Veneto – risorse, orario, piano di studio, contratti di lavoro, mobilità, aggiornamento del personale docente e ATA, reclutamento dei dirigenti scolastici, non sono più nazionali.

Dicendo ciò si confessa candidamente che il sistema scolastico e di istruzione non esisterà più perché diventa regionale a statuto speciale.
Non è questo che si legge in Costituzione.

I patti vanno rispettati e noi ci attendiamo che il Ministro recuperi l’unitarietà di memoria e di pensiero rileggendo quanto egli stesso ha sottoscritto insieme al Presidente del Consiglio il 24 aprile 2019.

La FLC CGIL non starà a guardare inerte allo scempio che si vuole fare della Carta Costituzionale e del sistema scolastico e dell’istruzione del Paese e si prepara fin d’ora alla mobilitazione del personale nelle forme democratiche necessarie, nessuna esclusa, fino a che questo sciagurato disegno non venga deposto definitivamente nel cassetto.

Lucio Picci (Università di Bologna) – Da Ferrara mi scrivono

Articolo pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 dal blog “ci penserò sopra”.

Da Ferrara mi scrivono

Il Rettore dell’Università di Ferrara, Prof. Zauli, mi dedica una lettera personale in risposta a quanto ho scritto.

Mi pare che in essa vi siano due questioni da sottolineare. Per primo, il Rettore Zauli dichiara, a proposito delle conclusioni della Commissione etica del suo ateneo circa le accuse di un noto whistleblower tedesco:

“Dopo oltre sei mesi di approfondimenti la Commissione Etica ha archiviato il caso non essendo emersi a mio carico né elementi dolosi né di colpa grave.”

Me ne rallegro; ma ci voleva così tanto a farlo sapere? E’ vero (purtroppo, aggiungo) che, come scrive il Prof. Zauli, “l’Università non è in alcun modo obbligata a rendere pubblicamente conto agli organi di stampa […] degli esiti [di tali] procedimenti […]”. Ma questo può applicarsi anche al Rettore, considerato il costo reputazionale per l’istituzione? E’ vero che l’Università di Ferrara “non è tenuta”, ma chi venga scagionato, mi pare, senz’altro “può” render pubblici gli atti. E secondo me, in un tal caso, dovrebbe – per responsabilità e per senso dell’istituzione.

E inoltre: chi avrebbe formulato delle accuse false (se ben capisco, e ovviamente non avendo letto le conclusioni raggiunte dalla Commissione etica, essendo esse segrete) è stato informato? Lo chiedo, dato che a distanza di mesi, quei documenti sono ancora pubblici.

E a fronte di un tale scagionamento di cui gli organi collegiali dell’Università di Ferrara sono edotti: scrivevo che a mio avviso sarebbe stata doverosa (da parte dei docenti) “solidarietà, e difesa della propria Università ingiustamente insultata”. Sino ad ora tale solidarietà non si è registrata, ma ora che tutti sono informati, magari si rimedierà. Nel qual caso, la mia critica a quei colleghi ad oggi silenti perderà ragione d’essere, e con loro anzi mi scuserò pubblicamente – per quanto penso che non sia sfuggito il carattere retorico della mia posizione.

Seconda questione, il Rettore scrive: “Intendo quindi applicare lo stesso rigore che ho applicato a me stesso a tutti coloro che per protagonismo o forse per ragioni non dichiarate si permettono attacchi gratuiti e diffamatori. È mia ferma intenzione salvaguardare la reputazione mia personale e dell’Ateneo in tutte le opportune sedi.”

E’ un po’ triste che la si butti sull’attacco personale e che si facciano insinuazioni, francamente offensive. Quali “ragioni non dichiarate”? Perché voler screditare personalmente l’interlocutore? E’ chieder molto, a una figura pubblica, serenità, e ragionamenti sul merito delle questioni?

A far domande e ad esprimere opinioni sull’agire delle nostre istituzioni non si diffama nessuno. E nel caso che le parole del Rettore dell’Università di Ferrara annuncino una prossima azione legale nei miei confronti: bene, si andrà sino in fondo. Amo le questioni di principio: la libertà di espressione e di rivolgere critiche a un’istituzione pubblica sono sacri diritti. Difenderli – in qualunque sede, appunto – sarà sicuramente degno di una buona battaglia: soprattutto in un’epoca in cui, forse, è giunta l’ora di spendersi in nome di qualche principio a noi caro. Considerando inoltre la protezione che la Costituzione offre al diritto di espressione e di critica (soprattutto, nella giurisprudenza, verso le personalità pubbliche o che comunque esercitano una funzione pubblica) senz’altro eventualmente contemplando la possibilità di andare oltre a una mera difesa.

Riservandomi, per ultimo, di chiarire le diramazioni e le implicazioni del parallelo proposto con Joseph Goebbels (due “B”) che, credo, richiederebbe se non altro una scusa pubblica da parte del Magnifico Rettore dell’Università di Ferrara: certi confronti feriscono molto. Non fanno onore all’Università e alla città di Ferrara, la cui storia forse il Rettore Zauli non conosce abbastanza bene.

Proviamo però a vederci qualcosa di positivo in questa vicenda: penso che si possa dire che, se non avessi scritto quel che pensavo, il Rettore dell’Università di Ferrara non avrebbe chiarito pubblicamente i fatti. E togliendomi l’abito professorale, e indossando quello di cittadino, un po’ scorato mi chiedo: ma perché in Italia, per avere un po’ di trasparenza dalle nostre istituzioni, si deve sempre “piantare un casino”?

Elena Cattaneo e Liliana Segre – «È stata ferita la libertà di pensiero»

Lettera pubblicata sabato 1 giugno 2019 dal Corriere della Sera.

«È stata ferita la libertà di pensiero»

La lettera delle due senatrici a vita. Quei 21 ragazzi, che come oltre sette milioni di loro coetanei in Italia, ogni mattina entrano a scuola, fra qualche anno dovranno iniziare a disegnare il futuro

«Rimarginare una ferita alla libertà di pensiero che accompagna il percorso formativo nel luogo sacro dell’educazione anche civica del cittadino: la scuola. Rafforzare il senso della democrazia conquistata. Mondare la macchia di uno Stato che impiega funzionari di polizia per acquisire un lavoro frutto della libera elaborazione di quindicenni nell’ambito delle celebrazioni per il Giorno della Memoria. Con questo spirito abbiamo incontrato in Senato i 21 alunni dell’istituto Vittorio Emanuele III di Palermo e la loro professoressa Rosa Maria Dell’Aria, protagonisti e simbolo loro malgrado di un’abnorme azione amministrativa, perché nel cuore dell’istituzione repubblicana, il Parlamento, si riconciliassero con un apparato statale dimostratosi solerte e ottuso, prima della salutare mobilitazione civile. Una vicenda che ha portato alla sospensione della docente che “non avrebbe vigilato” sull’elaborato dei suoi alunni costruito sulle fonti e i testi loro forniti. Sanzione che solo due giorni fa il Miur ha riconosciuto essere illegittima, impegnandosi ad annullarne ogni effetto. Tutti i momenti dell’incontro sono stati vissuti con reciproca curiosità ed emozione. I ragazzi, seduti nell’Aula della nostra più alta istituzione democratica, hanno potuto apprendere la storia del Parlamento. Hanno soprattutto ascoltato il racconto, in prima persona, di quella storia che hanno voluto riportare nel loro lavoro scolastico, ne hanno compreso la cieca crudeltà e l’irragionevolezza. Hanno condiviso lo stupore di fronte al male altrui e la responsabilità di coltivare il ricordo attraverso lo studio approfondito della Storia, troppo spesso negletta, senza aver timore di confrontarsi con l’oggi sapendone apprezzare similitudini e differenze. Quei 21 ragazzi che, come oltre sette milioni di loro coetanei in Italia, ogni mattina entrano a scuola con curiosità e desiderio di imparare da insegnanti come la professoressa Dell’Aria, fra qualche anno concluderanno il loro percorso scolastico e dovranno iniziare a disegnare il futuro. Ci auguriamo che vorranno vivere questa sfida combattendo sempre l’indifferenza e rispettando i valori della libertà, dell’uguaglianza, del rispetto reciproco senza i quali oggi non avremmo una Costituzione, un Parlamento né, forse, una Repubblica».

Tasse universitarie, ricorso degli studenti contro la Statale di Milano: “Il bilancio di previsione è fuorilegge”

Articolo di Luisiana Gaita pubblicato martedì 20 febbraio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Tasse universitarie, ricorso degli studenti contro la Statale di Milano: “Il bilancio di previsione è fuorilegge”

L’ateneo nel 2018 prevede di incassare dagli studenti 87,5 milioni e riceverne 267 dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario. “La legge però – spiega Carlo Dovico, coordinatore dell’Udu Milano – stabilisce che il rapporto tra il gettito complessivo della contribuzione studentesca e il Ffo non possa superare il 20%”. E c’è il precedente di Pavia, la cui università ha dovuto risarcire gli iscritti

“Agli studenti dell’università Statale di Milano vengono richiesti oltre 34,1 milioni in più rispetto al tetto imposto dalla legge”. Questa l’accusa dell’Unione degli Universitari che ha appena depositato un ricorso al Tar contro le tasse definite “fuorilegge” dell’ateneo milanese. Così come aveva fatto a Pavia, dove due anni fa il Consiglio di Stato ha condannato l’Università a rimborsare agli studenti 1,7 milioni di euro di tasse universitarie più gli interessi. Secondo le cifre inserite nel bilancio di previsione del 2018, la Statale prevede di incassare dagli studenti 87,5 milioni di euro. Lo stesso bilancio riporta che, per il 2018, l’ateneo prevede di ricevere 267 milioni di euro dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). “La legge però – spiega Carlo Dovico, coordinatore dell’Udu Milano – stabilisce che il rapporto tra il gettito complessivo della contribuzione studentesca e il Ffo non possa superare il 20%, mentre nell’ateneo milanese la percentuale è addirittura del 32,8%”. Il limite è fissato nel decreto del Presidente della Repubblica 306/1997 ed è stato poi confermato proprio dal Consiglio di Stato. Il ricorso al Tar per la Statale è stato depositato con l’obiettivo di restituire questi soldi agli studenti. Ma non basta. “Crediamo sia fondamentale che la prossima legislatura – spiega Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Udu – metta in atto una progressiva abolizione delle tasse universitarie, iniziando a toglierle a chi si trova in condizioni economiche più svantaggiate”.

GLI ATENEI FUORILEGGE – Quella delle tasse “fuorilegge” è una situazione che non riguarda solo la statale di Milano. I dati, però, sono fermi al 2011, quando 36 atenei pubblici su 61 totali, secondo i calcoli dei propri bilanci preventivi, sforavano quel limite con tasse medie di oltre i mille euro. Tanto che anche il Codacons ha lanciato un’azione risarcitoria sul proprio sito, pubblicando l’elenco degli atenei coinvolti, i cui studenti potrebbero avere diritto ad un rimborso. Nell’elenco, oltre all’Università di Pavia, l’Università degli Studi Insubria Varese-Como, quelle di BolognaBergamo, Statale, Bicocca e Politecnico di Milano, la Ca’ Foscari di Venezia, l’Università Iuav di Venezia, gli atenei di PadovaModena, Reggio EmiliaTorino, Verona e Ferrara. Cosa accade ora? “Stiamo aggiornando i dati nazionali in merito, per capire quanti atenei ancora superano quel 20%”, dicono dall’Udu.

UN PO’ DI DATI SULLE TASSE – Come già evidenziato nel rapporto sulla tassazione universitaria ‘Dieci anni sulle nostre spalle’, però, i dati sulle tasse sono significativi. Nell’anno accademico 2015/2016, a fronte di una tassa media nazionale di 1.250 euro e di 1.500 euro al Nord, l’Università Statale di Milano ha richiesto una tassa media di 1.640 euro, risultando tra le dieci più costose in Italia. “La nostra inchiesta – sottolineano gli studenti – dimostrava come le tasse fossero costantemente cresciute negli ultimi 10 anni, con impennate molto brusche successivamente ai tagli della Legge 133/2008 e della Legge 240/2010, dell’accoppiata Tremonti-Gelmini”. Il sottofinanziamento universitario consolidato con quelle due leggi è stato fatto pesare in prevalenza direttamente sulle spalle degli studenti, che in tutta Italia si sono trovati a pagare tasse schizzate alle stelle in pochissimo tempo. “Il gettito complessivo della contribuzione studentesca in Italia delle sole università statali si aggira attorno a 1 miliardo e 600 milioni di euro. La sola Università Statale di Milano – ricorda l’Udu – dal 2011 in poi ha prelevato dagli studenti, ogni anno, non meno di 90 milioni di euro”.

I PARADOSSI – Secondo l’Unione degli Universitari la situazione alla Statale di Milano è ancora più paradossale se si considera che l’anno scorso è stato riformato il sistema di contribuzione studentesca: “È stata mantenuta la discriminazione della tassazione studentesca per tre macro aree a cui sono afferenti i corsi di laurea”. In particolare è stata introdotta una no tax area fino a 14mila euro di Isee che può arrivare fino a 23mila euro nel caso in cui si abbiano anche una serie di requisiti di merito. “Si mantiene inoltre – aggiunge l’Udu – una maggiorazione per gli studenti fuori corso e per gli studenti silenti”.

IL LIMITE AL GETTITO – Tornando al limite stabilito dalla legge per il gettito totale delle tasse recepito da ogni ateneo, il principio di non superare il 20% di quanto ricevuto dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario è stato confermato dalle tre sentenze del Tar della Lombardia sui ricorsi presentati dall’Udu ai bilanci dell’Università di Pavia per gli anni 2010, 2011 e 2012 e, successivamente confermato anche dal Consiglio di Stato per tutti e tre gli anni. “Quelle sentenze – sottolineano gli studenti – confermavano un altro punto sostanziale, ossia che gli atenei non possono escludere dal conteggio del 20% la contribuzione degli studenti fuori corso”. Il governo Monti aveva modificato la normativa dopo il ricorso proposto nel 2010. Con il decreto Legge 95/2012, convertito con la Legge 135 del 7 agosto 2012, era stata infatti modificata la normativa sul 20%, introducendo la possibilità di escludere dal conteggio le tasse degli studenti fuori corso, secondo criteri da definirsi con un successivo decreto ministeriale. “Questo decreto – spiega l’Udu – non è mai uscito. Con la Legge di bilancio 2018, inoltre, è stata inserita una ulteriore tipologia di studenti che potrebbero essere estrapolati dal conteggio, ossia gli studenti internazionali. Riteniamo entrambe queste distinzioni fortemente discriminatorie e sbagliate e pensiamo possano sussistere anche elementi tali da renderle illegittime perché in contrasto con la nostra Costituzione”. Secondo Marchetti è inaccettabile “che il sottofinanziamento dell’università pubblica sia scaricato sulle spalle degli studenti, e che gli atenei decidano persino di ignorare quei limitati ed irrisori argini posti dalla legge a tutela degli studenti. È offensivo – conclude – verso gli studenti dichiarare, attraverso il bilancio di previsione, che l’ateneo non ha intenzione di rispettare la legge”.

Francesco Sinopoli (Flc Cgil) – Tutto nasce nella scuola

Articolo pubblicato dal n. 1/2018 di Italianieuropei.

Tutto nasce nella scuola

Sulla scuola e sull’università, negli ultimi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali non vengono ricomposte ma moltiplicate. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe invece essere uno degli strumenti per limitarle. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi. Allora come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo?

Non si può dare inizio, dal punto di vista del sindacalista, a una ricognizione storica delle trasformazioni nate dalle grandi lotte dei movimenti degli anni Sessanta senza ricordare alcuni dei giudizi che ne diede Bruno Trentin, protagonista indiscusso di quella stagione. Non a caso Trentin parlò esplicitamente di “secondo biennio rosso”, a cinquanta anni di distanza dal primo. «Fu in quel periodo che le nuove generazioni che non avevano vissuto la tragedia e le costrizioni della seconda guerra mondiale cominciarono ad assumere un ruolo da protagoniste», aveva scritto nel volume sull’Autunno caldo e il biennio rosso pubblicato nel 1999. Trentin colse innanzitutto un mutamento culturale nella coscienza di classe e parlò della emersione della «cultura dei diritti del lavoratore in quanto persona».1 Operai e studenti raggiunsero insieme alcuni risultati concreti. Si erano create commissioni per la riforma della scuola secondaria, dell’università, delle attività artistiche legate al teatro e al cinema e perfino il sistema dell’informazione venne sottoposto a dura critica. Gli operai avevano conquistato forme di autodeterminazione in fabbrica. Ed è proprio in questa carica antiautoritaria che Trentin individuò il collante dei movimenti che segnarono il 1968-69: la contestazione di una cultura ossificatasi in una serie di nozioni e di una organizzazione del lavoro che tendeva a espropriare e centralizzare i saperi, anche attraverso la segmentazione, la parcellizzazione del lavoro così come la contestazione di una rigida e impermeabile divisione dei ruoli tra dirigenti e diretti e, nella scuola, tra docenti e discenti.

Certo, non mancava una riflessione profonda sull’eredità del Maggio francese. Lo spirito antiautoritario dei movimenti francesi si era diffuso ovunque in Europa, da Roma a Praga, da Berlino a Londra. Furono conquiste che contribuirono in parte a trasformare l’Europa e il mondo occidentale, la cultura e i modi di vivere, l’atteggiamento verso gli altri e la conoscenza. E soprattutto, lanciarono quella sfida che evidentemente non è ancora stata vinta: rendere la scuola e l’università centri di propulsione sociale e dell’apprendimento, dove tutti si sentono uguali e a casa. In fondo, era questa anche l’utopia di don Lorenzo Milani. A partire da questa narrazione, quale può essere il giudizio sull’eredità del Sessantotto? Ce lo chiediamo spesso e spesso ce lo chiedono proprio gli studenti del XXI secolo, cinquanta anni dopo. Il fatto è che le interpretazioni di quanto accadde nel Sessantotto non solo hanno diviso gli storici, ma in questi cinquanta anni, almeno alcune di esse, sono state veicolate ideologicamente per attribuire tutti i mali dell’ultima fase del Novecento e degli inizi del XXI secolo proprio a quanto accadde in quell’anno. Soprattutto gli intellettuali della destra, amanti del ripristino dell’antico ordine culturale, ne hanno fatto l’origine di tutti i mali contemporanei. Le ansie di liberazione dalle forme più becere di autoritarismo nelle scuole e negli atenei, da una cultura dominata in Italia dalla ideologia gentiliana e crociana (in realtà già stigmatizzata da Gramsci in molte parti dei “Quaderni del carcere”), da forme di insegnamento e di apprendimento che generavano privilegi e diseguaglianze e scavavano solchi sempre più profondi tra ricchi e poveri, sono la vera eredità che il paradigma e la storia del Sessantotto consegnano all’attualità del XXI secolo. Non farsene carico vuol dire essere miopi, e accettare la vulgata di qualche revisionista storico.

Nei primi due anni di contestazione studentesca, infatti, nel secondo biennio rosso, le conquiste del movimento studentesco sembravano aver contagiato istituzioni politiche e sociali, che cominciavano ad andare in crisi. E prima tra tutte andò in crisi proprio la scuola. Mai come in questo periodo la scuola visse un fermento così diffuso ed enorme proprio sul piano della revisione della pedagogia e dei sistemi di insegnamento e apprendimento, e mai come in questi due anni il movimento degli studenti universitari era riuscito a vincere un paio di battaglie strategiche: la liberalizzazione degli accessi all’università per le scuole di ogni ordine, consentendo a tutti gli studenti di accedere a qualunque facoltà volessero, e la promessa di una riforma democratica delle scuole superiori, che venne varata solo anni dopo con la legge del 1974 sui Decreti delegati. Infine, quello stesso movimento all’alba del 1969 decise che era venuto il momento di trovare un’alleanza sociale forte con il movimento operaio, con le lotte nelle fabbriche.

Come guardare al Sessantotto, dunque, usando gli occhiali che ci fornisce la storia di oggi? Intanto, vorrei sottolineare un punto che mi sembra segnare un legame stretto tra “loro e noi”: la necessità di restituire al sistema dell’istruzione il suo valore costituzionale, dettato dagli articoli 3, 33 e 34. L’Italia era diseguale negli anni Sessanta come lo è oggi, sul piano economico e sociale. Discriminazioni e diseguaglianze forti, insieme con forme disgustose di privilegio, erano presenti allora come sono presenti oggi. Finiti i “trenta gloriosi” anni dell’espansione economica ci ritroviamo più vicini agli anni Cinquanta che agli anni Settanta. E soprattutto, il diritto universale allo studio, sancito dalla Costituzione, era tradito allora come lo è oggi. Com’è possibile che ciò accada? È possibile perché sulla scuola e sull’università, in questi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali (e su questo don Milani aveva colto perfettamente il nocciolo della questione, come Alex Langer disse più tardi) non vengono ricomposte ma moltiplicate.

Nel procedere dei decenni, la risposta del potere politico alle istanze del Sessantotto e dei primi anni Settanta di liberazione della scuola e dell’università, la risposta ai sogni di tante generazioni di studenti, la risposta alle domande di rinnovamento poste da nuovi docenti, fu di chiusura, fino a raggiungere il livello massimo con l’atteggiamento del governo quando fu varata la legge 107/2015, a coronamento di un processo ideologico continuo. Ricostruire istituzioni autoritarie del sapere: era questa la sfida che il potere politico aveva lanciato per contrastare la fenomenologia del Sessantotto, che richiedeva invece apertura e dialogo. E accanto alle istituzioni autoritarie, rianimare tutte le forme del privilegio. È così che nasce la “mitologia retorica” del primato del merito, o meritocrazia (il termine, coniato nel lontano 1958 da Michael Young, aveva assunto nella sua creazione un’accezione negativa), dell’ideologia “del capitale umano” da formare nelle scuole e da “prestare” all’industria, del “si salvi chi può”, che è la vera religione dell’ideologia individualistica della nuova borghesia pre e post crisi (Bauman ne descrisse i contorni sin dal 2002). Ora, però, dobbiamo fare esattamente l’opposto; restituire alle istituzioni del sapere quel sapore costituzionale che hanno via via perduto in questi anni di egemonia culturale neoliberista. Occorre perciò porsi l’interrogativo giusto: quale scuola vogliamo costruire, mutando sistema e paradigma, per le generazioni del XXI secolo, basandola su quali fondamenti e presupposti teorico-pedagogici e determinando quale senso attribuirle. Riteniamo che oggi si debba ripartire dalla riaffermazione della missione di contrasto alle diseguaglianze e di costruzione di un sapere critico per una cittadinanza consapevole.

Uno dei punti critici certamente è quello delle transizioni. In Italia le transizioni più problematiche sono nel passaggio tra la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado e tra quest’ultima e la secondaria di II grado. Nel primo caso è evidente come la generalizzazione degli istituti comprensivi si è risolta fondamentalmente in un’operazione di risparmio con la formazione di megaistituzioni scolastiche da mille e più alunni, mentre sullo sfondo sono rimaste le problematiche connesse alla transizione nell’approccio didattico educativo tra i due segmenti. In sostanza, vanno problematizzati i passaggi critici in cui la scuola dell’apprendimento diventa scuola delle discipline insieme alla complessità nell’affrontare le caratteristiche della pre-adolescenza nella società contemporanea. Nel secondo caso continuiamo a registrare soprattutto nel primo anno della secondaria di II grado un livello di dispersione scolastica (intesa come abbandoni, bocciature e ripetenze) inaccettabile. Dov’è che la scuola inizia a fare fatica nell’assolvere alla sua funzione costituzionale? Dove intervenire affinché nessuno resti indietro? La verità è che non si sono poste queste domande, ma al contrario le policy degli ultimi anni hanno privilegiato un approccio ben diverso, quello per il quale il miglioramento della scuola passa dall’assunzione del modello di “quasi mercato”.

Il sistema di “quasi mercato” elaborato in particolare in Inghilterra nell’era thatcheriana, poi raffinato negli anni successivi, per i suoi sostenitori – oltre a produrre una competizione tra istituzioni che già in quanto tale sarebbe virtuosa – porterebbe un beneficio ulteriore e immediato per le famiglie (i consumatori nello schema mercatista) che consiste nella possibilità di scegliere la scuola dove mandare i propri figli individuando quella più in sintonia con le proprie attitudini, inclinazioni ecc. Si innescherebbe un processo complessivo di miglioramento a livello di sistema appunto in quanto si potrebbero premiare le scuole “migliori”. Anche nel nostro paese secondo alcuni la competizione tra scuole dovrebbe contribuire a risolvere le criticità emerse dalle indagini nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti, incentivando il miglioramento delle istituzioni scolastiche in termini di efficacia e di efficienza. Da qui la centralità delle informazioni che le famiglie possono ricevere per effettuare la scelta. In particolare quella sui livelli delle conoscenze e competenze ottenuti dagli studenti che frequentano quelle scuole. Nel modellino tutto funziona. Nella realtà no. Nelle scuole dei quartieri più difficili e nelle zone più disagiate si concentrano i figli di chi per ragioni culturali ed economiche non è nelle condizioni di orientare la scelta. In sostanza nel paese dove il modello della school choice è stato pensato e realizzato nella forma più pura si registra un collasso della mobilità sociale. In Italia, la legge 107/2015 con il suo modello manageriale molto elementare è funzionale a realizzare la scuola della competizione e della concorrenza, l’opposto di quella dell’inclusione e dell’uguaglianza, per questo deve essere cancellata. Oggi dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica. Ossia se sia proprio vero che i figli della povera gente siano più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. In sostanza da quella domanda nacque l’esperienza di Barbiana e di don Milani. Perché oggi come ieri se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Il punto non è quello di consentire una scelta informata ma come far ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, come si costruiscono le condizioni per far sì che la scuola sia uno strumento di contenimento delle diseguaglianze e non un moltiplicatore. Le presunte ragioni “meritocratiche” che hanno coperto ideologicamente gli interventi sulla scuola degli ultimi anni dai tagli della Gelmini al primitivismo della chiamata diretta, del bonus docenti e di tutto il managerialismo straccione della legge 107, compreso l’assurdo sistema di valutazione dei dirigenti scolastici che funge da strumento di pressione per introdurre una competizione interna alle scuole e tra le scuole producono l’effetto opposto. Alimentano le diseguaglianze costruendo una scuola che specchiandole nei fatti le moltiplica.

Serve quindi un altro tipo di riflessione e bisogna sgombrare il campo da una serie di equivoci. Il primo è che la scuola non può essere più il terreno di confronto e di scontro tra forze politiche, per cui ogni governo si sente in dovere di “scrivere” la propria riforma. Nell’ultimo quarto di secolo, quella infrastruttura è stata modificata più volte, e non sempre, anzi, con risultati positivi. Il secondo è che le policy degli ultimi venti anni hanno letteralmente sbrindellato l’infrastruttura, che è diventata ormai una sorta di autostrada con mille buche, mille pericoli, e regole insensate. Il terzo equivoco è che non c’è alternativa al pensare a forme di investimento, di reclutamento, di intervento sul patrimonio edilizio, stabili, strutturali e notevoli, in coerenza con le grandi democrazie europee. Il primo dovere per un’infrastruttura di qualità è che abbia risorse, sia stabile, e che necessiti di poca o scarsa manutenzione. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe essere uno degli strumenti per limitarle. Oggi avviene il contrario. Nel corso degli ultimi anni il sistema di istruzione è stato trasformato in un amplificatore delle diseguaglianze sociali, all’opposto di quanto prevede l’articolo 3 della Costituzione. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università, hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi.

Come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo? Abbiamo lanciato una sfida all’opinione pubblica, che qui ribadisco: apriamo un grande dibattito, il più largo e unitario possibile, tra coloro che la scuola la vivono, i pedagogisti nazionali e internazionali, i sindacati, gli intellettuali, le forze politiche, e cerchiamo di giungere a una sorta di Assemblea costituente della scuola. Riscrivere le regole della scuola del XXI secolo non può che essere compito della nazione intera, perché quella infrastruttura è di tutti e interessa tutti (come pensava don Milani), perfino i nonni. Allora, occorre fermarsi e riflettere, evitando scelte estemporanee e decisioni spesso avventate (dagli smartphone al quadriennio, dai vaccini obbligatori alle esperienze negative, ma obbligatorie, in materia di alternanza scuola-lavoro – sfruttamento e ricatti, l’emendamento sull’uscita degli studenti delle medie). Sapendo che nessuno di noi ha la ricetta già pronta. Anzi. Il livello di problematicità è altissimo, la sfida è enorme, ma vale la pena tentarla, per evitare che ogni sisma, ogni piccolo scossone possa turbare il già delicato equilibrio della scuola e delle scuole. Altri spunti, per titoli: a) la centralità dell’intelligenza e del futuro degli studenti, abbinata al valore socialmente indiscutibile dell’insegnante; b) aumentare e rendere strutturali le risorse per l’infrastruttura scuola: arrivare ad esempio al 7 o all’8% del PIL, rispetto all’attuale 5% scarso (circa 100 miliardi l’anno), raggiungendo le democrazie occidentali più avanzate; c) dobbiamo mettere in discussione un sistema di valutazione che nei fatti sta legittimando la deriva verso il sistema di “quasi mercato” a cui abbiamo fatto riferimento prima; d) investire nella formazione continua di docenti e lavoratori della scuola; e) il ripensamento della didattica, rendendo ad esempio coerenti i programmi disciplinari; f) trasformare l’alternanza in “istruzione integrata”, nella quale si rende meno complicato il rapporto tra mondo del lavoro e mondo della scuola, evitando il rischio di sfruttamento, ma inserendo l’esperienza (Dewey) della disciplina del lavoro nel sistema dell’educazione; g) realizzare un vero investimento sulla scuola dell’infanzia e sulla primaria. In che modo pensiamo la scuola come infrastruttura? Cominciamo a costruirla sapendo che le sue fondamenta sono ben radicate nella Costituzione, nel diritto al sapere e alla conoscenza, nel diritto delle nuove generazioni a essere accompagnate nelle loro complesse esperienze esistenziali. Intanto, è ciò che abbiamo tentato di fare redigendo un Manifesto per “tutti e tutte” e come bene comune in una società democratica. Nel Manifesto è segnalato in particolare e tra le altre cose che «la scuola è un bene comune che appartiene al paese e non può essere oggetto di riforme non condivise e calate dall’alto (…) è funzionale alla rimozione delle diseguaglianze, enormemente accresciute in questi anni (…) non è un luogo di addestramento al lavoro, ma è una comunità educativa (…). La scuola dimostra ogni giorno che l’arte, la scienza, la cultura non sono riducibili a processi burocratici, a parametri economici, a logiche classificatorie e meritocratiche». C’è un nesso stretto e inscindibile tra il Manifesto per la scuola inclusiva e costituzionale, firmato tra l’altro dai quattro segretari nazionali dei nostri sindacati, e l’opera pedagogica e sociale di don Lorenzo Milani. Una scuola moderna o è aperta al mondo oppure non è, e una scuola aperta significa anche che nessuno resta indietro, dove tutti conoscono i diritti e i doveri che la Costituzione assegna ai cittadini, e dove nessuno, crescendo, può essere sfruttato. La scuola non può che essere la palestra della democrazia, ma anche della liberazione attraverso la conoscenza critica e la consapevolezza del mondo. Solo così riusciremo a trasformarla da elemento e fattore delle diseguaglianze sociali, a elemento dinamico della giustizia sociale e della democrazia, nella quale l’alfabeto dell’esclusione farà spazio alla società aperta e inclusiva. Un’infrastruttura scolastica non può che essere nazionale, e deve legare tutte le parti del paese, soprattutto le più disagiate.

Oggi purtroppo così non è. Se partiamo dalle università, si scopre non solo che in dieci anni sono migrati dal Sud verso il Nord (e l’Europa) circa 200.000 laureati, un esercito per il quale il Mezzogiorno paga un conto salatissimo e amarissimo, sia dal punto di vista esistenziale (giovani strappati alle famiglie), che da quello del mancato sviluppo per effetto dell’evidente impoverimento delle energie intellettuali (valutato in circa 30 miliardi l’anno), ma soprattutto che più della metà dei giovani che ogni anno si maturano nelle scuole secondarie del Mezzogiorno non possono iscriversi all’università per ragioni economiche e a causa dei costi diventati ormai proibitivi per famiglie per lo più monoreddito e con un’occupazione povera. Si tratta di una delle ingiustizie più gravi e drammatiche che un paese sviluppato possa tollerare: l’accesso allo studio, il diritto al sapere e a una vita migliore sacrificati per effetto di una condizione di povertà diffusa. Una beffa. In breve: se infrastruttura dev’essere, la scuola non può limitarsi a educare il capitale umano; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; non può che ottenere risorse finanziarie pari a quelle delle grandi democrazie occidentali; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non a moltiplicarle; come accade tra Sud e Nord, dove la sperequazione è aumentata nel corso dell’ultimo decennio. Infrastruttura sì, ma con molto giudizio. La verità è che i cambiamenti della scuola andrebbero approvati con maggioranze costituzionali, in grado di garantirne la continuità nel tempo. Cambiamenti che vanno attentamente valutati e monitorati. Dopo le presunte riforme degli ultimi anni, un intervento riformatore avrebbe bisogno di una vera e propria Costituente della scuola, tra le forze politiche e quelle sociali, i rappresentanti degli studenti e delle famiglie, il governo centrale e il sistema delle autonomie locali, per delineare un progetto condiviso. Per questo, in mancanza delle condizioni per realizzarla, a fronte di un quadro politico dove prevalgono spinte conservatrici e regressive, bisognerà promuoverne una dal basso, mettendo a disposizione tutte le nostre energie a servizio di una grande mobilitazione del mondo della scuola nella quale un ruolo chiave dovrà avere il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, perché la riconquista di diritti, salario e dignità si deve necessariamente coniugare a una idea di scuola radicata nella Costituzione, capace di guardare al presente e al futuro.

 


[1] B. Trentin, Autunno Caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969, Editori Riuniti, Roma 1999, pag. 11.