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Alba Sasso – Un liceo per ragazzi scelti come si deve, senza inutili scarti

Articolo pubblicato sabato 10 febbraio 2018 da il manifesto.

Un liceo per ragazzi scelti come si deve, senza inutili scarti

Licei e non solo. L’impegno a cancellare alla radice l’assetto della Buona scuola non è solo uno slogan efficace di campagna elettorale ma un obiettivo strategico irrinunciabile a sinistra

«Andare a scuola- diceva don Lorenzo Milani, profeta del nostro tempo- è un privilegio. Ma deve esserlo per tutti, anche per i ragazzi che nessuno vuole. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati».

Una volontà che partiva dall’esigenza di restituire dignità a ognuna e ognuno, anche attraverso l’istruzione gratuita e per tutti, attuando il dettato Costituzionale. Rimuovere gli ostacoli per un’effettiva eguaglianza.

Certo qualcuno può pensare che basta, che non è più tempo di andar dietro a ubbìe sessantottine e poi che questo può valere per i primi gradi dell’istruzione, ma poi dopo no, certamente no, quando si va alle scuole che contano.

Ai licei per esempio.

Non sono più casi isolati le presentazioni che alcuni tra i più prestigiosi licei italiani, di Roma, di Milano, di Genova (anche altrove avviene, ma fa meno notizia) fanno delle loro caratteristiche e dei loro percorsi di studio, prima delle iscrizioni per il prossimo anno. In alcune di esse, senza alcun pudore, si tende a precisare che l’assenza di gruppi di ragazzi svantaggiati per etnia o per censo (che poi sarebbero i poveri e gli immigrati) e dei ragazzi disabili permette di accogliere e seguire negli studi, con esiti più favorevoli, tutti gli altri «omogenei» frequentanti. Perché in questo modo si rende la didattica più semplice, come dichiara una dirigente. E si favorisce l’apprendimento.

E lo si dice così, senza troppi giri di parole, in maniera esplicita, impensabile fino a qualche anno fa. Come se si parlasse di un interesse generale. E’ solo per rassicurare i genitori e promettere loro che in quella scuola si insegna e si impara meglio, senza quelle «remore» che ne impediscono la tranquilla navigazione?

Per assicurarsi soprattutto i contributi, ahimè non più solo volontari, delle famiglie che possono pagare, che ormai in assenza di altre entrate sono il principale sostegno delle scuole?

La cosa che però preoccupa e sconvolge è che si sta parlando della scuola pubblica come se si trattasse di un percorso privato da gestire e far funzionare, ma solo per alcuni. Mettendo sotto i piedi o semplicemente ignorando una tradizione democratica della nostra scuola, quel ‘diversi ma eguali’ nella scuola di tutti, che nella giornata di ieri ha difeso anche la Ministra Fedeli.

C’è da chiedersi cosa sia successo in questi ultimi anni. In che modo si siano incrociate la volontà di non ascoltare la voce e la democratica protesta del mondo della scuola rispetto alla legge 107, le ansie manageriali, gli egoismi proprietari di alcune famiglie, la volontà di rottura di quel patto tra cittadini e Stato, per cui ognuno decide per sé, dai vaccini alle mense. E ancora, la sempre più grave mancanza di investimenti. Siamo un Paese che è sotto la media europea nel rapporto investimento in istruzione e prodotto interno lordo. Che è in Italia solo il 4%.

E infine pesa l’assenza, ormai da molti anni, di un dibattito pubblico, non interno alla vita della scuola, su quale sia oggi non solo il sapere che serve, ma il sapere che fa crescere, che ti fa incontrare altre vite, altre culture, altri mondi. Che sappia educare alla convivenza e al rispetto dell’altro da sé. Un sapere che ha bisogno di tempi distesi e soprattutto di confronto continuo.

Di tutto questo non si parla più da tempo. Con la 107 si è pensato di lavarsi le mani rispetto a tanti problemi, inventandosi managerialità e autosufficienza delle singole scuole anche rispetto alla loro sopravvivenza. Dimenticando che oggi serve più scuola per tutte e tutti, gratuita e obbligatoria fino ai 18 anni. E che non possiamo sostituire un governo complessivo del sistema, che esige confronto e condivisione tra scuola e Paese con il governo della singola scuola.

Questa vicenda lancia un forte allarme, perché è il simbolo di una malattia più profonda. Un Paese ogni giorno più gretto, più miserabile, più incarognito, in dissidio profondo con se stesso. Per questo bisogna lanciare un allarme democratico. E fare senza tregua una campagna contro queste miserabili ‘innovazioni’, che rischiano di respingerci verso un orizzonte di illimitata barbarie.

Riflettano su questi dépliant pubblicitari i cantori della «buona scuola».

Dobbiamo anche a quella legge questa nuova torsione elitaria e discriminatoria del confronto tra scuole.

Gratuità dell’istruzione universitaria, perché sì

Articolo di Cecilia Navarra, Cristiano Lanzano e Marco Gozzelino pubblicato mercoledì 17 gennaio 2018 dal sito di Sbilanciamoci.info.

Gratuità dell’istruzione universitaria, perché sì

Una analisi a tutto tondo del perché la gratuità dell’istruzione universitaria è un buon principio. La gratuità degli studi universitari esiste in numerosi paesi europei ed è stata cavallo di battaglia di svariati movimenti studenteschi

La recente proposta di gratuità dell’istruzione universitaria, fatta da Liberi e Uguali durante l’assemblea programmatica della settimana scorsa, ha visto un’aggressiva levata di scudi da parte dei diversi schieramenti politici, Partito Democratico in primis. Già Forges Davanzati ha scritto qui delle ragioni in favore della proposta. Aggiungiamo alcuni elementi che vanno nella stessa direzione, prima analizzando le principali critiche, poi portando alcune riflessioni “in positivo” sulla scelta di spostare i costi dell’università sulla fiscalità generale.

Due sono le critiche che sono già state affrontate in più sedi – a cui rimandiamo: ROARS e Valigia Blu – mentre qui ci limitiamo a una sintesi. La prima è quella secondo cui “in Italia studiare all’università costa già poco”. Per quanto la recente istituzione di una no-tax area per gli studenti sotto i 13.000 euro di ISEE (con criteri più restrittivi dal secondo anno di studi) dovrebbe migliorare la situazione, l’Italia resta un Paese in cui gli studi universitari costano più della media europea. Questa osservazione è derivata da dati OCSE  che mostrano che, se si considera solo l’istruzione pubblica, in Italia uno studente universitario paga in media poco meno di 2.000 dollari all’anno: in Europa, solo Spagna, Olanda e Inghilterra richiedono contributi più alti. Questa situazione ovviamente peggiora se inseriamo anche le università private, che alzano sostanzialmente la media. Il rapporto Eurydice 2017/18, invece, raggruppa i Paesi europei sulla base dell’entità delle esenzioni dai contributi e/o delle borse di studio. Ne risulta una classificazione in quattro gruppi, dei quali il peggiore per gli studenti è quello dove più del 50% di loro paga i contributi (non beneficia di nessuna esenzione) e meno del 50% riceve borse di studio. L’Italia fa parte di questo gruppo, dove peraltro rimarrebbe anche secondo le stime più generose dell’effetto dell’esenzione per i redditi bassi recentemente introdotta.

La seconda critica è quella per cui “l’Italia non ha bisogno di più laureati”. Eppure l’Italia è una Paese in cui ci sono sensibilmente meno laureati rispetto al gruppo dei Paesi di riferimento: come riportato negli articoli su ROARS e su Valigia Blu, di nuovo il rapporto OCSE ci dice che nel 2016 la percentuale di laureati sulla popolazione dei 25-34enni in Italia è il 26%, contro una media OCSE del 43% e una media europea del 40%. Non solo, la laurea in Italia dipende dalle condizioni di partenza della famiglia dello studente molto più che altrove: il seguente grafico, sempre di fonte OCSE, mostra la proporzione, in diverse fasce di età, di laureati tra coloro i cui genitori non hanno un titolo universitario. L’Italia è di nuovo sotto la media (anche nella fascia più giovane, dei 30-40enni, questa percentuale è sotto il 15%), mostrando una più elevata dipendenza dell’istruzione universitaria dei figli dall’istruzione universitaria dei genitori.

Figura A4.2

Ma affrontiamo anche la domanda da un altro punto di vista: ai futuri lavoratori italiani serve la laurea? Un primo piano della discussione è quello giustamente posto da Forges Davanzati su questo sito: sì, serve indipendentemente da “quello che chiede il mercato del lavoro”, perché la formazione universitaria serve in sé e non deve (al contrario di quanto fatto e proposto negli ultimi decenni) seguire le esigenze di breve periodo delle imprese. Una seconda possibile risposta è nuovamente positiva, se guardiamo il risultato dei laureati sul mercato del lavoro: i laureati in Italia durante la crisi hanno, sì, visto aumentare il proprio tasso di disoccupazione, ma meno dei non laureati: insomma, la laurea a qualcosa serve ancora.

Però sappiamo anche che dall’Italia lavoratori qualificati emigrano perché altrove trovano condizioni materiali e di riconoscimento migliori: in Italia, buona parte della forza lavoro, anche se qualificata, si trova intrappolata in forme di sotto-occupazione, in lavori che non corrispondono al livello degli studi effettuati, in mezzo a un’elevata competizione sul mercato del lavoro, in cui la formazione diventa un mero strumento “not to climb down the ladder” (per non scivolare giù nella scala occupazionale, efficace espressione utilizzata da Allen e Ainley, autori di “Lost Generation?”, libro del 2010 che affrontava proprio la questione di istruzione e disoccupazione giovanile). Dietro questo mix di disoccupazione e sotto-occupazione c’è un complesso di fattori, tra cui le politiche del lavoro volte esclusivamente ad abbassarne i costi e le tutele, e l’assenza di una politica industriale che abbia stimolato investimenti e innovazione (per i dati sull’innovazione, ad esempio, si veda qui sotto la spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo dell’Italia rispetto alla media OCSE).

Figura A4.3

Qui la questione di politica economica è rilevante. Abbiamo due possibili direzioni: abbassare il livello di istruzione a quello che richiede un mercato del lavoro mal funzionante, oppure “curare” il mercato del lavoro, rilanciare l’innovazione, entrare in modo più netto nelle decisioni di investimento delle imprese, e aumentare la qualità del lavoro.

Un ulteriore argomento dei detrattori della proposta è quello secondo cui “far pagare l’università alla fiscalità generale è regressivo, cioè trasferisce risorse dai poveri ai ricchi”. Questa tesi non è nuova: era entrata nel dibattito pubblico con alcuni contributi giornalistici di economisti a fine 2012. In un articolo di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese sul Corriere della Sera di fine 2012, in particolare, si diceva che finanziare l’università tramite la fiscalità generale equivale a far pagare l’università ai poveri, dal momento che le famiglie con reddito fino a 40.000 euro pagano il 54% del gettito Irpef, contribuendo in tal proporzione al finanziamento statale dell’università, ma da queste famiglie proviene solo un terzo degli studenti universitari. Da questo, ne deducevano che pagare l’università con la fiscalità generale fosse regressivo. Questa analisi è stata ampiamente criticata in quegli stessi anni. Possiamo citare due articoli comparsi sul blog del collettivo ROARS nei primi mesi del 2013: Francesca Coin e Francesco Sylos Labini stimano il contributo al costo dell’università tramite l’IRPEF di un cittadino povero e di un cittadino ricco, e ne deducono che non solo il primo contribuisce all’università meno del secondo, che il suo contributo è basso rispetto al totale della tassazione sulle sue spalle, ma anche che il primo paga sostanzialmente meno del costo pro capite degli studi. Nello stesso blog, Emanuele Pugliese e Ugo Gragnolati identificano separatamente i due fattori in contrasto tra loro e ne calcolano l’effetto congiunto, nell’ipotesi che l’università sia pagata interamente dall’IRPEF: da un lato, il fatto che i poveri pagano meno tasse, per la progressività del sistema fiscale, che fa sì che contribuiscano meno dei ricchi ai costi dell’università e, dall’altro, il fatto che all’università vanno molti più ricchi che poveri, ovvero che i poveri contribuiscono a un servizio che usano poco. Dal calcolo, su dati Banca d’Italia, emerge che il saldo è positivo per i primi 9 decili della distribuzione del reddito (il 90% più povero della popolazione) e negativo per il 10% più ricco. Insomma, più forte della scarsa partecipazione dei poveri all’università è la progressività delle imposte. Da questi studi, pur vecchi di qualche anno, emerge che, anche considerando il fatto che i poveri vanno meno all’università dei ricchi, spostare più finanziamento sulla fiscalità generale fa pagare di più i più ricchi, non il contrario.

Detto questo, la scarsa partecipazione di tutti, e in particolare delle fasce di reddito basse, all’università è esattamente il problema che un provvedimento del genere vuole affrontare. Anche ammettendo che la fiscalità generale paghi un servizio di cui usufruiscono di più i più ricchi, abbiamo due vie: accettare e rassegnarsi al fatto che gli studenti universitari verranno sempre dalle fasce più alte di reddito (e considerare di conseguenza l’università come un bene di lusso), oppure puntare a fare in modo che non sia più così, modificando radicalmente l’accesso all’università, affinché non siano più solo i ricchi a potervi accedere.

La seconda delle due strade significa adottare un approccio universalistico, che vede l’università come un diritto, e non come un servizio fruito da chi se lo può permettere. A rileggere oggi quel dibattito del 2012-2013 appare invece chiaramente che il punto di vista di Ichino e Terlizzese è quello di chi pensa che l’università non sia un diritto, ma un servizio usato da pochi e che questo stato di cose sia giustificato. Si legge nel loro articolo sul Corriere della Sera che “mentre tutti usano (o desiderano poter usare in caso di bisogno) la sanità o la scuola elementare (..), l’università è usata prevalentemente dai ricchi. E, come dice la Costituzione, l’università non è per tutti ma solo per i capaci e meritevoli”. Al di là della forzatura del messaggio costituzionale, è legittimo fermarsi un momento a discutere questo punto di vista. Esiste senza dubbio un piano politico, una scelta su cosa si considera un diritto e cosa no. Le ragioni per scegliere di includere nel diritto all’istruzione anche il livello terziario sono numerose, a partire dal fatto che gli strumenti richiesti dalla società odierna per una vita degna e autonoma sono più sofisticati del “saper leggere e scrivere”. Ma ci sono anche argomenti sul piano pragmatico: prima di tutto, l’Italia parte da un livello di istruzione terziaria talmente basso rispetto a economie simili (come abbiamo visto, meno di un quarto della popolazione è laureata) che sembra davvero esserci un problema di accesso. Secondo, chi devono essere quei pochi? Identificare il “merito” è molto complesso e la categoria è stata ampiamente messa in discussione negli ultimi anni, in particolare sottolineando la sua dipendenza dalle condizioni socio-economiche di partenza (ad esempio la sociologa Jo Littler qualche mese fa sul Guardian). Terzo: l’università è anche uno strumento di autonomia dei figli dalle famiglie di origine: universalismo significa che tutti hanno diritto ad accedere all’università – anche, ad esempio, il figlio del ricco a cui i genitori non vogliono pagare gli studi perché vogliono che lavori nell’azienda di famiglia.

In conclusione, diamo uno sguardo al resto del mondo: la gratuità degli studi universitari esiste in numerosi paesi europei, tra cui Svezia, Norvegia, Finlandia, Germania, Scozia. In alcuni Paesi questo si accompagna a un sistema di borse di studio che garantisce una copertura degli altri costi degli studi a più dell’80% degli studenti (fonte Eurydice), come in Svezia e Danimarca. Politicamente la presa in carico dei costi dell’università da parte della fiscalità generale è una rivendicazione che è stata al cuore del movimento studentesco cileno tra il 2011 e il 2013, e una drastica riduzione della contribuzione studentesca è stata al centro del movimento “Fees must fall”, che ha mobilitato le università sudafricane dal 2015. Non solo, negli Stati Uniti e in Inghilterra la gratuità delle università pubbliche è un cavallo di battaglia di Sanders e Corbyn e dei loro sostenitori anche alla luce dell’insostenibilità sociale ed economica del colossale debito accumulato dalle ultime generazioni di studenti. Insomma, nel mondo è un tema centrale, e questa proposta ha il merito di averlo riportato sulla scena anche del dibattito italiano.

 

Una vertenza generale per l’università

Articolo pubblicato martedì 23 gennaio 2018 dal sito di rassegna sindacale.

Una vertenza generale per l’università

Sinopoli: “Vogliamo ricostruire i paradigmi di senso dell’università, a partire da una Costituente che ne definisca la missione per il XXI secolo, e per le generazioni future”. Mercoledì le conclusioni di Camusso

È tempo di aprire una vertenza nazionale sull’università italiana per ricostruirne “i paradigmi di senso”, “a partire da una Costituente che ne definisca la missione per il XXI secolo, e per le generazioni future”. Con queste parole Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil, ha aperto i lavori dell’assemblea nazionale sull’università del sindacato. L’appuntamento ha avuto inizio a Cosenza il 23 gennaio, presso l’ateneo della Calabria di Arcavata, e si chiuderà mercoledì 24 pomeriggio con l’intervento di Susanna Camusso.

Nella sua relazione introduttiva ai lavori, Francesco Sinopoli ha colto la condizione di acuta sofferenza in cui versa l’università italiana, colpita in questi anni da una forte deprivazione di risorse (mentre in Germania e Francia, ad esempio, si aumentavano i fondi), da una generale precarizzazione del lavoro, soprattutto nella ricerca e da un’assenza di prospettive strategiche per il futuro.

In particolare, il dirigente sindacale ha sottolineato come in questi anni abbia pesato l’enorme riduzione delle immatricolazioni, dovuta all’innalzamento delle tasse che ha impedito a centinaia di migliaia di studenti della classe media impoverita di partecipare alla formazione universitaria.

“Inoltre – ha proseguito l’esponente Cgil – si è approfondita la frattura tra atenei del Nord e atenei del Mezzogiorno, in virtù di uno sciagurato sistema di valutazione messo in atto dall’Anvur, che ha premiato università già ricche e potenti, e ha devastato quelle del Sud, con l’effetto di una migrazione intellettuale di massa, verso Nord, che ricorda gli anni Sessanta e Settanta. Sono ormai più di 25.000 ogni anno gli studenti del Meridione che vanno a immatricolarsi in atenei del Settentrione. E ciò è un evidente freno per lo sviluppo dell’intero Mezzogiorno, poiché gran parte di essi difficilmente vi faranno ritorno”.

“Dinnanzi a questo ennesimo allarme sulla condizione universitaria del nostro Paese – ha ribadito Sinopoli –, che va ben oltre le disuguaglianze tra Sud e Nord, è necessario avanzare politiche di riforma dell’intero sistema universitario, che sappiano, come accade in altri paesi europei, offrire qualità dell’insegnamento e accesso universale, condizioni di lavoro e di ricerca basati su standard europei, ponendo fine alla piaga del precariato, e soprattutto fare in modo che la maggiore spesa pubblica per l’università non sia dettata da vincoli di bilancio, ma assuma una sua precisa centralità, assieme al finanziamento che spetta all’intero sistema dell’istruzione nazionale, che va rimpinguato di risorse”.

“Il messaggio da Cosenza è il seguente – ha concluso Sinopoli -: noi vogliamo ricostruire i paradigmi di senso dell’università, a partire da una Costituente che ne definisca la missione per il XXI secolo, e per le generazioni future. Questo è il compito storico e politico che vogliamo assegnare alla Flc, consapevoli che è giunto il momento di una svolta vera ed efficace. Pertanto, occorre riportare la riforma del sistema dell’istruzione e dell’università nell’alveo dei diritti e dei doveri prescritti dalla Costituzione, articoli 3, 33 e 34, perché sappiamo che se non si apre una più generale vertenza nazionale per l’istruzione, l’università e la ricerca nel nostro Paese, andremo poco lontano. Tutti”.

Università, non solo le tasse. Ma abbattere i costi dei servizi compresi nel diritto allo studio

Articolo di Monica Barni pubblicato domenica 21 gennaio 2018 dal sito di Huffington Post.

Università, non solo le tasse. Ma abbattere i costi dei servizi compresi nel diritto allo studio

La dichiarazione del Presidente Grasso sull’abolizione delle tasse universitarie ha riacceso l’attenzione sui temi dell’Università e del Diritto allo Studio di cui si parla troppo poco. Hanno permesso di ricordare che l’Italia è il terzo paese in Europa per livello di tassazione studentesca, più alto che in Francia e in Germania, per non parlare dei paesi scandinavi. L’introduzione della no “tax-area” nel finale di legislatura è stato il primo segnale di sostegno per i nuclei familiari a più basso reddito, ma non è sufficiente.

La questione delle tasse, pur se indubbiamente importante, non è da sola in grado di risolvere il vero problema: il tasso di laureati (26% nella fascia di età tra i 24 e i 25 anni) nel nostro Paese, ancora troppo distante dalla media UE (40%). Tra i paesi OCSE l’Italia occupa il penultimo posto in un contesto globale in cui una popolazione in possesso di una laurea è condizione per poter affrontare le sfide di innovazione nell’economia e nella società necessarie a rimanere tra i grandi paesi sviluppati. La laurea è ancora oggi un potenziale grande strumento di ascensore sociale e, all’opposto di quanto troppo spesso divulgato, garantisce nel mondo del lavoro una condizione lavorativa migliore. I laureati godono di vantaggi occupazionali significativi rispetto ai laureati di scuola secondaria superiore durante tutto l’arco della vita lavorativa e, in generale, si mostrano in grado di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro, disponendo di strumenti culturali e professionali più adeguati (dati Almalaurea 2016).

La questione allora non riguarda solo le tasse universitarie, ma anche i costi quotidiani della vita universitaria: dall’alloggio alla mensa, dai trasporti ai libri di testo, insomma a tutti quei servizi compresi nel Diritto allo Studio.

Rispetto ai paesi europei, l’Italia ricopre le ultime posizioni per finanziamento agli strumenti del diritto allo studio lasciando così le famiglie a reddito medio e basso spesso sole di fronte ai costi della vita degli studenti universitari. Basti pensare che ad oggi gli studenti che beneficiano di un sostegno di Diritto allo Studio sono in media il 25% in Francia, circa il 34,7% in Germania e solamente l’8% in Italia. Un 8% che oltretutto rappresenta solamente chi gode effettivamente di un sostegno per lo studio. In base alla normativa in vigore gli aventi diritto sarebbero il 10%, ma, a causa della mancanza delle risorse, migliaia di studenti restano privi della borsa di studio a cui hanno diritto. Quindi garantire la borsa di studio almeno a tutti coloro che oggi hanno diritto deve essere la priorità politica.

E’ doveroso ricordare come la responsabilità costituzionale di sostenere il diritto allo studio spetti alle Regioni sulla base del Titolo V della Costituzione, per competenza diretta, ed allo Stato per la competenza perequativa, tramite il Fondo Integrativo Statale (FIS). A contribuire sono anche gli studenti stessi con il pagamento della tassa regionale che sostiene il DSU in maniera significativa. Analizziamo allora come lo Stato, le Regioni e gli studenti stessi concorrono per il sostegno al Diritto allo studio. Mentre in Francia o Germania il finanziamento dello Stato supera il miliardo di euro, il FIS, consolidatosi intorno ai 150 milioni fra il 2004 e il 2008, è arrivato a 256 milioni nel 2009, scendendo poi sotto i 100 nel 2010 e 2011 per poi risalire e assestarsi intorno ai 160 milioni di euro negli ultimi anni. Segnali positivi di incremento che si sono confermati nell’ultima legge di bilancio con 20 milioni recuperati dalle borse di merito che erano state progettate per 500 (?) studenti delle scuole superiori di secondo grado, mentre mancano ulteriori 10 milioni che dovevano essere recuperati. Come vediamo dai numeri le principali criticità del finanziamento statale sono sia la carenza di risorse (in miglioramento negli ultimi anni), sia l’incertezza circa la permanenza del sostegno da un anno all’altro che rende difficile fare programmi a lungo termine, sia, aggiungiamo, la non tempestività di erogazione dei contributi.

Alla mancanza di finanziamenti certi da parte dello Stato corrisponde una non omogenea volontà delle Regioni al sostegno al Diritto allo studio. Infatti, se da un lato ci sono Regioni virtuose, dall’altro troviamo Regioni totalmente indifferenti al finanziamento che negli anni hanno lasciato migliaia di studenti senza la borsa di cui avevano diritto, non erogando risorse o erogandone in misura insufficiente.

Fra le Regioni virtuose ricordiamo la Regione Toscana che ha sempre operato non solo per garantire i servizi esistenti, ma anche per potenziarli, grazie soprattutto all’investimento di risorse proprie, anche negli ultimi anni, pur in presenza di una fortissima contrazione del bilancio regionale. Analogamente anche altre Regioni hanno garantito i servizi attraverso fondi propri o strutturali.

Per porre rimedio a questa distorsione è necessario dare finalmente attuazione completa e definitiva al decreto attuativo del Dlgs. 68/2012, ovvero alla definizione di quei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) che obbligherebbe tutte le Regioni e lo Stato a contribuire in maniera proporzionale e certa al finanziamento del sistema del Diritto allo Studio. La definizione dei LEP deve essere una priorità e non solo per la certezza dei finanziamenti, ma perché aiuterebbe a definire in modo più omogeneo ulteriori aspetti dei servizi per gli studenti quali l’alloggio, il trasporto, le mense, gli spazi per studiare ed in alcuni casi l’assistenza sanitaria, pensando in particolare ai tantissimi fuorisede e agli studenti lavoratori. In questa direzione positiva è stata invece la recente riforma dell’ISEE che ha permesso a questo strumento di aumentare il proprio grado di trasparenza nel calcolo dei redditi a favore degli studenti universitari e delle aziende. Si potrebbe anche riflettere sull’ammontare della tassa regionale, che pure dovrebbe essere portata dentro regimi di fasciazione progressiva con una differenziazione maggiormente a favore degli studenti universitari meno abbienti.

È un bene che la politica discuta di Università ma l’abolizione delle tasse universitarie da sola non produrrebbe gli effetti sperati. È necessario che le criticità vengano affrontate in maniera organica e sistemica, sapendo che l’aumento degli iscritti e soprattutto dei laureati è possibile solo mettendo in campo politiche coerenti e stabili e risorse ingenti e sicure, e dando concreta attuazione ai compiti che la Costituzione ha assegnato alle istituzioni della Repubblica.

Lorenzo Cicatiello (Università L’Orientale di Napoli), Amedeo Di Maio (Università L’Orientale di Napoli) e Antonio Di Majo (Università di Roma Tre) – Tasse e finanziamento dell’università

Articolo pubblicato lunedì 15 gennaio 2018 sul n. 12 del quindicinale “nonmollare”.

Tasse e finanziamento dell’università

1. Le Università pubbliche italiane sono state sempre finanziate in modo misto: trasferimenti del governo centrale e tasse prelevate sui singoli iscritti. Questo sistema, che per molto tempo ha cercato di mantenere proporzioni globali di 80 e 20 percento, risponde ai canoni di Scienza delle Finanze sul finanziamento dei beni pubblici misti e prevede le tasse nel caso di domanda individuale di questo tipo di beni; questo sistema era tra l’altro molto caro a Luigi Einaudi (si vedano le sue lezioni di Scienza della Finanza). Negli ultimi tempi queste impostazioni sono messe in discussione, ma in maniera molto confusa. Da qualche parte politica è stata avanzata la proposta di abolizione delle tasse universitarie, ma già nel corso di questo anno accademico il sistema del prelievo è stato modificato dall’attuazione della legge di bilancio sul 2017 (L.232/2016), le cui conseguenze sono poco note. Solo qualche cenno sui giornali locali di inizio 2017, in cui si è qualche volta fatto intendere che l’Ateneo locale avesse autonomamente scelto di estendere il numero degli studenti esentati dalle tasse universitarie. Tutte le università statali sono state invece obbligate a modificare i criteri di tassazione ed esenzione a partire dall’a.a. 2017/18, secondo quanto previsto nella ricordata legge. Il policy maker centrale, nell’ormai consolidato non rispetto dell’autonomia delle università, ha imposto un criterio che sicuramente porrà problemi finanziari a tutti gli atenei statali e in particolare a quelli del Mezzogiorno. In sintesi, chi si immatricola è totalmente esentato se dichiara un ISEE (un indicatore di situazione economica basato principalmente sulle dichiarazione dei redditi, con varie correzioni) non superiore a 13.000 euro, mentre chi dichiara tra 13.00,01 e 30.000 euro di ISEE deve obbligatoriamente essere tassato con una progressività per deduzione (si detraggono dall’ISEE 13.000 euro) ad aliquota che non può superare il 7%. Per valori superiori a 30.000, l’ateneo è libero di tassare come meglio crede. Per gli iscritti al secondo anno resta tutto invariato per coloro che abbiano acquisito nel primo anno almeno 10 CFU (Crediti Formativi Universitari); per gli altri esiste una penale che può arrivare fino al 50%. Per chi si iscrive a un anno successivo al secondo e fino al primo fuori corso, i CFU da acquisire per mantenere lo status quo diventano almeno 25 per anno. L’eventuale perdita di gettito, rispetto al passato anno accademico, verrà parzialmente compensata attraverso un trasferimento ministeriale altamente aleatorio, perché dipendente dal numero di studenti esentati (ex ante ignoto), moltiplicato per il costo standard, dello studente in corso, del singolo ateneo; questi calcoli serviranno a ripartire il totale nazionale stanziato nel bilancio dello Stato.

2. È questo un sistema discutibile sotto molti aspetti e faremo cenno solo ad alcuni di essi, per la necessaria brevità. Anche uno studente di scienza delle finanze può osservare che, come si è ricordato, siamo in presenza di una tassa (basata sul principio della controprestazione), trattata però come una imposta personale diretta (basata sulla capacità contributiva) e quindi idonea a essere progressiva. Che poi, in questo paese la progressività tocchi diffusamente solo qualche tipo di reddito e non tenga conto della enorme evasione di altri tipi di reddito, è cosa che a parlarne si rischia il fastidio dell’inutile ripetitività. È poi molto probabile, se non certo, che il contributo ministeriale sarà tale da non compensare la riduzione complessiva di gettito. Ne discende che lo Stato ha promesso ad alcuni studenti una riduzione di tasse, ma trasferendone il costo sui singoli atenei. È come se un imprenditore facesse esagerati sconti alla clientela e li finanziasse riducendo i salari dei suoi dipendenti. Quel che lascia perplessi è anche la confusione che in questo tipo di norme sostanzialmente si fa tra costi e ricavi. Banalmente, se devo produrre servizi per, ad esempio, 1000 studenti, il costo non si riduce se gli studenti restano 1000, indipendentemente dalla discesa dei ricavi da 1000 a 500. Di solito è la dicotomia ricavi/costi che fa fallire le imprese. Il nostro policy maker ritiene invece che i minori ricavi, automaticamente e a parità di condizioni, si traducano anche in minori costi. L’Ateneo che vede calare il proprio gettito, non compensato da altre entrate, dovrà ridurre quantità e/o qualità dei suoi servizi: ne discende una molto probabile selezione avversa, poiché gli studenti con maggior capacità contributiva tenderanno a migrare verso atenei finanziariamente più solidi. Questa migrazione genererà una ulteriore riduzione di gettito, innescando una sorta di circolo vizioso della povertà, paradossalmente generato dalle scelte di un policy maker desideroso di aiutare gli studenti meno agiati.

3. Con l’antico espediente della retorica, abbandoniamo ora queste sintetiche considerazioni generali ed entriamo nel merito di aspetti particolari delle nuove norme.
Un primo aspetto riguarda la deduzione, non inferiore a 13.000 euro di ISEE. Come è stato determinato questo importo? Non ci è dato sapere. Se ci riferiamo a una famiglia composta da 4 componenti (genitori con 2 figli) che vivono in una casa in fitto e non hanno patrimoni mobiliari e immobiliari, quella cifra corrisponde a un monoreddito familiare di 41.000 euro oppure a due coniugi con 20.500 euro ciascuno. Con riferimento alle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2016 (relative all’anno 2015, ultimo disponibile sul sito dell’Agenzia delle Entrate) da 40.770.277 contribuenti IRPEF, si evince che la frequenza cumulata fino al reddito di quell’unico familiare percettore è pari al 94,82%, mentre se i percettori sono due detta frequenza è “solo” pari al 75,12%. Quindi, se la popolazione studentesca riflettesse la medesima frequenza, quelle percentuali indicherebbero le quote esenti. Quote che si modificano sensibilmente se le consideriamo per regione. A questo fine se consideriamo (con qualche cautela nel confronto) un’altra fonte statistica, l’indagine sui bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia, possiamo osservare che il 60% delle famiglie italiane ha un reddito equivalente pari a 14.559 euro. Nel calcolo dell’ISEE al reddito equivalente deve essere sottratto il canone annuale d’affitto o l’ammontare dell’imposta comunale sulla casa. È accettabile quindi l’ipotesi che almeno il 60% delle famiglie italiane possa rientrare nella no tax area stabilita dal legislatore.
Se riprendiamo il ragionamento riguardante le differenti frequenze regionali nella distribuzione dei contribuenti per fasce di reddito, abbiamo i risultati indicati qui di seguito:

Tabella

La tabella non rispecchia (come potrebbe sembrare) un ordine geografico Nord-Sud, ma una graduatoria crescente per percentuale cumulata di percettori di reddito fino a 26.000€ (terza colonna). Il rischio che le università del sud subiscano una perdita di gettito considerevole è evidente, e una logica conseguenza sarebbe il peggioramento dei servizi offerti da queste ultime, cosa che incentiverebbe la già grave migrazione verso il nord dei giovani meridionali, o almeno di quelli appartenenti a famiglie che possono permetterselo. Non ci è chiara neanche la decisione sul numero minimo di CFU da acquisire per essere considerati studenti meritori: 10 CFU, per gli iscritti al primo anno, comportano quasi ovunque il superamento di un esame o poco più. Lo studente del triennio è premiato attraverso la detassazione anche se arriva a iscriversi al primo anno fuori corso avendo acquisito 60 CFU sul totale di 180! Quello della magistrale è premiato, perché meritevole, se si iscrive al primo fuori corso con 35 su 120 CFU! Il fatto che, ad altri fini, lo stesso policy maker non conteggi i fuori corso per il calcolo del FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario, cioè i trasferimenti dello Stato ai singoli Atenei), o che penalizzi quel corso di studio dove la media dei CFU conseguiti nell’anno è inferiore a 40 è cosa forse poco cortese da osservare.
Un ulteriore aspetto, probabilmente ispirato al comma 22 (il noto romanzo di J. Heller), riguarda l’obbligo di ottemperare alla norma anche se non ci si è dotati di un regolamento, ma poiché la norma stessa obbliga a una scelta tra alcune opzioni, questa non può che essere indicata in un regolamento. Almeno questo dilemma è stato parzialmente risolto attraverso l’emanazione di specifici regolamenti della maggior parte degli atenei. Se li scorriamo scopriamo che al nonsense del policy maker si aggiunge la fantasia di non poche università. Molti regolamenti (34 su 57) non si accontentano della progressività per deduzione e aggiungono quella per classi, ottenendo come risultato aliquote marginali superiori al 100%. In altre parole può accadere che chi dichiara solo 1 euro in più di ISEE si trova con una “tassa/imposta” maggiore di quell’euro in più di reddito. Questa scelta è probabilmente dovuta a una semplificazione amministrativa, che comporta però la violazione di un fondamentale principio di equità verticale.

4. Cosa può fare un ateneo per minimizzare la perdita di gettito? Le scelte sono limitate ed evidenti:
a) Utilizzare l’aliquota del 7% per gli ISEE compresi tra 13.000 e 30.000 euro;
b) Limitare l’esenzione a 13.000 euro;
c) Estendere la progressività (doppia?) agli ISEE superiori a 30.000 euro.
L’azione a) dipende dal livello di tassazione esistente prima del nuovo criterio e dovrebbe considerarsi attenta e sensibile quella sede che non fa subire ai suoi studenti improvvise e consistenti impennate di tassazione. Ne discende che si trova casualmente avvantaggiato l’Ateneo che già utilizzava quella aliquota. È inoltre sensato ritenere che possano esserci molte situazioni nelle quali questa azione risulti del tutto inefficace.
Chi esenta oltre i 13.000 euro dimostra di poterselo permettere (c’è chi si spinge fino a 26.000 euro(2)) e ciò dovrebbe essere considerato nel riparto del trasferimento compensativo. Non appare infatti razionale esentare oltre quella soglia se ciò determina perdita di gettito rispetto all’anno precedente e trasferimento dell’onere a carico della fiscalità generale.
Riguardo l’azione c), ancora una volta è favorito chi già lo fa (3). Iniziare a farlo diviene una necessità dettata dalla scelta politica compiuta “dall’alto”. La sua misura dipende sia dall’entità della perdita generata dalla esenzione, sia dalla attesa compensazione attraverso l’apposito fondo ministeriale. Si tratta comunque di una forzata redistribuzione interna al popolo degli studenti universitari che può generare in alcuni casi una non desiderata mobilità territoriale, cui abbiamo fatto cenno, e comunque come effetto, legittimamente non desiderato, di una scelta politica avvenuta altrove. Assunzione democratica e trasparente di responsabilità richiederebbe che chi ha deciso l’area di esenzione, decida anche il grado di redistribuzione. È anche da osservare, ipotizzata identica distribuzione delle frequenze delle dichiarazioni IRPEF, che nel caso di monoreddito familiare oltre i 30000 euro di ISEE (pari a circa 86000 euro di reddito individuale dichiarato) significa prendere in considerazione il rimanente 3,37% della popolazione studentesca e, nel caso di reddito ripartito tra due percettori, il 6,38%.

5. Come abbiamo accennato all’inizio, recentemente nell’assemblea di un movimento politico è stato annunciato il proposito di inserire nel programma elettorale l’eliminazione della tassa universitaria. Immaginiamo che la proposta debba essere meglio definita e tuttavia è legittimo assumere che essa sia stata formulata perché la si ritiene socialmente “migliorativa” rispetto alla situazione attuale (che abbiamo sommariamente descritto).
Tra le motivazioni v’è anche il richiamo a paesi, come la Germania, dove l’assenza delle tasse universitarie è una realtà. Una prima osservazione è che il provvedimento deve risultare non confliggente con l’organizzazione attuale della istituzione. Per esempio, l’assenza generale di tassazione non sembra adatta in un sistema che contempla lo studente “fuori corso”: è banale osservare l’ingiustizia e l’inefficienza di un finanziamento collettivo degli studi dell’ormai anziano studente “basilisco”, il protagonista di un bel film della Wertmuller del 1963. Quindi l’eliminazione della tassa potrebbe riguardare solo gli studenti in corso, non ponendosi in questo caso la necessità di razionare una domanda inefficiente. Ma per quale motivo lo studente non dovrebbe contribuire al costo dell’istruzione universitaria? Il beneficio dell’istruzione è anche individuale. La letteratura economica di tipo empirico fa spesso riferimento al differenziale positivo di reddito guadagnato con il conseguimento della laurea, rispetto alla remunerazione di un non laureato. Tradizionali ragioni di “efficienza economica”, ma anche di equità, spingono verso il pagamento di una tassa, da parte di chi se lo può permettere e consegue benefici dalla frequenza dell’Università: tale tipologia di studente non modifica la sua scelta in conseguenza della tassa. Ma, allora, se il problema è quello di rimuovere gli ostacoli, come insegna la nostra Costituzione, per lo studente meritorio, ma che si trova in condizioni economiche disagiate, ne consegue che è solo a questi che occorrerà non solo ridurre, fino a eliminare, la tassa, ma anche sostenerli altrimenti. L’idea che trasferire il finanziamento sulla fiscalità generale, come per i beni pubblici senza domanda individuale, sia più equo, anche se meno efficiente, perché in questo modo tutto il finanziamento dell’Università è soggetto a progressività, è osservazione fallace sul piano della teoria economica (oltre che della realtà empirica del nostro paese). Infatti, se torniamo a ricordare che l’istruzione universitaria apporta benefici individuali, ne discende comunque che il ricco può trovarsi in una condizione di beneficio netto se frequenta l’università e il povero con un costo netto positivo (a causa dell’’imposizione generale) se non si iscrive all’università.
La tassa non è l’unico elemento di costo finanziario per lo studente e neanche il più alto. Quindi anche per questo motivo la decisione di iscriversi all’università dipenderà dalla stima del costo complessivo (oltre a ragioni non economiche). Questa dipende dalla distanza tra il luogo di residenza e quello dell’ateneo. Nel secolo scorso non erano poche, soprattutto nel Mezzogiorno, le regioni prive di sedi universitarie e quindi l’iscrizione comportava spese di soggiorno fuori sede. Un altro costo dipende dalla necessità di frequenza dei corsi (il pasto fuori casa), altro dal materiale didattico e sempre di più dagli ausili informatici, senza contare l’alto costo del programma Erasmus.
Ne discende che l’aiuto allo studente meritevole e bisognoso non si può esaurire con l’esenzione della tassa (totale o parziale) ma occorre che si accompagni a borse di studio. Queste in Italia sono erogate attraverso fondi regionali, finanziati da una specifica tassa regionale per il diritto allo studio (in somma fissa) e da trasferimenti da un apposito fondo ministeriale. L’ammontare complessivo appare insufficiente e negli ultimi anni si è ridotto seguendo sostanzialmente l’andamento del FFO. Molti aventi diritto ricevono la borsa con molto ritardo o ne sono esclusi (la paradossale figura dell’”idoneo non beneficiario”) e non solo nelle regioni meridionali, malgrado la legge 240 del 2010 (legge Gelmini) avesse previsto, all’art. 4, borse di studio da finanziare con un apposito “Fondo per il merito” e “buoni di studio” che lo studente avrebbe dovuto parzialmente restituire, salvo che non si fosse laureato con il massimo dei voti e in corso. Per fortuna i “buoni di studio” non sono partiti: si è così evitato, almeno per ora, che gli ex studenti si trovassero, come negli Usa, indebitati con rischio di fallimento personale. Ricordiamo, infine, che il finanziamento delle Università pubbliche è comunque prevalentemente assicurato dal prelievo dello Stato (solo in parte con carattere di progressività rispetto ai redditi) e che non è auspicabile diffondere la progressività sulle tasse, sulle tariffe e in generale sui prelievi obbligatori diversi dalle imposte solo perché non si vuole sottoporre tutti i redditi (attraverso norme legali o tollerando l’evasione) alla progressività dell’imposizione personale.

1. Lorenzo Cicatiello e Amedeo Di Maio afferiscono al Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università di Napoli L’Orientale, Antonio Di Majo al Dipartimento di economia dell’Università Roma tre..
2. Trento esenta fino a 26.000 euro di ISEE, Bologna, Ferrara e Modena-Reggio E. fino a 23.000, Siena 18.000, Salento 16.000, Calabria, Perugia e Torino 15.000; Piemonte Orientale, Roma La Sapienza e Valle d’Aosta 14.000, Roma Tre 13.500. Tutte le altre università (43) si fermano a 13.000.
3. La tassa diviene fissa a Firenze solo per ISEE non inferiori a 125.000 euro, a Perugia, Bari Genova e Palermo è fissa solo a partire da dichiarazioni non inferiori a 100.000 euro. Solo Ca’ Foscari, Catania e Napoli L’Orientale fissano l’importo a partire da 30.000 euro.

Francesco Sinopoli (Flc Cgil) – Rendere l’università gratuita e accessibile a tutti non basta

Articolo pubblicato venerdì 12 gennaio 2018 sul sito di Huffington Post.

Rendere l’università gratuita e accessibile a tutti non basta

La “questione università” viene finalmente rimessa al centro del dibattito pubblico, con le sue mille difficoltà e contraddizioni, tirandola fuori dalle secche degli addetti ai lavori o delle periodiche campagne emergenziali e scandalistiche in cui era stata confinata. In un’intervista al quotidiano Repubblica, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso sostiene che la proposta di università gratuita e universale “ha il pregio di riproporre il tema dell’accesso all’università, che oggi è fortemente basato sul censo, una proposta che può aprire una discussione sulla qualità dell’istruzione”. Tornare a parlare di sistema universitario equivale a parlare dell’Italia, del suo futuro, e del futuro delle prossime generazioni, di diritti e di Costituzione, e in particolare di progressività fiscale.

Per questo come Flc Cgil abbiamo voluto dedicare alla questione università due giorni intensi di riflessione a Cosenza, presso l’Università della Calabria, il 23 e il 24 gennaio, che saranno chiusi dal Segretario Generale della Cgil, Susanna Camusso. Si tratterà di una ulteriore occasione per rilanciare la discussione pubblica sullo stato dell’università e per riproporre al dibattito pubblico alcune delle riflessioni che in questi anni abbiamo avanzato come sindacato, a partire proprio dalla relazione stretta tra le risorse assegnate al sistema (ora ben al di sotto dei livelli europei), il finanziamento integralmente fornito dalla fiscalità generale (per garantire un accesso gratuito e universale) e il mantenimento del dettato costituzionale della progressività fiscale, in modo che chi ha di più contribuisca di più agli investimenti per l’istruzione pubblica. Su questi temi, io stesso sono intervenuto più volte sull’HuffPost.

La scelta dell’Università della Calabria come sede del nostro appuntamento nazionale non è casuale: una delle regioni italiane più colpite dalla crisi, e dagli effetti della crisi sulle nuove generazioni, con più del 50% di disoccupazione giovanile e un numero elevatissimo di NEET (coloro che né studiano né cercano lavoro). La Calabria dunque potrebbe essere la “metafora viva” (per citare Paul Ricoeur) del bisogno di un rinnovamento radicale nel nostro sistema universitario, a partire dalle condizioni disagiate del nostro Mezzogiorno, anche partendo da quella gratuità dell’accesso di cui ha parlato Pietro Grasso, e prima di lui Jeremy Corbyn.

Il 20 maggio del 2017, in piena campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento britannico, Jeremy Corbyn annunciò la proposta del Labour di abolizione delle ingenti tasse (circa 9.000 sterline/anno) richieste dalle università inglesi, precisando che tale provvedimento era pensato anche per gli studenti provenienti da Paesi dell’Unione europea, considerando addirittura la gratuità universitaria come elemento dei negoziati post Brexit. “I conservatori hanno trattenuto gli studenti in basso troppo a lungo”, disse Corbyn, “costringendoli a riempirsi di debiti che hanno appesantito l’inizio della loro vita lavorativa. I laburisti allontaneranno la nube dei debiti e renderanno l’istruzione gratuita per tutti, per una Gran Bretagna più ricca, per i molti e non per i pochi (for the many, not the few)”. Corbyn rispose ai suoi detrattori: “troveremo i 9 miliardi e mezzo di sterline per rendere concreto questo progetto aumentando le tasse ai più ricchi, così gli studenti trarranno beneficio da più soldi in tasca e il Paese trarrà beneficio da ingegneri, medici, insegnanti scienziati”. L’università gratuita era diventato uno dei principali argomenti per indicare una via d’uscita dalla disuguaglianza, o dal privilegio, più feroce: quello che impone solo ad alcuni di istruirsi, lasciando dietro i molti. Fu solo propaganda? No, fu coraggio politico. Il dibattito arrivò anche in Italia, ma fu assai timido, anche a sinistra.

In realtà, non v’è nulla di visionario, folle, o propagandistico in questo progetto, e neppure si tratta di fare i Robin Hood alla rovescia. Si può fare, questo è il primo punto, mantenendo fede alla prescrizione costituzionale della progressività dei prelievi, per cui chi più ha più paga, anche per l’università interamente pagata dallo stato. Naturalmente, con la sola gratuità non si risolvono i grandi e annosi nodi e drammi delle università italiane. Occorrono più risorse, per il personale, per le strutture, e soprattutto per la ricerca. Occorre estendere e rafforzare il finanziamento per il diritto allo studio (borse, case dello studente, mense) proprio per evitare che la mobilità universitaria sia un privilegio per soli studenti abbienti.

Partiamo dalle politiche per l’istruzione adottate in questi anni: mentre Germania, Francia, paesi scandinavi non hanno esitato ad aumentare la quota di Pil riservata ad essa, l’Italia ha deciso di operare tagli su tagli, fino a recidere finanziamenti per più di 11 miliardi complessivi, ovvero una riduzione di circa lo 0,8% di Pil. Contemporaneamente ha introdotto un dannoso sistema premiale di valutazione degli atenei basato sull’assunto “più iscritti più soldi” (in questo consiste il sistema del cosiddetto “costo standard”), e introducendo discutibili criteri, quando non assurdi, di valutazione della ricerca (per imporre la logica della cosiddetta “eccellenza”) che hanno messo le università in conflitto tra loro. In questo modo amplificando i divari e le divergenze fra Atenei e territori, si è di fatto spaccato l’Italia in più categorie di riferimento (e dividendo di conseguenza anche gli studenti fra quelli iscritti agli atenei “eccellenti” e quelli iscritti agli atenei “normali”, di fatto immediatamente identificati come “mediocri”). Gli atenei meridionali sono proprio quelli che hanno subito con maggiore drammaticità i tagli alle risorse, e insieme a loro ne hanno fatto le spese gli studenti del Mezzogiorno, costretti a vedersi aumentare le tasse di anno in anno, proprio per la riduzione delle risorse, e a essere considerati (a partire dalle imprese in cerca di “eccellenze”) studenti di serie inferiori. Una doppia, triplice spaccatura che ha ingigantito i divari nelle risorse già presenti, indebolendo l’intero sistema, fino al punto di mettere a rischio l’università italiana. Noi della Flc Cgil lo abbiamo denunciato in numerose occasioni.

Ancora in queste ore, inoltre, stiamo assistendo a come un sistema arbitrario per l’individuazione dei “dipartimenti d’eccellenza” (sistema sarcasticamente ribattezzato “ludi dipartimentali”), abbia operato una ulteriore discriminazione di una fonte importante di finanziamento (1 miliardo e 300 milioni per un quinquennio) che viene prevalentemente erogata ad atenei del nord (58.9% dell’importo totale), mentre solo il 13.9% è stato attribuito a dipartimenti del Sud. Naturalmente giustificando questa sperequazione con criteri “oggettivi” di valutazione.

Non si può fare a meno di citare qui l’editoriale sul Manifesto col quale Piero Bevilacqua spazza via, con abbondanza di argomentazioni, la “vulgata” secondo la quale oggi l’accesso all’università, in fondo, è garantito alla maggior parte degli studenti. Citando il denso volume “Università in declino” di Gianfranco Viesti e della Fondazione Res, Bevilacqua elenca le cifre che testimoniano del “più vasto e grave ridimensionamento delle strutture complessive dell’università che si è mai verificato nella storia dell’Italia contemporanea”. Ma Bevilacqua rivela un altro dato che occorre assumere: le tasse universitarie hanno vissuto un innalzamento spropositato “nel periodo, di oltre il 57%, mentre le risorse per borse di studio restavano ferme a circa 180 milioni tra fondi nazionali e regionali”. Cifre estremamente misere, dinanzi “ai due miliardi di Francia e Germania e persino al miliardo della Spagna”.

Dunque, di cosa stiamo parlando, se non del “sabotaggio del diritto allo studio che viola la Costituzione”? Sabotaggio che trasforma, come afferma Susanna Camusso, l’università in luogo dove si esercita la più nefasta delle disuguaglianze, quella dell’accesso alla conoscenza, portando gli atenei alla deriva dell’accesso per censo. Su questo la società italiana deve aprire il dibattito e se necessario il conflitto: restituire all’università (a partire da quella del Mezzogiorno, ma più in generale nelle aree economicamente svantaggiate del paese) la dignità, la funzione sociale, e la centralità che merita, investendo le risorse necessarie per il suo rilancio, e per garantire la gratuità dell’accesso. Tesi rilanciata dal politologo e filosofo Maurizio Viroli su Il Fatto Quotidiano, che ripropone la gratuità dell’accesso sia come diritto inviolabile alla conoscenza, ma anche come frutto di un patto con lo stato, che determina alcuni doveri per il cittadino che studia, il quale “sarà fermato da regole certe, consentendo solo ai migliori e meritevoli di proseguire”. Anche per Viroli “chi è più ricco deve pagare di più, ma attraverso giuste aliquote, progressività della tassazione, ed esemplari sanzioni per gli evasori”.

Insomma, dal dibattito pubblico di questi giorni emerge che se c’è un settore dove lo stato deve investire, a prescindere, è proprio l’istruzione pubblica, assunta come “diritto inalienabile alla conoscenza, dalla materna alla laurea”. Il nostro Paese potrebbe pagare amaramente i continui arretramenti su università, ricerca e sull’istruzione più in generale, sulla generazione e la trasmissione della conoscenza: arretramenti che contrastano i sogni di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che nell’università vedono un orizzonte, un futuro, una prova di maturità. Ecco su chi pesa l’ideologia dell’assistenzialismo, su quella generazione, mentre è ora di riprendere tra le mani davvero la Costituzione, nel 70esimo anniversario della sua promulgazione, per farla vivere concretamente nei sogni di quei giovani, rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E dove si esercita a 20 anni il pieno sviluppo della persona umana se non in un’aula universitaria?

Tenuto conto dell’importanza e del ruolo dell’istruzione nella “società della Conoscenza”, abbiamo assistito negli ultimi quindici anni a un paradosso: una “centralità messa ai margini”. Da Cosenza vogliamo ripartire per restituire alla “questione Università” il posto centrale che le spetta, nel dibattito pubblico e nel rilancio concreto del suo potenziale ruolo di sviluppo culturale, economico e sociale.

Scuola, finalmente l’appello: sette temi per un’idea di futuro

Articolo di Marina Boscaino pubblicato sabato 13 gennaio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Scuola, finalmente l’appello: sette temi per un’idea di futuro

Finalmente qualcuno l’ha fatto: comporre, passaggio dopo passaggio, argomentazione dopo argomentazione, i nuclei concettuali, i principi ai quali da più di 20 anni stanno plasmando – e uniformando – i sistemi scolastici europei. Del resto, lo sappiamo: ce lo chiede l’Europa!

Sette temi per un’idea di scuola: leggetelo e, se siete d’accordo, sottoscrivetelo. L’appello, che in poche settimane ha raccolto circa ottomila firme (dai maestri della scuola dell’infanzia agli ordinari di diverse facoltà universitarie, nonché molti cittadini che riconoscono nella scuola della Costituzione lo strumento dell’interesse generale), ha il merito di non scagliarsi, come pure sarebbe legittimo, sulle mille nefandezze della normativa scolastica degli ultimi decenni; ma di nominare – in sette punti specifici – quelli che sono stati i concetti organizzatori che hanno dato vita alle “deforme” che si sono abbattute sulla scuola italiana e di cui sono stati compartecipi governi di centro destra e di centro sinistra.

E che hanno cambiato il volto della scuola “che rimuove gli ostacoli” e promuove l’istruzione completa di “capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi”. Attraverso la enucleazione e l’analisi di questi principi, si ricostruiscono i passaggi che hanno impiantato un modello ideologico, che parte da molto lontano, e che ha trovato accoglienza in tutta la legislazione scolastica, dall’autonomia del 1997 alla legge 107/15 (passando per la legge di parità, la riforma del Titolo V, Moratti, Gelmini e il “cacciavite” di Fioroni).

Il progressivo smantellamento della scuola della Costituzione – e soprattutto dei fondamenti costituzionali su cui la scuola pubblica italiana si è fondata – è transitato attraverso la giustapposizione all’istruzione di criteri economicisti e efficientisti, che hanno ridotto a merce l’attività scolastica e a modelli produttivistici le modalità di svolgimento di tale attività. Come tutte le ideologie, il neoliberismo – per plasmare o tentare di plasmare le nostre azioni e le nostre convinzioni – ha anche ri-fondato il linguaggio. Vari i mantra irrinunciabili e seduttivi: innovazione, competenze, lavoro, velocità; non a caso tutti diktat contenuti nel documento “Educazione e competenze in Europa” dell’European Round Table del 1989 (un gruppo di industriali incaricati di analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e di formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici).

Un’operazione culturale e politica, che ha condizionato potentemente molti di coloro che nella scuola operano ogni giorno: attraverso non solo la normativa, ma l’editoria di riferimento, i documenti, la formazione dei docenti, la funzionalità di alcune figure preposte alla riuscita del progetto (il dirigente scolastico sostituito al preside, a ribadire che da comunità educante ci si stava trasformando in azienda territoriale), la fanfara mediatica. Passata attraverso la semplificazione (un’altra parola-chiave, interpretabile nelle maniere più diversificate) di un processo “riduttivo e riduzionista”, come si legge sull’appello. Un’operazione che ha fatto sostanzialmente terra bruciata – a partire dalle coscienze individuali – della funzione politica di docenti e scuola pubblica; la cui neolingua ha eroso – svuotandole o modificandole nel significato o relegandole al rango di reperti di antiquariato – parole e concetti come cultura emancipante, unitarietà del sistema scolastico, relazione educativa, diritto all’apprendimento, valutazione; e, in effetti, cosa c’entrano quei concetti e quelle parole con una struttura aziendale, vocata al risultato e alla competizione?

Questo appello ha, ancora, il merito di far uscire allo scoperto i molti che – al cospetto di un’operazione tanto potente – hanno continuato nel proprio lavoro quotidiano a praticare i (sempre più limitati) spazi della libertà di insegnamento e il pensiero critico analitico, come salutare antidoto all’appiattimento al Pensiero pedagogico unico delle competenze, dei test Invalsi, della velocità onnivora e incapace di selezionare qualità (si pensi alle sperimentazioni delle superiori brevi). Che sono rimasti convinti che non è la reductio ad unum dell’eterodirezione ciò che potrà rendere significativi (e cioè positivi e funzionali alla capacità di interpretare la complessità del reale) percorsi di apprendimento per bambine/i e ragazze/i la cui infinita diversità – che ha da sempre costituito il potenziale più straordinario della scuola pubblica – non può essere compressa e conchiusa nella opinabile innovazione tecnicale, sebbene multiforme e polimorfa; che hanno continuato ad attribuire all’espressione “fare lezione” il significato più alto in termini relazionali, comunicativi e didattici; che hanno difeso il primato della qualità dell’insegnamento rispetto a tutti i nuovi dogmi.

Gli estensori affidano all’appello soprattutto la possibilità di inaugurare una nuova “lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa” attraverso la riapertura di un dibattito reale, onesto e articolato sul tema della scuola. Agli oppositori dell’appello, che stanno legittimamente alimentando il dibattito, si potrebbe chiedere di dimostrare – dati alla mano, però – come quella che chiamano “innovazione” nella scuola abbia prodotto – dalle competenze all’Invalsi, dall’inserimento intensivo delle tecnologie al Clil – apprendimento significativo e miglioramento della qualità della scuola italiana.

Il dibattito interpella movimenti politici, all’esordio di una campagna elettorale che si prefigura particolarmente tesa e in cui non potrà mancare questo tema strategico; sindacati; associazioni, docenti, studenti e genitori. Cittadini: tutti coloro che hanno compreso che un’idea di scuola prevede un’idea di futuro, che quindi ci riguarda tutti. E che il futuro che ci si prospetta al momento non è dei migliori.

Piero Bevilacqua – Il declino delle università e il silenzio assordante della politica

Articolo pubblicato giovedì 11 gennaio 2018 da il manifesto.

Il declino delle università e il silenzio assordante della politica

Tra il 2004-2008 e il 2014-15 le risorse per le università sono diminuite di 1/5. E gli atenei hanno subìto un tracollo delle immatricolazioni del 20%. Mai successo in 150 anni

A proposito della proposta di Pietro Grasso, di abolire le tasse universitarie, forse la novità più rilevante da segnalare è che in Italia il ceto politico si sia ricordato dell’esistenza dell’università. Perché sono più di dieci anni che le burocrazie ministeriali stanno realizzando gli indirizzi della riforma Gelmini nel più assoluto silenzio/assenso da parte del Partito Democratico e di tutti gli altri partiti, non esclusi i 5 Stelle. Un silenzio che ha coperto il più vasto e grave ridimensionamento delle strutture complessive dell’università che si sia mai verificato nella storia dell’Italia contemporanea.

Tra il periodo 2004-2008 e il 2014-15 le dimensioni e le risorse hanno perso 1/5 della loro consistenza. Gli atenei italiani hanno visto diminuire il numero degli immatricolati del 20%. Come ha ricordato Gianfranco Viesti, in un denso volume da lui curato (Università in declino, Donzelli), sovranamente ignorato dai partiti e da gran parte dei nostri media: «Per la prima volta negli oltre 150 di storia d’Italia il numero degli studenti universitari si riduce».

Nello stesso periodo è diminuito del 17% il numero dei docenti, del 18% i quadri del personale tecnico-amministrativo, del 22,5%, il fondo del finanziamento ordinario. Quest’ultimo dato è illuminante della direzione che i gruppi dirigenti intendono assegnare al nostro Paese in Europa, se pensa che nello stesso periodo, in Germania, il finanziamento pubblico è stato incrementato del 23%.

In questo quadro spicca in maniera particolare quello che si configura come un vero e proprio sbarramento classista eretto contro la mobilità sociale delle nuove generazioni. Non si tratta solo dei cervellotici numeri chiusi posti all’ingresso delle varie facoltà, che costringe tanti nostri studenti a emigrare. Quanto dell’innalzamento spropositato delle tasse universitarie cresciute nel periodo di oltre il 57% , mentre le risorse per borse di studio restavano ferme a circa 180 milioni tra fondi nazionali e regionali. Cifre miserrime di fronte ai 2 miliardi di Francia e Germania e persino al miliardo della Spagna. Un vero e proprio sabotaggio del diritto allo studio, che viola la Costituzione, se si pensa alle strutture di sostegno destinate agli studenti fuori sede: solo il 2% di essi è infatti assegnatario di un posto di alloggio nelle residenze universitarie. E naturalmente l’emarginazione si fa più pesante nel Sud, dove il 40% degli studenti aventi diritto rimane escluso, 60% nelle isole. Come ha mostrato sempre Viesti la penalizzazione del Mezzogiorno è stata più ampia e marcata su quasi tutti gli aspetti, contribuendo ad accrescere il divario complessivo con Centro-Nord.

Che cosa significano tutti questi dati se non il disegno evidente delle classi dirigenti italiane, assecondate dal Partito Democratico, specie negli ultimi anni, di abolire il modello dell’Università di massa? Il ridimensionamento di questa istituzione, così come la curvatura della scuola a forme precoci di apprendistato, disegnano un tentativo confuso e socialmente regressivo di riorganizzazione gerarchica della società italiana.

L’aumento delle tasse universitarie e la scarsità di risorse di sostegno a tanta parte degli studenti rientra nel processo di emarginazione dei ceti medio-bassi, che è il segno socialmente più distintivo del declino italiano. Tantissime famiglie hanno dovuto rinunciare a investire sui propri figli per elevare la propria condizione. Chi sostiene che i ragazzi bisognosi sono già esentati non tiene conto che nella platea degli aventi diritto rientrano famiglie che ormai non possono più permettersi il lusso di far proseguire ai propri figli gli studi universitari.

Certo, le tasse sono solo un piccolo tassello della gravissima questione universitaria italiana. E bisognerà anche evitare che della esenzione usufruiscano i ragazzi delle famiglie abbienti, come suggerisce Alba Sasso (il manifesto, 9/2/2018). Ma visto il rumore che la proposta di Pietro Grasso ha suscitato sarebbe il caso di porre sul tappeto le tre grandi necessità di questa istituzione da cui dipende la qualità del nostro futuro assetto di civiltà: immissione di una nuova leva di docenti, che rinnovino un personale fra i più vecchi oggi esistenti al mondo; nuove, significative risorse aggiuntive per ricerca e insegnamento; radicale delegificazione, che spazzi via la montagna di norme e regole sotto cui oggi una università impoverita e scoraggiata sta soffocando.

Canfora: “Studi gratis non è spot”

Articolo di Antonio Di Giacomo pubblicato giovedì 11 gennaio 2018 da la Repubblica Bari.

Canfora: “Studi gratis non è spot”

Che cos’è la Costituzione? A rispondere, suggerendo una mirabile sintesi, è il filologo e storico Luciano Canfora: «La Costituzione è la disciplina che mette insieme libertà e giustizia. La libertà vuol dire espletare al massimo le proprie facoltà, intellettuali e pratiche. Giustizia significa non calpestare gli altri». Parole che Canfora ha pronunciato ieri mattina dinanzi alla platea che gremiva la sala Massari del Comune di Bari, palcoscenico della manifestazione “Nata dalla Resistenza. 70 anni di Costituzione (1948-2018)”, organizzata dall’Anpi (l’Associazione nazionale partigiani d’Italia).

Ad ascoltare la lezione di Canfora sulla Costituzione, voluta per celebrare l’anniversario della sua entrata in vigore il Primo gennaio 1948, un pubblico di giovanissimi, studenti delle scuole superiori, ai quali ha offerto un racconto sotto diverse angolazioni, non fermandosi a una ricostruzione di taglio squisitamente storico bensì evidenziando l’attualità della Costituzione anche nel quadro della stretta contingenza del dibattito politico.

A cominciare dal diritto allo studio. «L’articolo 34 garantisce il diritto all’istruzione e — ha ricordato Canfora — riguarda il problema della scuola, delimitando il periodo dell’obbligo e della gratuità. Fu oggetto di discussione enorme (in sede di assemblea costituente, ndr) perché ovviamente una parte si richiamava a ordinamenti di altre esperienze e non soltanto quella sovietica, ma pure quella weimariana della prima repubblica tedesca, nata nel 1918, che parlava di un diritto allo studio fino al termine degli studi. E questo creò discussioni immense perché naturalmente dinanzi a esigenze di questo tipo si solleva il problema economico, ovvero: abbiamo le forze per garantire la gratuità degli studi fino al loro termine? Ecco, è un tema che è tornato in questi giorni d’attualità». Il riferimento, tacito, è alla proposta avanzata da Pietro Grasso, leader di Liberi e uguali, per l’abolizione delle tasse universitarie e dunque il libero accesso al più alto tassello della formazione nel Paese.

«La scuola è il cuore della società» ha incalzato ancora Luciano Canfora: «Farla funzionare significa far bene alla società e farla funzionare in modo che tutti vi accedano, anche coloro che non hanno mezzi economici per farlo, equivale a una vera rivoluzione sociale, nel senso più positivo e nobile. Quindi è un grande obiettivo quello della gratuità degli studi e non è affatto una formula elettorale».

Oltre la questione della scuola pubblica e del diritto allo studio, Canfora ha infine denunciato la mancata attuazione dei principi fondativi sui quali è nata la carta costituzionale della nostra Repubblica: «L’articolo 1 dice una cosa importantissima: tutta la vita della Repubblica si fonda sul lavoro. La disoccupazione dilagante, che è una malattia terribile della nostra società, è una continua negazione dell’articolo 1 della Costituzione».

Negato a 50 mila studenti il diritto a borse di studio

Articolo di Nadia Ferrigo pubblicato venerdì 17 novembre 2017 da La Stampa.

Negato a 50 mila studenti il diritto a borse di studio

In Italia solo un misero 2% del totale riceve sostegno economico. Nel nuovo anno, aumentano del 10% gli “idonei non beneficiari”

Ai «capaci e meritevoli» la nostra Costituzione garantisce il diritto allo studio con borse e servizi, dall’alloggio alla mensa. O meglio, dovrebbe garantire. In Italia solo poco più del 2% del totale degli studenti riceve un sostegno economico contro il 20% di Francia, Germania e Spagna, lontanissimi dall’80% di Svezia e Danimarca. Essere gli ultimi in classifica ancora non basta: l’anno accademico appena inaugurato registra un aumento di oltre il 10% degli studenti «idonei non beneficiari», cioè che per reddito e merito dovrebbero avere una borsa, ma non riceveranno nulla. Erano 45.090 ragazzi nel 2011, 49.444 nel 2015 e la buona notizia dell’aumento delle immatricolazioni nell’ultimo anno accademico porterà a un altro balzo in avanti.

Una vergogna tutta italiana che ancora una volta fotografa un Paese spaccato in due: le Regioni più ricche come Veneto, Friuli e Toscana riescono a integrare con risorse proprie il fondo statale, mentre Campania, Calabria, Puglia, Sicilia e Sardegna rischiano di non soddisfare nemmeno la metà delle richieste.

«Con le risorse a nostra disposizione copriamo il 42% delle borse, così la Regione si è impegnata per un finanziamento straordinario – continua Luigino Filice, pro rettore dell’Università della Calabria -. Ai nostri “idonei non beneficiari” è l’università a garantire l’esenzione dalle tasse e un contributo per l’alloggio». «In Lazio gli idonei sono passati da 16.780 dello scorso anno a 20.790. Considerando che alle Regioni tocca coprire il 40% e al fondo statale il 60%, l’aumento previsto di 10 milioni di euro non può bastare per tutti – spiega Carmelo Ursino, presidente dell’Andisu, che rappresenta tutti gli enti per il diritto allo studio -. Secondo le nostre stime servirebbero altri 60 milioni. Poi c’è la drammatica situazione dei posti letto: se ne chiedono sempre di più, ma il posto non c’è».

A casa con mamma e papà

Otto universitari su dieci vivono a casa con mamma e papà. Cinque anni fa, come rileva il rapporto di Eurostudent sulle condizioni sociali ed economiche degli studenti europei, erano sette su dieci. Le famiglie che possono permettersi di pagare un affitto diminuiscono, così crescono le richieste per le residenze universitarie. Anche in questo caso i posti non bastano per tutti. Tra strutture degli enti universitari regionali, collegi e alloggi messi a disposizione dalle università in Italia ci sono poco più di 45 mila posti letto, circa 10 mila in più di quindici anni fa, la maggior parte nel Nord. «In Piemonte abbiamo duemila posti, assolutamente insufficienti – spiega Marta Levi, presidente Edisu -. Quest’anno resteranno fuori 1.500 ragazzi. Stiamo aspettando l’autorizzazione per un nuovo studentato, 90 posti». Ancora troppo pochi, proprio come nella virtuosa Toscana.

«Abbiamo richieste per 7 mila posti letto, riusciremo a garantirne 5 mila. A chi è in attesa proveremo a dare un contributo per l’alloggio – spiega Marco Moretti, presidente Dsu Toscana -. Quest’anno c’è una difficoltà in più: il cambio del regime dell’Iva sui servizi in vigore dall’estate ricade sugli studenti». Gli enti potevano infatti chiedere una compensazione all’Agenzia delle Entrate per l’imposta sui servizi per gli studenti, dalla metà di giugno si è passati all’esenzione: si traduce in una perdita di milioni di euro per gli enti regionali, che hanno chiesto al Ministero un fondo straordinario per ammortizzare la spesa. A spulciare le classifiche europee, l’Italia è tra i peggiori anche sugli importi delle borse. «Saremo in piazza a fine novembre per chiedere di invertire la rotta – conclude Andrea Torti, portavoce del sindacato studentesco Link -. Investire in università e ricerca non è un vantaggio per gli studenti, ma per tutto il Paese».