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Interventi al convegno organizzato dall’Università Federico II di Napoli su “Il regionalismo differenziato” (29 maggio 2019)

Gli interventi sono visibili dall’archivio di Radio Radicale:

https://www.radioradicale.it/scheda/575352/il-regionalismo-differenziato

Evento promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Convegno “Il regionalismo differenziato“, registrato a Napoli mercoledì 29 maggio 2019 alle 10:30.

Sono intervenuti:

Michele Scudiero (professore emerito di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Gaetano Manfredi (magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Sandro Staiano (direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Luigi De Magistris (sindaco del Comune di Napoli)

Ettore Cinque (assessore al Bilancio della Regione Campania)

Franco Gallo (presidente emerito della Corte Costituzionale)

Adriano Giannola (presidente della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno))

Anna Maria Poggi (ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Torino)

Massimo Villone (professore emerito di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Teresa Panico (docente di Economia ed Estimo Rurale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Giuseppina Mari (docente di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Aldo Barba (docente di Politica Economica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Paola Coppola (docente di Diritto Tributario all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Alberto Lucarelli (professore di Diritto Pubblico all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Roberta Alfano (docente di Diritto Tributario all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Fabio Villone (docente di Elettrotecnica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Guido Capaldo (docente di Ingegneria Economico-Gestionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Giuliano Laccetti (docente di Informatica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Bruno Catalanotti (ricercatore di Chimica Farmaceutica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Raffaele Zarrilli (docente di Igiene Generale e Applicata allUniversità degli Studi di Napoli Federico II)

Claudia Casella (ricercatrice di Medicina Legale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Alessandro Pezzella (ricercatore di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Rosa Lanzetta (docente di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Domenico Calcaterra (docente di Geologia Applicata all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Achille Basile (docente di Metodi Matematici all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Nicola Ferrara (docente di Medicina Interna all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Vittorio Amato (professore di Geografia Politica ed Economica all’Università di Napoli Federico II)

Fortunato Musella (ordinario di Scienza Politica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Edoardo Massimilla (docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Luigi Musella (docente di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Luigi Califano (docente di Chirurgia Maxilofacciale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Maria Rosaria Iesce (docente di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Aurelio Cernigliaro (presidente della Scuola di Scienze Umane e Sociali dell’Università Federico II di Napoli).

Tra gli argomenti discussi: Autonomia, Concorrenza, Cultura, Diritti Sociali, Docenti, Economia, Finanziamenti, G7, Giovani, Istruzione, Napoli, Nord, Politica, Questione Meridionale, Questione Settentrionale, Regioni, Stato, Sud, Sviluppo, Territorio, Unione Europea, Università.

La registrazione video di questo convegno ha una durata di 6 ore e 18 minuti.

Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano (Svimez) – Mezzogiorno, fuga dall’università

Articolo di Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano (Svimez) pubblicato lunedì 13 maggio 2019 dal Corriere del Mezzogiorno – L’Economia.

Fuga dall’università

Da tempo nel Sud esiste un circolo vizioso: la debolezza del contesto sociale porta prima a una migrazione degli studenti poi a una riduzione del numero di iscritti. Come uscire da questa spirale?

È una spirale, un circolo vizioso, in cui sono cadute le nuove generazioni del Mezzogiorno. Se ne vanno, studiano sempre meno e lo fanno altrove. Questo indebolisce il sistema formativo e universitario meridionale, che invece di produrre trasformazioni virtuose finisce per «adagiarsi» su un sistema produttivo indebolito dalla lunga stagnazione e dalla Grande recessione e da quella in cui rischia di ripiombare.

Avevamo provato a metterlo a fuoco, in questi anni. All’inizio, sollevando il tema delle nuove migrazioni, della massa di giovani del Sud, specialmente i più istruiti e qualificati, che si muoveva verso il Centro-Nord e, sempre più, verso l’estero: il Mezzogiorno ha perso più di 600 mila giovani, più di 240 mila laureati, tra il 2002 e il 2017, anno in cui di laureati ne sono «emigrati» circa 35 mila. Di questa fuoruscita migratoria, la Svimez ha stimato la «perdita» finanziaria in circa 30 mld di euro, una cifra prudenziale, che vale più di un intero ciclo di Fondi strutturali europei, che deriva dall’impegno di risorse pubbliche in istruzione e servizi collegati necessario, secondo gli standard Ocse, per la formazione media di un laureato. Avevamo avvertito, poi, che accanto a questa nuova emigrazione andava considerata quella forma di emigrazione «precaria» che non implica un trasferimento di residenza e che le statistiche chiamano «pendolarismo di lungo raggio», che annualmente riguarda circa 100 mila tra laureati e diplomati.

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Il vero e proprio allarme, lo abbiamo lanciato rilevando l’interruzione del processo di convergenza nell’istruzione che è stato, forse, il maggior risultato dell’unificazione nazionale e che aveva, anche negli ultimi anni, lasciato ben sperare sulle prospettive del Mezzogiorno. Nei primi anni Duemila, i giovani puntavano sul sapere, il Mezzogiorno accumulava capitale umano, il tasso di passaggio all’università non faceva più registrare divari con il resto d’Italia e d’Europa, e questo ci faceva sperare di poter recuperare il numero di laureati per abitante, che ci vede ampiamente al di sotto della media Ocse. Purtroppo, il rapporto tra immatricolati e diplomati nell’anno precedente, un indicatore dunque non influenzato dalla dinamica demografica declinante, ha subito un’inversione di tendenza, cominciando a declinare a metà dello scorso decennio, accelerando la discesa con la crisi, situandosi oggi (pur dopo una debolissima ripresa), su un livello inferiore, rispetto alla punta di oltre il 70% dei primi anni Duemila, di circa 15 punti nel Mezzogiorno e di circa 10 nel Centro-Nord.

Del resto, il calo delle immatricolazioni è maggiore fra i meno abbienti, segno dalla condizione di difficoltà delle famiglie nella crisi a sostenere i costi dell’istruzione universitaria, a fronte di un moderato ma comunque significativo aumento delle rette: dal 2007 al 2017, la retta media è passata da circa 700 a 1.178 euro (dati MIUR) ma soprattutto di una assai più debole garanzia del diritto allo studio nelle regioni meridionali, in termini di borse di studio e servizi a vantaggio dei meritevoli. Più in generale, però, sembra prevalere un certo scoraggiamento, tra i giovani meridionali, nell’investimento formativo, legato alla preoccupazione per gli esiti occupazionali, che nell’area si sono ulteriormente ridotti e degradati.

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L’alternativa, per chi non si scoraggia, è un’emigrazione sempre più «precoce», che viene anticipata al momento della scelta universitaria, in parte conseguenza di politiche che hanno sistematicamente penalizzato gli atenei meridionali, ma essenzialmente dettata da maggiori possibilità di placement. È il fenomeno, sempre più rilevante, che si colloca al fondo della spirale di depauperamento produttivo, di capitale sociale e umano dell’area. Tra i meridionali che si immatricolano, ormai stabilmente oltre il 23% sceglie un Ateneo del Centro-Nord, nell’ultimo anno sono stati più di 22 mila. Nell’anno accademico 2017/2018 i residenti meridionali iscritti all’università erano complessivamente 675 mila mentre gli iscritti in atenei meridionali risultavano 501 mila. Oltre 170 mila migranti universitari che determinano un impatto negativo diretto sulla spesa negli Atenei meridionali, che comporta una perdita finanziaria, in termini di minore spesa della pubblica amministrazione nel Mezzogiorno, che la Svimez ha stimato in circa 1 miliardo l’anno. A questo, va aggiunto l’effetto indiretto, in termini di spesa per consumi privati, che determina un trasferimento da Sud a Nord stimabile in circa 2 miliardi. Dietro queste cifre, è il cuore di quel «circolo vizioso» per cui la debolezza del contesto produttivo e sociale determina l’emigrazione universitaria, quest’ultima una riduzione di finanziamenti che indebolisce le università del Sud, minori laureati e minore apporto del sistema universitario all’innovazione del processo produttivo, consolidando la strutturale carenza di occasioni di lavoro qualificato che è la sintesi, oggi, della questione meridionale. La crisi, per questa via, dai fattori economici e produttivi, ricade sempre più sui comportamenti sociali e infine quelli demografici. E il processo di depauperamento del capitale umano che rischia di minare a fondo le prospettive future dell’area.

Che fare? Non sono mancate proposte e misure per il «contro esodo” o per «restare al Sud», così come si potrebbero immaginare di favorire e organizzare forme di rimesse di know how («rimesse 2.0», le abbiamo definite), ma la soluzione va ricercata nel riavvio di un processo di sviluppo che affronti le ragioni strutturali del ritardo meridionale nel declino nazionale. Quel «circolo vizioso» va spezzato in più punti. L’investimento sul sistema universitario e sul contesto deve legarsi a nuove politiche industriali, un legame rafforzato da centri in grado di produrre conoscenza, innovazione, tecnologia e di trasferirla al sistema produttivo: è il «circolo virtuoso» dello sviluppo che restituisca libertà di scelta, che non renda l’emigrazione una necessità e che anzi renda l’area non solo «attraente», com’è il Sud da sempre, ma finalmente «attrattiva».

Università, l’esodo dal Sud. “Ogni anno 25mila si immatricolano al Nord”

Articolo di Corrado Zunino pubblicato mercoledì 24 gennaio 2018 sul sito di la Repubblica.

Università, l’esodo dal Sud. “Ogni anno 25mila si immatricolano al Nord”

La denuncia della Cgil: “Come negli Anni ’60 e ’70”. Il 30 per cento dei diplomati lascia Puglia e Sicilia. Tutto il Meridione resta l’area d’Europa con meno laureati. I dipartimenti d’eccellenza sono solo 25 (su 180)

Dall’assemblea nazionale della Cgil conoscenza (Flc) sulle colline di Arcavata, Università della Calabria fondata nel 1972, il segretario Francesco Sinopoli rilancia la questione “migrazione universitaria”. Dice: “La frattura tra atenei del Nord e atenei del Sud si è approfondita con l’effetto di una migrazione intellettuale di massa che ricorda gli Anni Sessanta e Settanta. Sono ormai più di 25 mila gli studenti meridionali che ogni anno vanno a immatricolarsi in atenei del Nord. E’ un evidente freno per lo sviluppo dell’intero Mezzogiorno poiché gran parte di questi giovani difficilmente vi farà ritorno. La colpa va ricercata nello sciagurato sistema di valutazione messo in atto dall’Agenzia di valutazione Anvur che ha premiato università già ricche e potenti devastando quelle meridionali”.

TRENTA MILIARDI PERSI IN QUINDICI ANNI

L’ultimo rapporto Svimez, associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno, lo scorso novembre ha certificato questo saldo migratorio (e qui parliamo di laureati): in quindici anni il Meridione d’Italia ha visto salire duecentomila laureati (nel Nord Italia, appunto, e in piccola parte all’estero) e trasferire risorse per trenta miliardi di euro. Il calcolo si basa sul costo medio necessario per sostenere un percorso di istruzione elevata: ragazzi formati al Sud, poi lavoratori e consumatori al Nord.

Secondo il rapporto Bankitalia di fine 2016 sulle “Economie regionali”, nell’anno accademico 2015-‘16 un quarto degli immatricolati residente nel Mezzogiorno si è iscritto in un ateneo del Centro Nord. In otto stagioni il dato è cresciuto del 7 per cento. L’aliquota sale al 38 per cento se si considerano le iscrizioni al primo anno della laurea specialistica: ecco, una massa ulteriore di universitari si sposta nei solidi atenei del Settentrione dopo aver conseguito una laurea triennale al Sud.

La mobilità verso il Centro-Nord è più frequente nei corsi di Ingegneria industriale e civile, in Architettura, nelle discipline sanitarie e nelle Scienze sociali. Nel confronto con gli altri studenti, gli universitari migranti hanno crediti inferiori, voti di laurea più bassi, ma anche un tasso di abbandono inferiore. Sono descritti come motivati e tenaci, e spesso sono i figli delle famiglie meridionali più benestanti.

IL PARCHEGGIO DEI DIPLOMATI

Secondo altri studi, nel 2016 sono stati i pugliesi gli universitari più mobili: oltre il 30 per cento ha raggiunto il Centro Nord, un altro 8 per cento si è spostato in altre aree del Mezzogiorno. Gli studenti siciliani sono emigrati nel 29,4 per cento dei casi, i campani nel 17,7 per cento. Il Sud resta, comunque, l’area d’Europa con il più basso tasso di laureati tra i 30 e i 34 anni.

Va considerato che nel Meridione d’Italia l’iscrizione universitaria resta un valore forte e, senza lavoro, un obbligo. Se l’immigrazione intellettuale è presente, resta alta anche l’immatricolazione locale. Con 205 mila iscritti, nel 2016 la Campania era la seconda regione d’Italia, a meno di cinquemila immatricolati dalla Lombardia. Ed esprimeva il 9,5 per cento della popolazione italiana contro il 16,5 della Lombardia, quindi il tasso di iscrizione era (ed è) il più alto d’Italia. In quanto a immatricolazioni universitarie, Sicilia e Puglia sono rispettivamente quarta e quinta. Al Sud, però, l’università per molti è un parcheggio. I dati dicono che qui, negli atenei meridionali, ci sono più fuoricorso (al contrario degli studenti migranti) e ci si laurei meno. Coloro che, nati tra il 1982 e il 1990, nel 2016 erano iscritti a una facoltà – e quindi fuori corso – erano decisamente superiori in Campania e in Sicilia rispetto al Veneto e alla Lombardia. Ancora, se i lombardi nel 2016 erano il 14,5 per cento dei laureati (a fronte del 12,8 degli studenti), in Campania i laureati erano solo il 10,8 (a fronte del 12,5 di chi inizia il percorso di alta formazione).

Oggi ad Arcavata il segretario generale Susanna Camusso chiuderà il convegno Flc Cgil chiedendo una Costituente per definire “la missione dell’università per il XXI secolo e per le generazioni future”.

DIPARTIMENTI D’ECCELLENZA, 1 SU 7 NEL MEZZOGIORNO

Il presidente dell’Anac Raffaele Cantone negli scorsi giorni all’Università di Padova aveva parlato di alcuni atenei del Sud zavorra, “che forse bisognerebbe proprio chiudere”. Il presidente della Conferenza dei rettori, Gaetano Manfredi, alla guida della Federico II di Napoli, sostiene che in verità i numeri stanno migliorando e sottolinea che la seconda Valutazione della qualità della ricerca dell’Anvur ha mostrato diverse università meridionali in recupero, “ma il sistema premiale alla fine dà risorse a chi è già strutturato e forte”. Nel quinquennio 2018-2022 centottanta dipartimenti universitari d’eccellenza riceveranno 1,3 miliardi. Di questi, solo venticinque sono meridionali, uno ogni sette.

Francesca Coin (Università Ca’ Foscari di Venezia) – Chi aiuta chi? L’Alternanza Scuola-Lavoro e la grande farsa delle politiche sull’occupazione in Italia

Articolo pubblicato sabato 21 ottobre 2017 sul sito di Effimera.

Chi aiuta chi? L’Alternanza Scuola-Lavoro e la grande farsa delle politiche sull’occupazione in Italia

“Piccoli snob radical-chic”, è questa la formula usata dal segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli per definire gli studenti scesi in piazza contro l’Alternanza Scuola-Lavoro. Ne avessimo sentito l’esigenza, potremmo affiancare a questa definizione un’altra perla, quella di Giancarlo Loquenzi, giornalista di Radio 1, che ci ha tenuto a precisare che gli studenti impiegati nell’alternanza non sono “schiavi delle aziende”, ma più semplicemente persone da aiutare in quanto “non in grado” anche semplicemente di “arrivare puntuali, […] comprendere la struttura gerarchica dell’ufficio, fare un caffè come si deve, ricordarsi il giorno dopo delle cose che gli erano state dette il giorno prima”.

Eccoci rivelata la ratio di tutti i recenti provvedimenti in tema di lavoro e giovani, dalla Legge di Bilancio approvata il 16 ottobre all’Alternanza Scuola-Lavoro, il programma disciplinato dagli articoli 33 – 44 della legge 107/2015 (La Buona Scuola), che prevede sulla carta di incrementare le opportunità di lavoro e le capacità di orientamento degli studenti, mentre nei fatti rischia di rivelarsi la più grande creazione di lavoro gratuito obbligatorio mai esistita in Italia. La logica dichiarata è “aggredire quello che è il nemico più temibile dell’Europa di oggi, e della nostra società, cioè la disoccupazione giovanile”, ma il problema della disoccupazione in queste narrazioni non viene ricondotto alle caratteristiche macroeconomiche della realtà, come sarebbe corretto fare, ma al carattere delle nuove generazioni: alla profonda inettitudine dei giovani odierni e alla loro resiliente inedia, quella maledetta anda radical-chic di chi non si sa nemmeno allacciarsi le scarpe.

In un contesto siffatto, la strategia principale del governo per creare occupazione è coerente con la motivazione sopra riportata. Per creare occupazione non servono investimenti, sembrano aver pensato al governo, basta pagare le aziende affinché si facciano carico del reale problema della nostra società: i giovani.

Vediamo dunque chi aiuta chi, nelle attuali politiche del lavoro in Italia, e prendiamo il caso specifico dell’Alternanza Scuola-Lavoro. Nel contesto attuale, essa:

  • regala alle aziende lavoro gratuito. Da quest’anno saranno 1,5 milioni gli studenti coinvolti nell’alternanza, ma se ci rifacciamo agli ultimi dati utili, quelli relativi agli studenti in alternanza nell’anno scolastico 2015/2016, vediamo che in quell’anno secondo il Focus “Alternanza scuola-lavoro” pubblicato dal Miur nell’ottobre 2016 c’erano circa 652.641 studenti in alternanza tra licei e istituti tecnico-professionali, per un totale di circa 90 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti del liceo (200 ore per 455 mila studenti) e 80 milioni di ore di lavoro gratuito erogate dagli studenti degli istituti tecnici e professionali (400 ore per 200 mila studenti). È difficile in Italia calcolare l’entità del risparmio che questo elevato numero ore di lavoro gratuito consente alle aziende, a causa dell’estrema segmentazione degli inquadramenti contrattuali e dell’enorme pressione al ribasso seguita al Jobs Act. Supponendo, tuttavia, di poter retribuire il lavoro erogato con il compenso medio riconosciuto dal salario minimo nell’Eurozona (in Italia notoriamente inesistente), che è sì fortemente differenziato per paese ma consente almeno un orientamento minimo circa quale sia la retribuzione in grado di garantire dignità del lavoro; supponendo quindi che questi 170 milioni di ore di lavoro gratuito erogato dagli studenti vengano retribuiti 7 euro all’ora l’alternanza scuola-lavoro avrebbe consentito alle aziende un risparmio di circa 1 miliardo e 190 milioni di euro nel solo anno scolastico 2015-2016 – cifra che dobbiamo quasi triplicare a partire da quest’anno dato l’aumento del numero complessivo di studenti coinvolti nell’alternanza.
  • Oltre a questo risparmio, dobbiamo considerare che l’alternanza scuola-lavoro legittima non solo l’esistenza di lavoro non pagato, ma anche la sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata, creando, si potrebbe dire, un esercito industriale di riserva interno ai luoghi della produzione e pertanto ancor più controllabile. Non è un caso che buona parte delle ore di alternanza per gli studenti delle classi terze e quarte della scuola secondaria venga svolta nella pausa estiva all’interno di lavori stagionali. Come denunciato da Flc-Cgil, l’alternanza dovrebbe essere “una opportunità formativa e gli studenti non devono sostituire posizioni professionali”, come invece accade.
  • Detto che molti stagionali vengono sostituiti da studenti in alternanza, questo significa che né i vecchi stagionali né gli studenti in alternanza ora riceveranno un salario, il che implica anche che l’Alternanza scuola-lavoro va a creare nuova povertà nella classe lavoratrice, togliendo la retribuzione per intero ai giovani studenti-lavoratori stagionali (siamo passati in pochi anni dalla generazione 1.000 euro alla generazione 350 euro, quando va bene, dice Marta Fana nel suo impeccabile Non è lavoro, è sfruttamento, da poco pubblicato per Laterza);
  • Non dimentichiamo poi che l’alternanza è obbligatoria ai fini degli esami di stato, il che significa che gli studenti, spesso minorenni, vengono mandati a lavoro in condizioni strutturali di ricattabilità e alla mercé del datore di lavoro il quale, se malintenzionato, può chiedere qualunque cosa in cambio di una valutazione positiva, come nel caso delle studentesse di Monza che la scorsa estate hanno denunciato il loro datore di lavoro per molestie sessuali.
  • Per non parlare di sicurezza e di infortuni sul lavoro, lasciati alla responsabilità della scuola e a corsi di formazione inadeguati, al punto che non mancano di esservi incidenti sul lavoro in un paese che già ha un triste record in questa direzione – si pensi al caso dello studente di 17 anni rimasto schiacciato il 6 ottobre 2017 sotto il carrello elevatore del muletto mentre svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso una ditta specializzata nella riparazione di motori industriali.
  • Mentre le scuole dedicano ore di formazione curricolare a Alternanza-Scuola lavoro, queste sottraggono altresì ore di formazione ai curricula tradizionali, ore di cui pure gli studenti, in particolare quelli provenienti da contesti meno agiati, avrebbero bisogno per evitare un destino di bassa manovalanza per aziende ansiose di tagliare il costo del lavoro, precisamente quello in cui ora vengono cooptati;
  • A tutto questo bisogna aggiungere il vantaggio indiretto che le aziende avranno assumendo studenti che hanno svolto almeno il 30% di ore di alternanza, come previsto dalla legge di bilancio, senza considerare gli incentivi derivanti dai Programmi operativi regionali (POR), che variano da regione a regione e che a loro volta si propongono di cofinanziare la realizzazione di progetti di alternanza scuola-lavoro a favore di studenti dell’ultimo triennio delle scuole superiori di II grado (ancora incentivi alle aziende per la creazione di lavoro non pagato).
  • Bisogna infine considerare che l’alternanza scuola-lavoro avviene all’interno di un contesto molto preciso, nel quale la strategia del governo per aumentare l’occupazione negli ultimi anni è rimasta sempre eguale: sgravi contributivi alle aziende e lavoro precario. In generale il costo degli sgravi contributivi come calcolato da Adapt è stato di circa 18 miliardi. Di converso, come dimostrano i dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps pubblicati il 19 ottobre, nel mondo del lavoro ciò che aumenta di più sono i contratti a termine, a descrivere uno spostamento costante di risorse dallo Stato ai privati che alle giovani generazioni regala solo lavoro precario e mal pagato.

In questo contesto, è evidente che la retorica con la quale il governo assicura che “sta aiutando l’occupazione e i giovani” non nasconde solamente una narrazione indigesta e completamente pretestuosa oltreché inadeguata a descrivere il mercato del lavoro in Italia, nel quale le competenze dei giovani lavoratori sono fortemente eccedenti rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro italiano – come dimostra un qualunque rapporto Almalaurea. La politica degli sgravi e della decontribuzione ha una finalità più profonda: artefare consenso e impedire lo sfaldamento delle relazioni tra le imprese e lo stato, in una fase storica nella quale il tessuto produttivo è messo a dura prova dal perdurare della crisi economica e dall’assenza di investimenti.

Vale la pena ricordare che negli anni della crisi il sistema delle imprese italiane ha ridotto i propri investimenti in modo estremamente significativo. Il rapporto Sivmez 2015 parla di “crollo epocale al Sud degli investimenti dell’industria in senso stretto, ridottisi dal 2008 al 2014 addirittura del 59,3%, oltre tre volte in più rispetto al già pesante calo del Centro-Nord (- 17,1%). Giù anche gli investimenti nelle costruzioni, con un calo cumulato del -47,4% al Sud e del – 55,4% al Centro-Nord; in agricoltura (-38% al Sud, quasi quattro volte più del Centro-Nord, -10,8%). Quasi allineata nella crisi la dinamica dei servizi: -33% al Sud, -31% al Centro-Nord”.

Non solo, ma la crescita dell’occupazione ha risentito fortemente della decontribuzione promossa dal governo, mostrando un rallentamento nella dinamica occupazionale quando l’incentivo si affievoliva. La “ripresina”, inoltre, è stata agevolata dal basso livello del prezzo dei prodotti petroliferi e dalle politiche monetarie accomodanti derivanti dalle politiche europee. In questo contesto, questa ripresa di cui si è tanto parlato somiglia assai più a una farsa per mettere in scena la quale il governo paga le aziende per nascondere dietro a un consenso pagato a caro prezzo dalla collettività la produzione di lavoro non pagato. In uno scenario del genere, non si intravvede all’orizzonte alcun reale motivo per aspettarsi un’inversione di rotta quando verranno meno le condizioni congiunturali che hanno favorito la lieve ripresa di questi mesi.

Al contrario, vi sono varie ragioni per attendersi un ulteriore deteriorarsi delle condizioni di lavoro e un aumento della pressione al ribasso quando verrà meno il quantitative easing in un contesto privo di investimenti e caratterizzato dal crollo della domanda interna e dalla proliferazione del lavoro non pagato. È evidente che sarebbe il caso di cambiare politiche prima che questo accada, perché allora non basteranno le acrobazie della classe politica né i venditori di fumo per nascondere l’irrimediabile crescita della povertà e del malcontento sociale.

Francesco Sinopoli (Flc Cgil) – Il Sud e il Paese ripartano da istruzione e ricerca

Articolo pubblicato martedì 17 ottobre 2017 sul sito di Huffington Post.

Il Sud e il Paese ripartano da istruzione e ricerca

Scriveva Antonio Ruberti nell’introduzione al Rapporto finale della Commissione nazionale per il Mezzogiorno nel 1989:

La questione del capitale immateriale, delle competenze e delle conoscenze, è centrale rispetto ai processi di sviluppo, in ogni paese e, dunque nel nostro. Centrale, pure, ed ancora rispetto ai processi di sviluppo, la questione del Mezzogiorno e dei mezzogiorni d’Europa e del mondo. Il tema di questo rapporto è perciò all’incrocio di due grandi questioni: quella della crescita del sistema dell’alta formazione e della ricerca e quella del superamento del divario che separa il Sud dal Nord del paese.

Ritengo quelle parole di straordinaria attualità. Dopo i lunghi anni della crisi e dentro la stagione ultradecennale di declino del nostro sistema economico e produttivo l’intreccio tra istruzione, ricerca, Mezzogiorno è ancora più centrale.

Mentre infervora il dibattito sul nuovo salto di paradigma che sarebbe rappresentato dall’avvento di “Industria 4.0“, esemplificazione semantica, come fu il postfordismo negli anni ’90, capace di rappresentare al suo interno tante cose diverse, è indispensabile avere ben chiare alcune priorità del nostro Paese.

La prima è la necessità di riprendere una seria riflessione sul Mezzogiorno e sulla inscindibilità tra il suo sviluppo e quello dell’intero sistema Italia. Serve farlo anche in vista dei prossimi referendum di Lombardia e Veneto su cui rinvio alla chiarissima posizione della Cgil perché la rivendicazione di maggiore autonomia giocata in chiave squisitamente elettorale è antitetica agli interessi complessivi del Paese.

Non da oggi istruzione e ricerca sono state considerate chiavi fondamentali per il rilancio del Mezzogiorno e dei “mezzogiorni” ma il contesto in cui ci troviamo rende necessaria una nuova consapevolezza e scelte politiche conseguenti. La forbice delle diseguaglianze tra Nord e Sud ma anche tra aree diverse (seppur in misura minore) nel Nord e nel Centro-Italia è aumentata in questi anni in modo vertiginoso, anche perché si è deciso di disinvestire nell’istruzione e nella ricerca. Facendo l’opposto quindi di ciò che sarebbe stato necessario fare. Si osserva facilmente il peggioramento complessivo della situazione del Mezzogiorno a partire da tutti gli indicatori fondamentali: investimenti pubblici e privati, tasso di occupazione, produzione industriale.

Ma soprattutto un indicatore oggi è esemplificativo del rischio di aver intrapreso orma una strada senza ritorno: l’andamento demografico.“Il Sud non è già più un’area giovane né tanto meno il serbatoio di nascite del resto del Paese, e va assumendo tutte le caratteristiche demografiche negative di un’area sviluppata e opulenta, senza peraltro esserlo mai stata“, scrive lo Svimez.

La tendenza è confermata dagli ultimi dati ufficiali resi noti dal Miur per l’inizio dell’anno scolastico: mentre al Centro-Nord si assiste a un sia pure lieve incremento delle iscrizioni nelle scuole di ogni ordine e grado, nel Mezzogiorno la riduzione complessiva è di 45mila unità, con punte più elevate in Calabria e Campania.

La scomparsa di 45mila studenti nelle scuole del nostro Mezzogiorno dovrebbe essere un tarlo continuo che non fa dormire i ministri, né di notte e neppure di giorno. A ciò si aggiungano gli ormai 30mila studenti maturati nel 2017 che hanno scelto di immatricolarsi nelle università del centro-nord. E nella contrazione dei passaggi dalla scuola all’università che riguarda precise coorti di studenti del mezzogiorno, è in atto una selezione di classe sempre più spietata. Pesa in questa transizione come in tutte le transizioni, la famiglia di origine. Pesa quanti libri hai a casa e il titolo di studio dei tuoi genitori quanto e più del reddito, come già abbiamo avuto modo di scrivere ragionando dei cicli scolastici.

Come rappresentano un indicatore drammatico i dati sulla dispersione e gli abbandoni di gran lunga più elevati nelle regioni del sud. E le migliaia di docenti costretti dalla legge 107 ad abbandonare le scuole del Sud per un posto stabile al Nord sulla base di un piano di reclutamento che essendo completamente sganciato dalle necessità delle scuole non ha comunque raggiunto lo sbandierato obiettivo di superare la necessità di ricorrere ai supplenti in moltissime materie.

L’impoverimento generale, economico e sociale, delle condizioni del Mezzogiorno si accompagna a un pericoloso impoverimento di natura culturale, che ha conseguenze, immediate e di lungo periodo, nel macro-sistema delle regioni del Sud, e in generale nel Paese. Non si tratta di un accidente del destino ma del risultato di un processo lungo che ha avuto però negli ultimi anni una accelerazione.

Pensiamo a ciò che è accaduto nell’università come nella scuola, trasformatesi da fattori di mobilità sociale ad amplificatori delle disuguaglianze e dei divari. Il taglio di un miliardo del fondo ordinario è stato redistribuito in parti diseguali tra gli atenei, penalizzando quelli del Mezzogiorno al netto di piccoli correttivi nella ripartizione introdotti quest’anno per temperare una situazione ormai insostenibile.

Ciò è avvenuto per una scelta politica precisa: quella di sostenere le presunte eccellenze collocate in una ristretta area geografica. Sono stati costruiti indicatori per distribuzione delle risorse niente affatto neutri che servivano e servono a questo scopo.

Un sistema di valutazione con una precisa connotazione valoriale ha reso possibile questi chiari obiettivi di policy. La riduzione delle risorse si è accompagnata a un sistema di assegnazione delle opportunità di reclutamento che ha assegnato prevalentemente a nord il turn over del Mezzogiorno appunto sulla base di criteri di solidità finanziaria. Se sei un giovane scienziato che ha studiato al Sud non potrai avere un posto negli atenei meridionali e non per favorire la naturale mobilità degli scienziati, perché l’inverso non può accadere.

L’assunto da cui partono i difensori di queste politiche è noto: bisogna sostenere le eccellenze. Un approccio primitivo ai problemi del nostro sistema di istruzione e ricerca, che nasconde la copertura di precisi interessi concentrati in alcune aree geografiche ben localizzate. Soprattutto, un approccio mistificante perché l’assegnazione dei punti organico cioè delle opportunità di assumere prescinde ampiamente da qualunque valutazione sulla qualità della ricerca o della didattica ma si basa su parametri di carattere esclusivamente patrimoniale e finanziario peraltro premiando chi aumenta le tasse agli studenti e sforando il tetto massimo previsto dalla legge. Gli effetti di queste politiche sono devastanti.

La penalizzazione degli atenei del Sud, e non solo, si intreccia, infatti anche con il progressivo indebolimento di molte discipline che in quelle università vantano scuole importanti. Colpisce coloro che lavorano e colpisce soprattutto gli studenti. Sacrificare, come sta già avvenendo, un sistema universitario diffuso con una qualità media elevata significa rinunciare a una rete universitaria che rappresenta una fondamentale infrastruttura a vantaggio di una idea astratta di eccellenza completamente scollegata dai bisogni reali delle persone e del Paese.

Le ideologie che sostengono il verbo dell’eccellenza cercano di celare il carattere essenzialmente classista di ogni policy suggerita e poi applicata negli ultimi anni al sistema. Se infatti fa premio la stabilità finanziaria, è evidente che verranno agevolati quegli atenei collocati in contesti dove l’aumento delle tasse non ha effetti deprimenti sulle immatricolazioni, perché relativamente ricchi, e dove la capacità di finanziarsi dall’esterno attraverso commesse, il cosiddetto conto terzi, contribuisce non poco alla floridità delle casse.

E la stessa attribuzione delle quote premiali come le risorse per i dipartimenti di eccellenza serve a finanziare quelle stesse zone. Non è semplicemente il Nord, perché i divari sono anche a nord. Pensiamo alla crisi degli atenei marchigiani, al Friuli, a Genova. Dal nostro punto di vista la ricetta è esattamente opposta: servono più ricercatori, più offerta universitaria e rifiuto delle categorie suicide di adeguamento alla domanda del mercato e di eccellenza.

Serve costruire un sistema universitario nazionale non competitivo ma cooperativo, partendo dalle aree territoriali dove maggiore è il ritardo nello sviluppo attraverso la creazione di reti reali tra gli atenei per realizzare una offerta didattica integrata. A ciò si deve accompagnare una progettazione infrastrutturale conseguente, tenendo a mente il ruolo strategico che hanno sempre avuto le università nello sviluppo dei sistemi locali. L’idea è stata infatti a più riprese esplicitata, chiudere gran parte degli atenei del Sud.

Sulla scuola il piano di reclutamento di Renzi, che non ha risolto in alcun modo il problema della continuità didattica, come dimostra l’avvio dell’anno scolastico con migliaia di cattedre vuote, ha costretto a spostarsi a nord migliaia di docenti, molti con figli piccoli e piccolissimi, dei quali abbiamo cercato di favorire la mobilità verso la loro terra di origine con un buon accordo siglato all’inizio dell’anno.

Di fronte al calo demografico l’approccio agli organici dovrebbe essere l’opposto di quello attuale. Lo dicemmo chiaramente all’epoca del piano di reclutamento targato buona scuola. Per assolvere alla sua missione costituzionale, per far sì che nessuno resti indietro bisogna costruire le condizioni anche al Sud affinché classi a tempo pieno e prolungato siano distribuite in modo uniforme.