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Scuola, contro l’ideologia liberista delle competenze e del merito

Articolo di Roberto Carnero pubblicato mercoledì 15 maggio 2019 da Avvenire.

Contro l’ideologia liberista delle competenze e del merito

Alcuni libri affrontano il problema della visione tecnicista del sapere, che uniforma e banalizza lo studio asservendolo al potere economico. Il caso delle prove Invalsi. E chi critica è passatista

Nel 1979 usciva negli Stati Uniti un saggio del sociologo Neil Postman (1931-2003), destinato a diventare celebre: Teaching as a Conserving Activity. Potremmo tradurre quel titolo con qualcosa come «L’insegnamento come attività di conservazione». Il libro di Postman fu pubblicato due anni dopo anche in Italia, da Armando Editore, con un titolo diverso: Ecologia dei media. La scuola come contropotere (ora in una nuova edizione a cura di Giampiero Gamaleri, Armando, pagine. 126, euro 12). Quell’idea di “conservazione” veniva lì veicolata dal sottotitolo (in cui si parla di “contropotere”), mentre il titolo principale (Ecologia dei media) alludeva a una delle tematiche centrali del volume, vale a dire l’invadenza dei moderni mass media nel mondo occidentale (allora si trattava soprattutto della televisione, essendo ancora di là da venire i cosiddetti new media e gli odierni social). Al punto che fin dal 1971 lo studioso aveva istituito alla New York University (dove insegnava), una cattedra così chiamata, che terrà per tutto il resto della sua vita. «L’istruzione cerca di conservare la tradizione mentre l’ambiente esterno è innovatore», scriveva Postman. È questo un male? Non necessariamente. Perché “conservare” ciò che è stato tramandato significa anche “resistere” alle attrattive, effimere e superficiali, di quella che sempre Postman chiamava la «società adescante», tutta appiattita sull’hic et nunc di una sorta di eterno presente privo di spessore e di profondità.

Da qui l’idea che, resistendo, la scuola possa configurarsi, appunto, come un “contropotere”, recuperando le radici etiche e cognitive su cui basare il futuro dei giovani: aiutandoli così a orientarsi in un mondo globalizzato e sempre più interconnesso. Ma oggi in Italia è possibile concepire la scuola in questi termini? La domanda è legittima, e la risposta, purtroppo, sembra virare più verso il negativo che verso il positivo. Questo perché tutte le riforme e riformine più recenti vanno in una direzione che lascia poco spazio alla discussione in merito ai paradigmi pedagogici assunti in questi ultimi anni. Scelte programmatiche e metodologiche fondamentali (che cosa insegnare e come insegnarlo) sono state spesso imposte in maniera autoritaria, attraverso leggi votate frettolosamente (magari ricorrendo alla fiducia per evitare ogni dibattito parlamentare, come è accaduto al Senato con la legge 107/2015, la cosiddetta “Buona Scuola”) o addirittura con semplici circolari ministeriali che, sotto l’apparenza di fornire indicazione pratiche su specifiche questioni, hanno l’effetto di scalzare e sovvertire modelli didattici consolidati. A vantaggio di un “nuovo che avanza”, senza però la minima disamina critica e, soprattutto, senza alcuna forma di coinvolgimento degli addetti ai lavori, vale a dire gli insegnanti, il cui ruolo viene così svilito al rango di quello di semplici esecutori di decisioni calate dall’alto.

Ciò viene lucidamente raccontato nel saggio dello storico Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito (Laterza, pagine 152, euro 14), in cui si mostrano le radici di certi concetti sempre più presenti nell’innovazione didattica stabilita per legge: la misurabilità, le competenze, il capitale umano, la meritocrazia. Tutte idee transitate dal mondo dell’economia e dell’azienda a quello dell’educazione e della scuola. Soffermiamoci, per esempio, sulla “didattica per competenze”, promossa, sempre più, dall’Unione Europea a partire dall’inizio degli anni Novanta, fino alla promulgazione, nel 2006, del Quadro delle “competenze chiave”. Questo e altri documenti sono chiaramente accomunati da una visione utilitaristica della conoscenza. Una di queste competenze è definita “imparare a imparare”. Ora, nessuno nega che sia essere buona cosa trasmettere ai giovani l’idea che l’apprendimento è un processo che non si esaurisce con la scuola ma che dovrà continuare lungo tutto l’arco della vita. Tuttavia si capisce anche che ciò è funzionale a un mercato del lavoro che richiede dosi sempre maggiori di flessibilità: anziché portare nella scuola un dibattito sui modelli economici e produttivi esistenti, magari per criticarli nelle loro storture e per pensare di migliorarli in relazione ai diritti delle persone, si preferisce spingere gli individui ad adattarvisi fin dalla più giovane età, cioè sin dagli anni della scuola. Scrive Boarelli: «Non si tratta di “imparare a imparare” come occasione di sviluppo culturale, senza immediati fini utilitaristici, ma di apprendere una forma specifica di comportamento: l’adattamento alle esigenze dell’impresa e alle forme specifiche della “flessibilità” di cui essa ha bisogno». E aggiunge: «Le competenze giocano un ruolo determinante in questo processo di subordinazione alla visione del mondo economico, perché spingono i sistemi educativi ad abbandonare la costruzione di saperi critici in favore dell’organizzazione di saperi strumentali».

Tendenze di questo tipo si esprimono in concreto in pratiche come quella dei test Invalsi, che elevano a feticcio il mito della misurabilità dell’apprendimento. Prove che hanno l’effetto di chiudere, uniformare, banalizzare e decontestualizzare la conoscenza. Una conoscenza che, nel momento in cui viene chiesto allo studente di individuare la risposta giusta (preconfezionata) tra quelle già fornite dall’estensore della prova, viene deprivata di ogni dimensione critica, creativa o anche solo collaborativa, con la conseguenza di impedire qualsivoglia sviluppo di un pensiero divergente. «Il “capitale umano”, le “competenze” e la valutazione standardizzata sono parti di uno stesso sistema concettuale che ingloba la vita sociale nella sfera produttiva», conclude Boarelli, e (aggiungiamo noi) la scuola in una visione aziendalistica ed economicistica del sapere e della cultura.

Sono, queste, preoccupazioni condivise anche dagli autori degli scritti raccolti da Piero Bevilacqua nel volume, da lui curato, Aprire le porte. Per una scuola democratica e cooperativa (Castelvecchi, pagine 192, euro 17,50). In un intervento dedicato alla “scuola delle competenze”, Anna Angelucci denuncia l’impossibilità di impostare un dibattito serio e aperto sui cambiamenti in atto: «Qualunque resistenza, ascrivibile al tentativo di esercitare, sul piano etico, forme di libero arbitrio o, sul piano culturale, spazi di libertà nella concezione della cultura e nella riflessione sul nesso insegnamento/apprendimento o magari, sotto il profilo metodologico, possibili opzioni di falsificabilità di una teoria che ci viene imposta come una teleologia, deve essere, e viene, abortita sul nascere». Il sospetto è che le riforme della scuola siano – di fatto – pezzi della riforma del mercato del lavoro. E il potere economico è così forte, autoritario e repressivo (non a caso, già nei primi anni Settanta, Pasolini negli Scritti corsari scriveva la parola “Potere” sempre con l’iniziale maiuscola, intendendo quello dell’economia e dell’industria, cioè del neocapitalismo avanzato) da non lasciare alcuno spazio per una contestazione al suo pensiero unico. Chi si oppone ad esso viene tacciato di passatismo, misoneismo, disfattismo. L’insegnante che rifiuta di “aggiornarsi” è la bestia nera di questa retorica del nuovo, che canta le magnifiche sorti e progressive della scuola digitale, della didattica per competenze, dell’alternanza scuola-lavoro (altro fondamentale tassello, quest’ultima, di tale asservimento della scuola all’azienda). Mentre forse, in realtà, sta solo provando a mettere in atto forme di resistenza civile, vedendo ancora nella scuola una possibilità di “contropotere” (rispetto allo strapotere del più bieco neoliberismo).

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Articoli di Ilaria Venturi e Corrado Zunino pubblicati lunedì 26 febbraio 2018 da la Repubblica.

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Sul grande “no” al referendum del 2016 la scuola ha lasciato le sue tracce. Molti docenti si sono vendicati lì della Legge 107, la Buona scuola appunto, subita a colpi di fiducia. E hanno innescato un corto circuito nel governo Renzi che si è ripercosso sull’attuale esecutivo nonostante gli aggiustamenti della ministra Fedeli: abbiamo investito 4 miliardi nell’istruzione, è stato il ragionamento della maggioranza, assunto come non si faceva da anni, fatto ripartire i concorsi, svuotato le graduatorie eppure molti professori ci contestano. Forse perché, come racconta Gaetano da Bologna, in aula restano i problemi di sempre. Nella primavera 2015 si è registrato il più grande sciopero del mondo della scuola e anche il recente rinnovo del contratto è stato motivo di polemiche. Sull’università nelle ultime due stagioni sono tornati i finanziamenti. Ma l’impoverimento degli atenei post-Gelmini (i docenti sono calati del 20% tra il 2008 e il 2013) e la precarizzazione dei ricercatori, vedi Alessandra da Bari, sono diventati ragione per un inedito sciopero dei prof d’università. In questo quadro, ecco le proposte dei partiti per il 4 marzo.

“Stipendi bassi e classi affollate nessuno ci ascolta”

Delusi nonostante il nuovo contratto. Quanti nodi irrisolti per chi sta in aula

Gaetano Passarelli, 49 anni, originario di Potenza, due figli, insegna a Bologna in un istituto tecnico. Il suo percorso è emblematico: supplenze subito dopo il diploma, la laurea e il dottorato di ricerca in Ingegneria elettrotecnica, la doppia abilitazione (docente di laboratorio e insegnante di fisica), dieci anni di precariato prima di ottenere la cattedra di ruolo. Ha quasi trent’anni di anzianità e uno stipendio di 1.580 euro, «più alto della media perché insegno da tanto». «Premetto: stare a scuola è un’avventura meravigliosa. Ma rimaniamo pagati poco rispetto ai colleghi europei, nonostante il recente aumento. E il nostro riconoscimento sociale è sceso a picco, con classi sempre più difficili da gestire. E poi ogni governo cambia le regole, dalla Maturità al reclutamento, senza ascoltare chi vive nella scuola. Pesantissima è la situazione dei precari. La collega dell’aula accanto, supplente, è considerata dagli alunni uguale a me: ma ha meno diritti. Mi aspetto stabilità per lei, stipendi adeguati per tutti. Vorrei insegnare in classi meno numerose, con più strumenti a disposizione: formazione, supporto di pedagogisti e psicologi, aiuti per far crescere professionalmente tutti gli insegnanti».

Partito Democratico

Assunzioni e nuovo contratto, ora più maestri e tempo pieno

Quattro miliardi investiti sulla scuola, 10 nell’edilizia. L’assunzione in tre anni di 132mila docenti, 80 mila con la Buona scuola. Ogni istituto ne ha avuti in media sette in più per potenziare la didattica. E in busta paga? Il contratto bloccato da 10 anni è stato firmato in extremis (con scadenza a fine anno) dalla ministra Fedeli: 96 euro lordi mensili in media di aumento da marzo. Confermati il bonus per i prof migliori (che passa da 200 a 130 milioni nel 2018, il resto torna nello stipendio di tutti) e la card di 500 euro. Infine concorsi nel 2018 per stabilizzare i precari. Non è una lista di impegni elettorali: il Pd punta sulle cose fatte con la Legge 107 per dare risposta agli insegnanti. Sulla mobilità Renzi fa autocritica: «L’algoritmo per i docenti del Sud non ha funzionato come avremmo voluto». Obiettivi? La crescita professionale degli insegnanti, più maestri nelle scuole per combattere la povertà educativa, meno burocrazia e più tempo pieno.

Liberi e Uguali

Stabilizzare tutti i precari, bonus merito da abolire

Gli insegnanti? «Eroi del nostro tempo», premette Leu. L’obiettivo principale è smantellare la riforma della Buona scuola targata Pd. Da qui parte il programma. Grasso ricorda che ci sono ancora 83mila precari. Che fare? «Stabilizzare tutti attraverso un piano pluriennale». E ancora: adeguare gli stipendi che, nonostante il rinnovo del contratto, «rimangono tra i più bassi in Europa»; cancellare il bonus- merito; offrire formazione «continua e di qualità». Nel programma non vengono indicate le risorse per attuare le proposte rivolte ai docenti. Mano tesa ai trasferiti con le immissioni in ruolo attuate nel 2016: «Occorre dare risposta alle vittime di un algoritmo impazzito». La proposta è di un percorso partecipato per “un’altra scuola” che contempli la gratuità degli studi, l’aumento del tempo pieno e l’estensione dell’obbligo scolastico dall’ultimo anno della materna (che si vuole per il 100% dei bimbi in età) all’ultimo delle superiori.

Movimento 5 Stelle

Basta chiamate dirette e stipendi a livello europeo

Per la scuola (e università) il M5S promette nel programma uno stanziamento aggiuntivo di 15 miliardi (senza dire dove prenderli). Di Maio lo ha spiegato a parte: «Eliminando gli sprechi, rilanciando il piano Cottarelli e incentivando il gettito fiscale». L’attacco è alla Legge 107: da abrogare. Il capitolo dedicato al personale accontenta tutti: insegnanti già in cattedra, supplenti, laureati e con il diploma magistrale. «Censire i precari», l’indicazione. Tra le promesse, un piano di assunzioni in base al fabbisogno delle scuole; stipendi adeguati alla media europea con abolizione della card e del bonus premiale (da restituire a tutti in busta paga); l’eliminazione della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi; il monitoraggio del percorso introdotto dal governo (e votato dal M5S) per l’accesso al ruolo: concorso, tre anni di formazione, tirocinio e supplenze prima dell’assunzione. Sulle scuole private: via i fondi, non alle materne.

Coalizione di Centro-Destra

Neoassunti su base regionale, più poteri ai presidi

Nel triennio 2009-2011 la Tremonti-Gelmini ha tagliato 8 miliardi di euro alla scuola: 87.400 cattedre e 44.500 posti per il personale Ata (amministrativi e bidelli) perduti con il centrodestra al governo. Ora il programma sulla scuola sta in una pagina e pochi punti che partono dalla «libertà di scelta delle famiglie nell’offerta educativa». Dunque fondi alle private. E poi abolizione delle “storture” della Buona scuola (non si precisa quali). Salvini invece twitta: «Sarà una delle prime leggi che cambieremo». E così Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: «Legge da asfaltare». Rispetto agli insegnanti la Lega propone una vecchia idea dei tempi di Bossi: il federalismo scolastico, con stipendi dei docenti legati a quelli dei funzionari regionali. I neoassunti saranno assegnati a una Regione, spiega Elena Centemero (Fi) che aggiunge: più poteri ai presidi nella chiamata dei docenti.

“Precaria in facoltà da dodici anni datemi un futuro”

La trafila infinita di chi aspira a entrare. L’incubo di tornare a casa a fine contratto

Alessandra Operamolla ha 40 anni ed è una chimica con un buon curriculum (un brevetto depositato) e dodici anni di precariato. Si è laureata all’Università di Bari, ha preso il dottorato di ricerca e per otto stagioni ha infilato una litania di collaborazioni, assegni di ricerca e contratti al Dipartimento di chimica e poi a Farmacia. «Per un periodo sono rimasta disoccupata, otto mesi senza reddito. Non esisteva ancora la Dis.coll., l’indennità mensile, e per rifinanziarmi sono andata a cercare una borsa di studio in Austria». La continua ricerca di denaro toglie tempo alla ricerca scientifica. «Adesso lavoro da sola a un progetto sulla cellulosa. Credo che tutti, a partire dai partiti, dovrebbero considerare i ricercatori come normali lavoratori, non sognatori che devono fare la fame per inseguire la loro passione. Abbiamo bisogno di tranquillità, e di poter progettare. Tra dieci mesi finisce il mio contratto di Tipo A, 1.800 euro netti al mese: li paga la Regione Puglia e per ora non ci sono fondi per un rinnovo di altri due anni. In Puglia siamo in 170 in questa situazione. Al prossimo ministro? Chiedo solo di aumentare i finanziamenti per la ricerca».

Partito Democratico

Altri diecimila ricercatori nei prossimi cinque anni

Gli ultimi due governi di centrosinistra nelle Leggi di bilancio ‘16 e ‘17 hanno iniziato a reinvestire sull’università. Con la Finanziaria 2017 sono stati reclutati 1.300 nuovi ricercatori (altri 300 negli enti di ricerca). Il Pd ha sostenuto il premio per i dipartimenti di eccellenza e le chiamate dall’estero per i docenti, ma sono state fermate le Cattedre Natta (500 assunzioni dirette degli atenei). Il Fondo Ffo nel 2017 è passato da 6,957 miliardi a 7,011. Niente tasse per gli studenti con redditi familiari fino a 13.000 euro. Rivalutate le borse di dottorato e cresciute le borse di studio: molti studenti idonei, però, ancora non la ricevono. Sono stati sbloccati gli scatti dei docenti. Il programma Pd prevede: 10mila ricercatori di Tipo B in più nei prossimi 5 anni, soppressione dei punti organico e un’Agenzia nazionale della ricerca. Replica a Napoli dello Human Technopole di Milano e piano per l’edilizia.

Liberi e Uguali

Via le tasse per gli studenti e aumentare le borse di studio

Per le università italiane Liberi e uguali chiede “l’obiettivo della gratuità”: abolizione delle tasse per gli studenti e potenziamento del diritto allo studio (in Italia solo il 10 per cento degli universitari hanno borse di studio). Leu chiede di far crescere il finanziamento ordinario del sistema negoziando con l’Unione europea un aumento di Pil “fuori dal patto di stabilità”: in cinque anni 20.000 nuovi ricercatori negli atenei e 10.000 negli Enti di ricerca. Ridefinire dalle fondamenta l’Agenzia di valutazione Anvur: “Autonomo dalla politica e con personalità inattaccabili”. Sulla valutazione si chiede una Conferenza nazionale: “Basta con la logica di competizione tra gli atenei”. Superare il numero chiuso nei corsi di laurea e “no” alla scadenza dell’Abilitazione scientifica. “Il 3+2 si può rivedere”. Bisogna tornare al ministero dell’Università e della ricerca (Murst) e nuovi fondi per la ricerca di base, anche umanistica.

Movimento 5 Stelle

Risorse maggiori per gli atenei con criteri diversi da oggi

Il programma per università e ricerca del M5S è il più esteso e articolato. Il Movimento intende aumentare la quota del Fondo ordinario, ma non indica di quanto. La “quota premiale” deve diventare aggiuntiva e non “a sottrazione”. Nel riparto delle risorse per ogni ateneo si dovrà tener conto del successo dei laureati nel mondo, del reclutamento di giovani ricercatori, della diminuzione dei docenti di ruolo improduttivi. Si prevedono “specifici finanziamenti” per gli atenei in zone depresse. Il programma M5S vuole reintrodurre il ricercatore a tempo indeterminato, obbligarlo ad attività didattiche e sopprimere i ricercatori di Tipo A e Tipo B e gli assegnisti di ricerca. Viene ipotizzata un’unica figura di docente (oggi sono due: associati e ordinari) e si indica la necessità di limitare i ruoli extra-accademici dei professori verificando lo svolgimento dei compiti didattici.

Coalizione di Centro-Destra

Ministero solo per l’università e azzeramento del precariato

Il Decreto Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione dell’ultimo governo di centrodestra del Paese, ha tagliato un miliardo e 441 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università, tra il 2009 e il 2013. La Legge Gelmini, approvata nel dicembre 2010, ha limitato gli incarichi di rettore (sei anni non rinnovabili), soppresso diversi corsi di laurea (alcuni pleonastici), avviato il taglio del 20 per cento delle cattedre universitarie e reso strutturale il ricercatore precario (assegnista rinnovato ogni anno e ricercatore di “Tipo B”, tre anni non rinnovabile). Oggi nei dieci punti del programma del centrodestra al punto 7 si legge: “Azzeramento progressivo del precariato”, quindi: “Rilancio dell’università per farla tornare piattaforma primaria della formazione”. Renato Brunetta ha dichiarato che università e ricerca devono avere un ministero separato dalla scuola.

Francesco Sinopoli (Flc Cgil) – Tutto nasce nella scuola

Articolo pubblicato dal n. 1/2018 di Italianieuropei.

Tutto nasce nella scuola

Sulla scuola e sull’università, negli ultimi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali non vengono ricomposte ma moltiplicate. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe invece essere uno degli strumenti per limitarle. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi. Allora come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo?

Non si può dare inizio, dal punto di vista del sindacalista, a una ricognizione storica delle trasformazioni nate dalle grandi lotte dei movimenti degli anni Sessanta senza ricordare alcuni dei giudizi che ne diede Bruno Trentin, protagonista indiscusso di quella stagione. Non a caso Trentin parlò esplicitamente di “secondo biennio rosso”, a cinquanta anni di distanza dal primo. «Fu in quel periodo che le nuove generazioni che non avevano vissuto la tragedia e le costrizioni della seconda guerra mondiale cominciarono ad assumere un ruolo da protagoniste», aveva scritto nel volume sull’Autunno caldo e il biennio rosso pubblicato nel 1999. Trentin colse innanzitutto un mutamento culturale nella coscienza di classe e parlò della emersione della «cultura dei diritti del lavoratore in quanto persona».1 Operai e studenti raggiunsero insieme alcuni risultati concreti. Si erano create commissioni per la riforma della scuola secondaria, dell’università, delle attività artistiche legate al teatro e al cinema e perfino il sistema dell’informazione venne sottoposto a dura critica. Gli operai avevano conquistato forme di autodeterminazione in fabbrica. Ed è proprio in questa carica antiautoritaria che Trentin individuò il collante dei movimenti che segnarono il 1968-69: la contestazione di una cultura ossificatasi in una serie di nozioni e di una organizzazione del lavoro che tendeva a espropriare e centralizzare i saperi, anche attraverso la segmentazione, la parcellizzazione del lavoro così come la contestazione di una rigida e impermeabile divisione dei ruoli tra dirigenti e diretti e, nella scuola, tra docenti e discenti.

Certo, non mancava una riflessione profonda sull’eredità del Maggio francese. Lo spirito antiautoritario dei movimenti francesi si era diffuso ovunque in Europa, da Roma a Praga, da Berlino a Londra. Furono conquiste che contribuirono in parte a trasformare l’Europa e il mondo occidentale, la cultura e i modi di vivere, l’atteggiamento verso gli altri e la conoscenza. E soprattutto, lanciarono quella sfida che evidentemente non è ancora stata vinta: rendere la scuola e l’università centri di propulsione sociale e dell’apprendimento, dove tutti si sentono uguali e a casa. In fondo, era questa anche l’utopia di don Lorenzo Milani. A partire da questa narrazione, quale può essere il giudizio sull’eredità del Sessantotto? Ce lo chiediamo spesso e spesso ce lo chiedono proprio gli studenti del XXI secolo, cinquanta anni dopo. Il fatto è che le interpretazioni di quanto accadde nel Sessantotto non solo hanno diviso gli storici, ma in questi cinquanta anni, almeno alcune di esse, sono state veicolate ideologicamente per attribuire tutti i mali dell’ultima fase del Novecento e degli inizi del XXI secolo proprio a quanto accadde in quell’anno. Soprattutto gli intellettuali della destra, amanti del ripristino dell’antico ordine culturale, ne hanno fatto l’origine di tutti i mali contemporanei. Le ansie di liberazione dalle forme più becere di autoritarismo nelle scuole e negli atenei, da una cultura dominata in Italia dalla ideologia gentiliana e crociana (in realtà già stigmatizzata da Gramsci in molte parti dei “Quaderni del carcere”), da forme di insegnamento e di apprendimento che generavano privilegi e diseguaglianze e scavavano solchi sempre più profondi tra ricchi e poveri, sono la vera eredità che il paradigma e la storia del Sessantotto consegnano all’attualità del XXI secolo. Non farsene carico vuol dire essere miopi, e accettare la vulgata di qualche revisionista storico.

Nei primi due anni di contestazione studentesca, infatti, nel secondo biennio rosso, le conquiste del movimento studentesco sembravano aver contagiato istituzioni politiche e sociali, che cominciavano ad andare in crisi. E prima tra tutte andò in crisi proprio la scuola. Mai come in questo periodo la scuola visse un fermento così diffuso ed enorme proprio sul piano della revisione della pedagogia e dei sistemi di insegnamento e apprendimento, e mai come in questi due anni il movimento degli studenti universitari era riuscito a vincere un paio di battaglie strategiche: la liberalizzazione degli accessi all’università per le scuole di ogni ordine, consentendo a tutti gli studenti di accedere a qualunque facoltà volessero, e la promessa di una riforma democratica delle scuole superiori, che venne varata solo anni dopo con la legge del 1974 sui Decreti delegati. Infine, quello stesso movimento all’alba del 1969 decise che era venuto il momento di trovare un’alleanza sociale forte con il movimento operaio, con le lotte nelle fabbriche.

Come guardare al Sessantotto, dunque, usando gli occhiali che ci fornisce la storia di oggi? Intanto, vorrei sottolineare un punto che mi sembra segnare un legame stretto tra “loro e noi”: la necessità di restituire al sistema dell’istruzione il suo valore costituzionale, dettato dagli articoli 3, 33 e 34. L’Italia era diseguale negli anni Sessanta come lo è oggi, sul piano economico e sociale. Discriminazioni e diseguaglianze forti, insieme con forme disgustose di privilegio, erano presenti allora come sono presenti oggi. Finiti i “trenta gloriosi” anni dell’espansione economica ci ritroviamo più vicini agli anni Cinquanta che agli anni Settanta. E soprattutto, il diritto universale allo studio, sancito dalla Costituzione, era tradito allora come lo è oggi. Com’è possibile che ciò accada? È possibile perché sulla scuola e sull’università, in questi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali (e su questo don Milani aveva colto perfettamente il nocciolo della questione, come Alex Langer disse più tardi) non vengono ricomposte ma moltiplicate.

Nel procedere dei decenni, la risposta del potere politico alle istanze del Sessantotto e dei primi anni Settanta di liberazione della scuola e dell’università, la risposta ai sogni di tante generazioni di studenti, la risposta alle domande di rinnovamento poste da nuovi docenti, fu di chiusura, fino a raggiungere il livello massimo con l’atteggiamento del governo quando fu varata la legge 107/2015, a coronamento di un processo ideologico continuo. Ricostruire istituzioni autoritarie del sapere: era questa la sfida che il potere politico aveva lanciato per contrastare la fenomenologia del Sessantotto, che richiedeva invece apertura e dialogo. E accanto alle istituzioni autoritarie, rianimare tutte le forme del privilegio. È così che nasce la “mitologia retorica” del primato del merito, o meritocrazia (il termine, coniato nel lontano 1958 da Michael Young, aveva assunto nella sua creazione un’accezione negativa), dell’ideologia “del capitale umano” da formare nelle scuole e da “prestare” all’industria, del “si salvi chi può”, che è la vera religione dell’ideologia individualistica della nuova borghesia pre e post crisi (Bauman ne descrisse i contorni sin dal 2002). Ora, però, dobbiamo fare esattamente l’opposto; restituire alle istituzioni del sapere quel sapore costituzionale che hanno via via perduto in questi anni di egemonia culturale neoliberista. Occorre perciò porsi l’interrogativo giusto: quale scuola vogliamo costruire, mutando sistema e paradigma, per le generazioni del XXI secolo, basandola su quali fondamenti e presupposti teorico-pedagogici e determinando quale senso attribuirle. Riteniamo che oggi si debba ripartire dalla riaffermazione della missione di contrasto alle diseguaglianze e di costruzione di un sapere critico per una cittadinanza consapevole.

Uno dei punti critici certamente è quello delle transizioni. In Italia le transizioni più problematiche sono nel passaggio tra la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado e tra quest’ultima e la secondaria di II grado. Nel primo caso è evidente come la generalizzazione degli istituti comprensivi si è risolta fondamentalmente in un’operazione di risparmio con la formazione di megaistituzioni scolastiche da mille e più alunni, mentre sullo sfondo sono rimaste le problematiche connesse alla transizione nell’approccio didattico educativo tra i due segmenti. In sostanza, vanno problematizzati i passaggi critici in cui la scuola dell’apprendimento diventa scuola delle discipline insieme alla complessità nell’affrontare le caratteristiche della pre-adolescenza nella società contemporanea. Nel secondo caso continuiamo a registrare soprattutto nel primo anno della secondaria di II grado un livello di dispersione scolastica (intesa come abbandoni, bocciature e ripetenze) inaccettabile. Dov’è che la scuola inizia a fare fatica nell’assolvere alla sua funzione costituzionale? Dove intervenire affinché nessuno resti indietro? La verità è che non si sono poste queste domande, ma al contrario le policy degli ultimi anni hanno privilegiato un approccio ben diverso, quello per il quale il miglioramento della scuola passa dall’assunzione del modello di “quasi mercato”.

Il sistema di “quasi mercato” elaborato in particolare in Inghilterra nell’era thatcheriana, poi raffinato negli anni successivi, per i suoi sostenitori – oltre a produrre una competizione tra istituzioni che già in quanto tale sarebbe virtuosa – porterebbe un beneficio ulteriore e immediato per le famiglie (i consumatori nello schema mercatista) che consiste nella possibilità di scegliere la scuola dove mandare i propri figli individuando quella più in sintonia con le proprie attitudini, inclinazioni ecc. Si innescherebbe un processo complessivo di miglioramento a livello di sistema appunto in quanto si potrebbero premiare le scuole “migliori”. Anche nel nostro paese secondo alcuni la competizione tra scuole dovrebbe contribuire a risolvere le criticità emerse dalle indagini nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti, incentivando il miglioramento delle istituzioni scolastiche in termini di efficacia e di efficienza. Da qui la centralità delle informazioni che le famiglie possono ricevere per effettuare la scelta. In particolare quella sui livelli delle conoscenze e competenze ottenuti dagli studenti che frequentano quelle scuole. Nel modellino tutto funziona. Nella realtà no. Nelle scuole dei quartieri più difficili e nelle zone più disagiate si concentrano i figli di chi per ragioni culturali ed economiche non è nelle condizioni di orientare la scelta. In sostanza nel paese dove il modello della school choice è stato pensato e realizzato nella forma più pura si registra un collasso della mobilità sociale. In Italia, la legge 107/2015 con il suo modello manageriale molto elementare è funzionale a realizzare la scuola della competizione e della concorrenza, l’opposto di quella dell’inclusione e dell’uguaglianza, per questo deve essere cancellata. Oggi dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica. Ossia se sia proprio vero che i figli della povera gente siano più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. In sostanza da quella domanda nacque l’esperienza di Barbiana e di don Milani. Perché oggi come ieri se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Il punto non è quello di consentire una scelta informata ma come far ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, come si costruiscono le condizioni per far sì che la scuola sia uno strumento di contenimento delle diseguaglianze e non un moltiplicatore. Le presunte ragioni “meritocratiche” che hanno coperto ideologicamente gli interventi sulla scuola degli ultimi anni dai tagli della Gelmini al primitivismo della chiamata diretta, del bonus docenti e di tutto il managerialismo straccione della legge 107, compreso l’assurdo sistema di valutazione dei dirigenti scolastici che funge da strumento di pressione per introdurre una competizione interna alle scuole e tra le scuole producono l’effetto opposto. Alimentano le diseguaglianze costruendo una scuola che specchiandole nei fatti le moltiplica.

Serve quindi un altro tipo di riflessione e bisogna sgombrare il campo da una serie di equivoci. Il primo è che la scuola non può essere più il terreno di confronto e di scontro tra forze politiche, per cui ogni governo si sente in dovere di “scrivere” la propria riforma. Nell’ultimo quarto di secolo, quella infrastruttura è stata modificata più volte, e non sempre, anzi, con risultati positivi. Il secondo è che le policy degli ultimi venti anni hanno letteralmente sbrindellato l’infrastruttura, che è diventata ormai una sorta di autostrada con mille buche, mille pericoli, e regole insensate. Il terzo equivoco è che non c’è alternativa al pensare a forme di investimento, di reclutamento, di intervento sul patrimonio edilizio, stabili, strutturali e notevoli, in coerenza con le grandi democrazie europee. Il primo dovere per un’infrastruttura di qualità è che abbia risorse, sia stabile, e che necessiti di poca o scarsa manutenzione. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe essere uno degli strumenti per limitarle. Oggi avviene il contrario. Nel corso degli ultimi anni il sistema di istruzione è stato trasformato in un amplificatore delle diseguaglianze sociali, all’opposto di quanto prevede l’articolo 3 della Costituzione. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università, hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi.

Come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo? Abbiamo lanciato una sfida all’opinione pubblica, che qui ribadisco: apriamo un grande dibattito, il più largo e unitario possibile, tra coloro che la scuola la vivono, i pedagogisti nazionali e internazionali, i sindacati, gli intellettuali, le forze politiche, e cerchiamo di giungere a una sorta di Assemblea costituente della scuola. Riscrivere le regole della scuola del XXI secolo non può che essere compito della nazione intera, perché quella infrastruttura è di tutti e interessa tutti (come pensava don Milani), perfino i nonni. Allora, occorre fermarsi e riflettere, evitando scelte estemporanee e decisioni spesso avventate (dagli smartphone al quadriennio, dai vaccini obbligatori alle esperienze negative, ma obbligatorie, in materia di alternanza scuola-lavoro – sfruttamento e ricatti, l’emendamento sull’uscita degli studenti delle medie). Sapendo che nessuno di noi ha la ricetta già pronta. Anzi. Il livello di problematicità è altissimo, la sfida è enorme, ma vale la pena tentarla, per evitare che ogni sisma, ogni piccolo scossone possa turbare il già delicato equilibrio della scuola e delle scuole. Altri spunti, per titoli: a) la centralità dell’intelligenza e del futuro degli studenti, abbinata al valore socialmente indiscutibile dell’insegnante; b) aumentare e rendere strutturali le risorse per l’infrastruttura scuola: arrivare ad esempio al 7 o all’8% del PIL, rispetto all’attuale 5% scarso (circa 100 miliardi l’anno), raggiungendo le democrazie occidentali più avanzate; c) dobbiamo mettere in discussione un sistema di valutazione che nei fatti sta legittimando la deriva verso il sistema di “quasi mercato” a cui abbiamo fatto riferimento prima; d) investire nella formazione continua di docenti e lavoratori della scuola; e) il ripensamento della didattica, rendendo ad esempio coerenti i programmi disciplinari; f) trasformare l’alternanza in “istruzione integrata”, nella quale si rende meno complicato il rapporto tra mondo del lavoro e mondo della scuola, evitando il rischio di sfruttamento, ma inserendo l’esperienza (Dewey) della disciplina del lavoro nel sistema dell’educazione; g) realizzare un vero investimento sulla scuola dell’infanzia e sulla primaria. In che modo pensiamo la scuola come infrastruttura? Cominciamo a costruirla sapendo che le sue fondamenta sono ben radicate nella Costituzione, nel diritto al sapere e alla conoscenza, nel diritto delle nuove generazioni a essere accompagnate nelle loro complesse esperienze esistenziali. Intanto, è ciò che abbiamo tentato di fare redigendo un Manifesto per “tutti e tutte” e come bene comune in una società democratica. Nel Manifesto è segnalato in particolare e tra le altre cose che «la scuola è un bene comune che appartiene al paese e non può essere oggetto di riforme non condivise e calate dall’alto (…) è funzionale alla rimozione delle diseguaglianze, enormemente accresciute in questi anni (…) non è un luogo di addestramento al lavoro, ma è una comunità educativa (…). La scuola dimostra ogni giorno che l’arte, la scienza, la cultura non sono riducibili a processi burocratici, a parametri economici, a logiche classificatorie e meritocratiche». C’è un nesso stretto e inscindibile tra il Manifesto per la scuola inclusiva e costituzionale, firmato tra l’altro dai quattro segretari nazionali dei nostri sindacati, e l’opera pedagogica e sociale di don Lorenzo Milani. Una scuola moderna o è aperta al mondo oppure non è, e una scuola aperta significa anche che nessuno resta indietro, dove tutti conoscono i diritti e i doveri che la Costituzione assegna ai cittadini, e dove nessuno, crescendo, può essere sfruttato. La scuola non può che essere la palestra della democrazia, ma anche della liberazione attraverso la conoscenza critica e la consapevolezza del mondo. Solo così riusciremo a trasformarla da elemento e fattore delle diseguaglianze sociali, a elemento dinamico della giustizia sociale e della democrazia, nella quale l’alfabeto dell’esclusione farà spazio alla società aperta e inclusiva. Un’infrastruttura scolastica non può che essere nazionale, e deve legare tutte le parti del paese, soprattutto le più disagiate.

Oggi purtroppo così non è. Se partiamo dalle università, si scopre non solo che in dieci anni sono migrati dal Sud verso il Nord (e l’Europa) circa 200.000 laureati, un esercito per il quale il Mezzogiorno paga un conto salatissimo e amarissimo, sia dal punto di vista esistenziale (giovani strappati alle famiglie), che da quello del mancato sviluppo per effetto dell’evidente impoverimento delle energie intellettuali (valutato in circa 30 miliardi l’anno), ma soprattutto che più della metà dei giovani che ogni anno si maturano nelle scuole secondarie del Mezzogiorno non possono iscriversi all’università per ragioni economiche e a causa dei costi diventati ormai proibitivi per famiglie per lo più monoreddito e con un’occupazione povera. Si tratta di una delle ingiustizie più gravi e drammatiche che un paese sviluppato possa tollerare: l’accesso allo studio, il diritto al sapere e a una vita migliore sacrificati per effetto di una condizione di povertà diffusa. Una beffa. In breve: se infrastruttura dev’essere, la scuola non può limitarsi a educare il capitale umano; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; non può che ottenere risorse finanziarie pari a quelle delle grandi democrazie occidentali; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non a moltiplicarle; come accade tra Sud e Nord, dove la sperequazione è aumentata nel corso dell’ultimo decennio. Infrastruttura sì, ma con molto giudizio. La verità è che i cambiamenti della scuola andrebbero approvati con maggioranze costituzionali, in grado di garantirne la continuità nel tempo. Cambiamenti che vanno attentamente valutati e monitorati. Dopo le presunte riforme degli ultimi anni, un intervento riformatore avrebbe bisogno di una vera e propria Costituente della scuola, tra le forze politiche e quelle sociali, i rappresentanti degli studenti e delle famiglie, il governo centrale e il sistema delle autonomie locali, per delineare un progetto condiviso. Per questo, in mancanza delle condizioni per realizzarla, a fronte di un quadro politico dove prevalgono spinte conservatrici e regressive, bisognerà promuoverne una dal basso, mettendo a disposizione tutte le nostre energie a servizio di una grande mobilitazione del mondo della scuola nella quale un ruolo chiave dovrà avere il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, perché la riconquista di diritti, salario e dignità si deve necessariamente coniugare a una idea di scuola radicata nella Costituzione, capace di guardare al presente e al futuro.

 


[1] B. Trentin, Autunno Caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969, Editori Riuniti, Roma 1999, pag. 11.

Alba Sasso – Un liceo per ragazzi scelti come si deve, senza inutili scarti

Articolo pubblicato sabato 10 febbraio 2018 da il manifesto.

Un liceo per ragazzi scelti come si deve, senza inutili scarti

Licei e non solo. L’impegno a cancellare alla radice l’assetto della Buona scuola non è solo uno slogan efficace di campagna elettorale ma un obiettivo strategico irrinunciabile a sinistra

«Andare a scuola- diceva don Lorenzo Milani, profeta del nostro tempo- è un privilegio. Ma deve esserlo per tutti, anche per i ragazzi che nessuno vuole. L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati».

Una volontà che partiva dall’esigenza di restituire dignità a ognuna e ognuno, anche attraverso l’istruzione gratuita e per tutti, attuando il dettato Costituzionale. Rimuovere gli ostacoli per un’effettiva eguaglianza.

Certo qualcuno può pensare che basta, che non è più tempo di andar dietro a ubbìe sessantottine e poi che questo può valere per i primi gradi dell’istruzione, ma poi dopo no, certamente no, quando si va alle scuole che contano.

Ai licei per esempio.

Non sono più casi isolati le presentazioni che alcuni tra i più prestigiosi licei italiani, di Roma, di Milano, di Genova (anche altrove avviene, ma fa meno notizia) fanno delle loro caratteristiche e dei loro percorsi di studio, prima delle iscrizioni per il prossimo anno. In alcune di esse, senza alcun pudore, si tende a precisare che l’assenza di gruppi di ragazzi svantaggiati per etnia o per censo (che poi sarebbero i poveri e gli immigrati) e dei ragazzi disabili permette di accogliere e seguire negli studi, con esiti più favorevoli, tutti gli altri «omogenei» frequentanti. Perché in questo modo si rende la didattica più semplice, come dichiara una dirigente. E si favorisce l’apprendimento.

E lo si dice così, senza troppi giri di parole, in maniera esplicita, impensabile fino a qualche anno fa. Come se si parlasse di un interesse generale. E’ solo per rassicurare i genitori e promettere loro che in quella scuola si insegna e si impara meglio, senza quelle «remore» che ne impediscono la tranquilla navigazione?

Per assicurarsi soprattutto i contributi, ahimè non più solo volontari, delle famiglie che possono pagare, che ormai in assenza di altre entrate sono il principale sostegno delle scuole?

La cosa che però preoccupa e sconvolge è che si sta parlando della scuola pubblica come se si trattasse di un percorso privato da gestire e far funzionare, ma solo per alcuni. Mettendo sotto i piedi o semplicemente ignorando una tradizione democratica della nostra scuola, quel ‘diversi ma eguali’ nella scuola di tutti, che nella giornata di ieri ha difeso anche la Ministra Fedeli.

C’è da chiedersi cosa sia successo in questi ultimi anni. In che modo si siano incrociate la volontà di non ascoltare la voce e la democratica protesta del mondo della scuola rispetto alla legge 107, le ansie manageriali, gli egoismi proprietari di alcune famiglie, la volontà di rottura di quel patto tra cittadini e Stato, per cui ognuno decide per sé, dai vaccini alle mense. E ancora, la sempre più grave mancanza di investimenti. Siamo un Paese che è sotto la media europea nel rapporto investimento in istruzione e prodotto interno lordo. Che è in Italia solo il 4%.

E infine pesa l’assenza, ormai da molti anni, di un dibattito pubblico, non interno alla vita della scuola, su quale sia oggi non solo il sapere che serve, ma il sapere che fa crescere, che ti fa incontrare altre vite, altre culture, altri mondi. Che sappia educare alla convivenza e al rispetto dell’altro da sé. Un sapere che ha bisogno di tempi distesi e soprattutto di confronto continuo.

Di tutto questo non si parla più da tempo. Con la 107 si è pensato di lavarsi le mani rispetto a tanti problemi, inventandosi managerialità e autosufficienza delle singole scuole anche rispetto alla loro sopravvivenza. Dimenticando che oggi serve più scuola per tutte e tutti, gratuita e obbligatoria fino ai 18 anni. E che non possiamo sostituire un governo complessivo del sistema, che esige confronto e condivisione tra scuola e Paese con il governo della singola scuola.

Questa vicenda lancia un forte allarme, perché è il simbolo di una malattia più profonda. Un Paese ogni giorno più gretto, più miserabile, più incarognito, in dissidio profondo con se stesso. Per questo bisogna lanciare un allarme democratico. E fare senza tregua una campagna contro queste miserabili ‘innovazioni’, che rischiano di respingerci verso un orizzonte di illimitata barbarie.

Riflettano su questi dépliant pubblicitari i cantori della «buona scuola».

Dobbiamo anche a quella legge questa nuova torsione elitaria e discriminatoria del confronto tra scuole.

Alternanza scuola-lavoro, arrivano i tutor-controllori: “Vogliamo estirpare i casi di abuso”

Articolo di Alex Corlazzoli pubblicato lunedì 5 febbraio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Alternanza scuola-lavoro, arrivano i tutor-controllori: “Vogliamo estirpare i casi di abuso”

L’obiettivo degli “inviati” dell’Agenzia nazionale per le politiche del lavoro è quello di risolvere il problema di mettere in contatto imprese e istituti oltre che aiutare i dirigenti scolastici nella burocrazia. Si parte con 400 scuole su 5mila. Tra gli obiettivi anche quello di avere una mappatura delle mansioni offerte ai ragazzi

Per verificare l’efficacia e le procedure dell’alternanza scuola-lavoro da lunedì arriverà nelle scuole un esercito di tutor dell’Agenzia nazionale per le politiche del lavoro. Mission di questi agenti “speciali” sarà quella di risolvere il problema di mettere in contatto imprese e istituti oltre che aiutare i dirigenti scolastici nella burocrazia. Si parte con 400 scuole su cinque mila ma entro la fine dell’anno l’Anpal conta di entrare in 1.300 realtà per arrivare nel 2019 a dare una mano a 2.500 scuole.

Una volta la settimana il tutor sarà presente negli uffici delle segreterie e dei presidi per cercare di creare un raccordo con le aziende e per controllare l’efficacia di questo patto. Nessuno di loro si occuperà di incontrare i ragazziil rapporto con gli studenti sarà gestito dal tutor scolastico. Una risposta all’Sos lanciato dalle scuole al ministero dell’Istruzione che ha selezionato le realtà dove inviare i tutor dell’Anpal. Si tratta di persone in parte già impegnate in questa operazione e in parte selezionate ad hoc: laureati che hanno fatto una formazione specifica interna ed esterna sullo specifico compito del tutoraggio all’alternanza. L’agenzia punta soprattutto ad andare in soccorso dei licei che sono quelli meno dotati di strumenti per rispondere alle necessità del progetto di alternanza scuola-lavoro.

Nei mesi scorsi gli studenti hanno più volte denunciato le storture di questa esperienza: c’è chi è stato costretto a volantinare per dodici ore al giorno, chi si è trovato a pulire bagni e tavoli al ristorante e altri ancora che hanno trascorso giornate a catalogare polverose locandine degli anni Ottanta in un cinema. L’Unione degli Studenti della Puglia ha lanciato la campagna “A scuola io non faccio l’operaio” per portare alla luce i casi di “uso distorto” del percorso formativo. La Rete degli Studenti Medi che raggruppa le associazioni delle scuole superiori attive in ogni città italiana, aveva lanciato anche un questionario per monitorare in tutto il Paese l’alternanza scuola-lavoro e un numero verde, 800 194 952, cui possono rivolgersi gli studenti. I ragazzi erano anche scesi in piazza contro l’obbligatorietà dell’alternanza prevista dalla Legge 107 e anche qualche dirigente aveva sollevato perplessità per la difficoltà a mettersi in contatto con le aziende.

Una situazione che non nasconde il presidente dell’Anpal Maurizio Dal Conte: “Uno dei nodi più critici è la scarsa disponibilità delle imprese ad accogliere: considerato che da quest’anno diventa obbligatorio per 1,4 milioni di studenti si tratta di un grande impatto sulle piccole e medie imprese che non sempre sono strutturate per ricevere uno studente”.

Tra gli obiettivi vi sarà quello di avere una mappatura delle mansioni che offrono le imprese: “Il nostro lavoro – spiega il presidente – sarà quello di fare un patto tra azienda e scuola dove dev’essere chiaro cosa faranno i ragazzi: ad oggi non c’è un soggetto terzo come l’Anpal che garantisce questo accordo. Si cercherà di non mandare un liceale a friggere le famose patatine ma inviarlo in una biblioteca o in un museo. Saremo in grado di avere una filiera controllata dall’inizio alla fine. Vogliamo isolare ed estirpare i casi di abuso dell’alternanza e lo si potrà fare grazie alla presenza fisica dei tutor che controlleranno quello che sta scritto sulla carta. Non sarà più solo lo studente a segnalare ciò che non va”.

Oggi anche l’aspetto burocratico ha le sue difficoltà: “Spesso gli studenti – confida Dal Conte – arrivano nelle imprese senza l’assicurazione corretta, con una copertura che non copre tutti i rischi oppure si presentano senza codice fiscale. I tutor daranno una mano anche dal punto di vista burocratico”. Un’operazione seguita dal sottosegretario Gabriele Toccafondi: “L’alternanza è scuola a tutti gli effetti quindi va fatta ma bene. Un elemento che non aiuta la qualità è anche l’offerta. Più luoghi si aprono ad esperienze di alternanza più le scuole potranno scegliere quelle migliori e adatte alle singole aspirazioni dei ragazzi. L’esperienza dì Anpal va in questa direzione”. Intanto nei giorni scorsi al ministero è stato costituito l’Osservatorio nazionale sull’alternanza che metterà intorno a un tavolo tutti gli attori coinvolti, a partire dagli studenti, dai loro docenti e dirigenti scolastici. Ogni sei mesi è previsto un report sullo stato di attuazione dell’alternanza.

 

Scuola, finalmente l’appello: sette temi per un’idea di futuro

Articolo di Marina Boscaino pubblicato sabato 13 gennaio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Scuola, finalmente l’appello: sette temi per un’idea di futuro

Finalmente qualcuno l’ha fatto: comporre, passaggio dopo passaggio, argomentazione dopo argomentazione, i nuclei concettuali, i principi ai quali da più di 20 anni stanno plasmando – e uniformando – i sistemi scolastici europei. Del resto, lo sappiamo: ce lo chiede l’Europa!

Sette temi per un’idea di scuola: leggetelo e, se siete d’accordo, sottoscrivetelo. L’appello, che in poche settimane ha raccolto circa ottomila firme (dai maestri della scuola dell’infanzia agli ordinari di diverse facoltà universitarie, nonché molti cittadini che riconoscono nella scuola della Costituzione lo strumento dell’interesse generale), ha il merito di non scagliarsi, come pure sarebbe legittimo, sulle mille nefandezze della normativa scolastica degli ultimi decenni; ma di nominare – in sette punti specifici – quelli che sono stati i concetti organizzatori che hanno dato vita alle “deforme” che si sono abbattute sulla scuola italiana e di cui sono stati compartecipi governi di centro destra e di centro sinistra.

E che hanno cambiato il volto della scuola “che rimuove gli ostacoli” e promuove l’istruzione completa di “capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi”. Attraverso la enucleazione e l’analisi di questi principi, si ricostruiscono i passaggi che hanno impiantato un modello ideologico, che parte da molto lontano, e che ha trovato accoglienza in tutta la legislazione scolastica, dall’autonomia del 1997 alla legge 107/15 (passando per la legge di parità, la riforma del Titolo V, Moratti, Gelmini e il “cacciavite” di Fioroni).

Il progressivo smantellamento della scuola della Costituzione – e soprattutto dei fondamenti costituzionali su cui la scuola pubblica italiana si è fondata – è transitato attraverso la giustapposizione all’istruzione di criteri economicisti e efficientisti, che hanno ridotto a merce l’attività scolastica e a modelli produttivistici le modalità di svolgimento di tale attività. Come tutte le ideologie, il neoliberismo – per plasmare o tentare di plasmare le nostre azioni e le nostre convinzioni – ha anche ri-fondato il linguaggio. Vari i mantra irrinunciabili e seduttivi: innovazione, competenze, lavoro, velocità; non a caso tutti diktat contenuti nel documento “Educazione e competenze in Europa” dell’European Round Table del 1989 (un gruppo di industriali incaricati di analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e di formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici).

Un’operazione culturale e politica, che ha condizionato potentemente molti di coloro che nella scuola operano ogni giorno: attraverso non solo la normativa, ma l’editoria di riferimento, i documenti, la formazione dei docenti, la funzionalità di alcune figure preposte alla riuscita del progetto (il dirigente scolastico sostituito al preside, a ribadire che da comunità educante ci si stava trasformando in azienda territoriale), la fanfara mediatica. Passata attraverso la semplificazione (un’altra parola-chiave, interpretabile nelle maniere più diversificate) di un processo “riduttivo e riduzionista”, come si legge sull’appello. Un’operazione che ha fatto sostanzialmente terra bruciata – a partire dalle coscienze individuali – della funzione politica di docenti e scuola pubblica; la cui neolingua ha eroso – svuotandole o modificandole nel significato o relegandole al rango di reperti di antiquariato – parole e concetti come cultura emancipante, unitarietà del sistema scolastico, relazione educativa, diritto all’apprendimento, valutazione; e, in effetti, cosa c’entrano quei concetti e quelle parole con una struttura aziendale, vocata al risultato e alla competizione?

Questo appello ha, ancora, il merito di far uscire allo scoperto i molti che – al cospetto di un’operazione tanto potente – hanno continuato nel proprio lavoro quotidiano a praticare i (sempre più limitati) spazi della libertà di insegnamento e il pensiero critico analitico, come salutare antidoto all’appiattimento al Pensiero pedagogico unico delle competenze, dei test Invalsi, della velocità onnivora e incapace di selezionare qualità (si pensi alle sperimentazioni delle superiori brevi). Che sono rimasti convinti che non è la reductio ad unum dell’eterodirezione ciò che potrà rendere significativi (e cioè positivi e funzionali alla capacità di interpretare la complessità del reale) percorsi di apprendimento per bambine/i e ragazze/i la cui infinita diversità – che ha da sempre costituito il potenziale più straordinario della scuola pubblica – non può essere compressa e conchiusa nella opinabile innovazione tecnicale, sebbene multiforme e polimorfa; che hanno continuato ad attribuire all’espressione “fare lezione” il significato più alto in termini relazionali, comunicativi e didattici; che hanno difeso il primato della qualità dell’insegnamento rispetto a tutti i nuovi dogmi.

Gli estensori affidano all’appello soprattutto la possibilità di inaugurare una nuova “lotta cosciente e resistente in difesa della scuola, per una sua trasformazione reale e creativa” attraverso la riapertura di un dibattito reale, onesto e articolato sul tema della scuola. Agli oppositori dell’appello, che stanno legittimamente alimentando il dibattito, si potrebbe chiedere di dimostrare – dati alla mano, però – come quella che chiamano “innovazione” nella scuola abbia prodotto – dalle competenze all’Invalsi, dall’inserimento intensivo delle tecnologie al Clil – apprendimento significativo e miglioramento della qualità della scuola italiana.

Il dibattito interpella movimenti politici, all’esordio di una campagna elettorale che si prefigura particolarmente tesa e in cui non potrà mancare questo tema strategico; sindacati; associazioni, docenti, studenti e genitori. Cittadini: tutti coloro che hanno compreso che un’idea di scuola prevede un’idea di futuro, che quindi ci riguarda tutti. E che il futuro che ci si prospetta al momento non è dei migliori.

Francesca Coin (Università Ca’ Foscari di Venezia) – Chi aiuta chi? L’Alternanza Scuola-Lavoro e la grande farsa delle politiche sull’occupazione in Italia

Articolo pubblicato sabato 21 ottobre 2017 sul sito di Effimera.

Chi aiuta chi? L’Alternanza Scuola-Lavoro e la grande farsa delle politiche sull’occupazione in Italia

“Piccoli snob radical-chic”, è questa la formula usata dal segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli per definire gli studenti scesi in piazza contro l’Alternanza Scuola-Lavoro. Ne avessimo sentito l’esigenza, potremmo affiancare a questa definizione un’altra perla, quella di Giancarlo Loquenzi, giornalista di Radio 1, che ci ha tenuto a precisare che gli studenti impiegati nell’alternanza non sono “schiavi delle aziende”, ma più semplicemente persone da aiutare in quanto “non in grado” anche semplicemente di “arrivare puntuali, […] comprendere la struttura gerarchica dell’ufficio, fare un caffè come si deve, ricordarsi il giorno dopo delle cose che gli erano state dette il giorno prima”.

Eccoci rivelata la ratio di tutti i recenti provvedimenti in tema di lavoro e giovani, dalla Legge di Bilancio approvata il 16 ottobre all’Alternanza Scuola-Lavoro, il programma disciplinato dagli articoli 33 – 44 della legge 107/2015 (La Buona Scuola), che prevede sulla carta di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti, mentre nei fatti rischia di rivelarsi la più grande creazione di lavoro gratuito obbligatorio mai esistita in Italia. La logica dichiarata è “aggredire quello che è il nemico più temibile dell’Europa di oggi, e della nostra società, cioè la disoccupazione giovanile”, ma il problema della disoccupazione in queste narrazioni non viene ricondotto alle caratteristiche macroeconomiche della realtà, come sarebbe corretto fare, ma al carattere delle nuove generazioni: alla profonda inettitudine dei giovani odierni e alla loro resiliente inedia, quella maledetta anda radical-chic di chi non si sa nemmeno allacciarsi le scarpe.

In un contesto siffatto, la strategia principale del governo per creare occupazione è coerente con la motivazione sopra riportata. Per creare occupazione non servono investimenti, sembrano aver pensato al governo, basta pagare le aziende affinché si facciano carico del reale problema della nostra società: i giovani.

Vediamo dunque chi aiuta chi, nelle attuali politiche del lavoro in Italia, e prendiamo il caso specifico dell’Alternanza Scuola-Lavoro. Nel contesto attuale, essa:

  • regala alle aziende lavoro gratuito. Da quest’anno saranno 1,5 milioni gli studenti coinvolti nell’alternanza, ma se ci rifacciamo agli ultimi dati utili, quelli relativi agli studenti in alternanza nell’anno scolastico 2015/2016, vediamo che in quell’anno secondo il Focus “Alternanza scuola-lavoro” pubblicato dal Miur nell’ottobre 2016 c’erano circa 652.641 studenti in alternanza tra licei e istituti tecnico-professionali, per un totale di circa 90 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti del liceo (200 ore per 455 mila studenti) e 80 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti degli istituti tecnici e professionali (400 ore per 200 mila studenti). È difficile in Italia calcolare l’entità del risparmio che questo elevato numero ore di lavoro gratuito consente alle aziende, a causa dell’estrema segmentazione degli inquadramenti contrattuali e dell’enorme pressione al ribasso seguita al Jobs Act. Supponendo, tuttavia, di poter retribuire il lavoro erogato con il compenso medio riconosciuto dal salario minimo nell’Eurozona (in Italia notoriamente inesistente), che è sì fortemente differenziato per paese ma consente almeno un orientamento minimo circa quale sia la retribuzione in grado di garantire dignità del lavoro; supponendo quindi che questi 170 milioni di ore di lavoro gratuito erogato dagli studenti vengano retribuiti 7 euro all’ora l’alternanza scuola-lavoro avrebbe consentito alle aziende un risparmio di circa 1 miliardo e 190 milioni di euro nel solo anno scolastico 2015-2016 – cifra che dobbiamo quasi triplicare a partire da quest’anno dato l’aumento del numero complessivo di studenti coinvolti nell’alternanza.
  • Oltre a questo risparmio, dobbiamo considerare che l’alternanza scuola-lavoro legittima non solo l’esistenza di lavoro non pagato, ma anche la sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata, creando, si potrebbe dire, un esercito industriale di riserva interno ai luoghi della produzione e pertanto ancor più controllabile. Non è un caso che buona parte delle ore di alternanza per gli studenti delle classi terze e quarte della scuola secondaria venga svolta nella pausa estiva all’interno di lavori stagionali. Come denunciato da Flc-Cgil, l’alternanza dovrebbe essere “una opportunità formativa e gli studenti non devono sostituire posizioni professionali”, come invece accade.
  • Detto che molti stagionali vengono sostituiti da studenti in alternanza, questo significa che né i vecchi stagionali né gli studenti in alternanza ora riceveranno un salario, il che implica anche che l’Alternanza scuola-lavoro va a creare nuova povertà nella classe lavoratrice, togliendo la retribuzione per intero ai giovani studenti-lavoratori stagionali (siamo passati in pochi anni dalla generazione 1.000 euro alla generazione 350 euro, quando va bene, dice Marta Fana nel suo impeccabile Non è lavoro, è sfruttamento, da poco pubblicato per Laterza);
  • Non dimentichiamo poi che l’alternanza è obbligatoria ai fini degli esami di stato, il che significa che gli studenti, spesso minorenni, vengono mandati a lavoro in condizioni strutturali di ricattabilità e alla mercé del datore di lavoro il quale, se malintenzionato, può chiedere qualunque cosa in cambio di una valutazione positiva, come nel caso delle studentesse di Monza che la scorsa estate hanno denunciato il loro datore di lavoro per molestie sessuali.
  • Per non parlare di sicurezza e di infortuni sul lavoro, lasciati alla responsabilità della scuola e a corsi di formazione inadeguati, al punto che non mancano di esservi incidenti sul lavoro in un paese che già ha un triste record in questa direzione – si pensi al caso dello studente di 17 anni rimasto schiacciato il 6 ottobre 2017 sotto il carrello elevatore del muletto mentre svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso una ditta specializzata nella riparazione di motori industriali.
  • Mentre le scuole dedicano ore di formazione curricolare a Alternanza-Scuola lavoro, queste sottraggono altresì ore di formazione ai curricula tradizionali, ore di cui pure gli studenti, in particolare quelli provenienti da contesti meno agiati, avrebbero bisogno per evitare un destino di bassa manovalanza per aziende ansiose di tagliare il costo del lavoro, precisamente quello in cui ora vengono cooptati;
  • A tutto questo bisogna aggiungere il vantaggio indiretto che le aziende avranno assumendo studenti che hanno svolto almeno il 30% di ore di alternanza, come previsto dalla legge di bilancio, senza considerare gli incentivi derivanti dai Programmi operativi regionali (POR), che variano da regione a regione e che a loro volta si propongono di cofinanziare la realizzazione di progetti di alternanza scuola-lavoro a favore di studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori di II grado (ancora incentivi alle aziende per la creazione di lavoro non pagato).
  • Bisogna infine considerare che l’alternanza scuola-lavoro avviene all’interno di un contesto molto preciso, nel quale la strategia del governo per aumentare l’occupazione negli ultimi anni è rimasta sempre eguale: sgravi contributivi alle aziende e lavoro precario. In generale il costo degli sgravi contributivi come calcolato da Adapt è stato di circa 18 miliardi. Di converso, come dimostrano i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps pubblicati il 19 ottobre, nel mondo del lavoro ciò che aumenta di più sono i contratti a termine, a descrivere uno spostamento costante di risorse dallo Stato ai privati che alle giovani generazioni regala solo lavoro precario e mal pagato.

In questo contesto, è evidente che la retorica con la quale il governo assicura che “sta aiutando l’occupazione e i giovani” non nasconde solamente una narrazione indigesta e completamente pretestuosa oltreché inadeguata a descrivere il mercato del lavoro in Italia, nel quale le competenze dei giovani lavoratori sono fortemente eccedenti rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro italiano – come dimostra un qualunque rapporto Almalaurea. La politica degli sgravi e della decontribuzione ha una finalità più profonda: artefare consenso e impedire lo sfaldamento delle relazioni tra le imprese e lo stato, in una fase storica nella quale il tessuto produttivo è messo a dura prova dal perdurare della crisi economica e dall’assenza di investimenti.

Vale la pena ricordare che negli anni della crisi il sistema delle imprese italiane ha ridotto i propri investimenti in modo estremamente significativo. Il rapporto Sivmez 2015 parla di “crollo epocale al Sud degli investimenti dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (- 17,1%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -47,4% al Sud e del – 55,4% al Centro-Nord; in agricoltura (-38% al Sud, quasi quattro volte più del Centro-Nord, -10,8%). Quasi allineata nella crisi la dinamica dei servizi: -33% al Sud, -31% al Centro-Nord”.

Non solo, ma la crescita dell’occupazione ha risentito fortemente della decontribuzione promossa dal governo, mostrando un rallentamento nella dinamica occupazionale quando l’incentivo si affievoliva. La “ripresina”, inoltre, è stata agevolata dal basso livello del prezzo dei prodotti petroliferi e dalle politiche monetarie accomodanti derivanti dalle politiche europee. In questo contesto, questa ripresa di cui si è tanto parlato somiglia assai più a una farsa per mettere in scena la quale il governo paga le aziende per nascondere dietro a un consenso pagato a caro prezzo dalla collettività la produzione di lavoro non pagato. In uno scenario del genere, non si intravvede all’orizzonte alcun reale motivo per aspettarsi un’inversione di rotta quando verranno meno le condizioni congiunturali che hanno favorito la lieve ripresa di questi mesi.

Al contrario, vi sono varie ragioni per attendersi un ulteriore deteriorarsi delle condizioni di lavoro e un aumento della pressione al ribasso quando verrà meno il quantitative easing in un contesto privo di investimenti e caratterizzato dal crollo della domanda interna e dalla proliferazione del lavoro non pagato. È evidente che sarebbe il caso di cambiare politiche prima che questo accada, perché allora non basteranno le acrobazie della classe politica né i venditori di fumo per nascondere l’irrimediabile crescita della povertà e del malcontento sociale.

Maria Pia Veladiano – Ma ora serve il coraggio di non fare marcia indietro

Articolo pubblicato sabato 14 ottobre 2017 da la Repubblica.

Ma ora serve il coraggio di non fare marcia indietro

L’alternanza scuola lavoro esisteva ben prima della legge 107 della “buona scuola”. Ne facevano esperienza gli studenti che lo richiedevano, in contesti significativi, legati al corso di studi e al progetto di vita. Chi intendeva studiare giurisprudenza andava in uno studio legale o da un notaio e metteva alla prova il suo sogno con la realtà. Chi studiava in un indirizzo economico andava in azienda. In alternanza le scuole accompagnavano anche studenti in difficoltà e demotivati: era un formidabile strumento di rimotivazione.

Nessuna protesta e nessun problema per anni. Anzi, gli studenti si mettevano in fila.

Perché adesso si scatena la bufera? Perché la legge 107 l’ha introdotta da un giorno all’altro, obbligatoria per tutti e con un numero di ore oggettivamente spropositato: 200 ore nei licei e 400 negli istituti tecnici, da fare negli ultimi tre anni di scuola. Il che significa che un tecnico di media grandezza, che ha 15 classi nel triennio, ciascuna di 30 studenti, deve organizzare 180mila ore di alternanza, ovvero 60mila all’anno.

Indipendentemente dal contesto (ci sono aziende? ci sono aziende preparate? ci sono insegnanti preparati a questo?) e dalle risorse. E ogni ragazzo deve fare i corsi per la sicurezza, deve avere un progetto formativo specifico. È stata una corsa forsennata, ed è possibile che qualche scuola non abbia trovato la formula giusta e qualche azienda ne abbia approfittato. Le scuole che avevano già una rete di contesti lavorativi coltivata negli anni riescono a offrire esperienze splendide. I licei artistici realizzano l’alternanza nella forma della “committenza” e le classi dipingono refettori, ospedali, stazioni. I ragazzi dell’indirizzo sanitario vanno nei laboratori, nelle farmacie e negli ospedali e si mettono in gioco nelle relazioni, nelle competenze, vanno a studiare la sera quel che capiscono che servirà il giorno dopo in laboratorio e sul lavoro più avanti. Perfetto. Ma in nessun momento lo studente deve avere la percezione che l’alternanza sia una formalità da adempiere o una forma subdola di sfruttamento.

Bisogna ripensare la quantità di ore: 400 sono troppe, soprattutto in realtà svuotate dalla crisi. Anche le scuole più virtuose sono in gravissimo affanno. Bisogna sorvegliare sugli abusi, favoriti dalla fretta con cui tutto è accaduto.

Bisogna non stritolare le scuole e dare risorse amministrative oltre che economiche. Qualcuno ha idea di quante carte, letteralmente, le segreterie devono produrre per ogni progetto individuale di alternanza? Ma interrompere il dialogo fra scuola e mondo del lavoro è sbagliato e anacronistico. Ora il Miur deve avere il coraggio di tenere il punto ma di cambiare quello che non va.