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Associazione “Trasparenza e Merito” – Appello al Presidente della Repubblica: emergenza costituzionale sui concorsi all’Università

Appello pubblicato martedì 9 luglio 2019 dal sito dell’Associazione.

Appello al Presidente della Repubblica: emergenza costituzionale sui concorsi all’Università

A nome dei 400 iscritti tra docenti (prof. ordinari e associati), ricercatori (a tempo determinato e indeterminato), studiosi (assegnisti di ricerca, borsisti post-dottorato, dottori di ricerca) “Trasparenza e Merito”, in seguito ai recenti fatti dell’inchiesta “Università bandita” all’ateneo di Catania, rivolge un accorato appello alle Istituzioni

Signor Presidente della Repubblica,

Signor Presidente del Consiglio,

Signor Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca,

Le continue e costanti notizie della rete di scandali legati alla irregolarità dei concorsi universitari pongono una riflessione che è ad un tempo profonda e di sistema.

Non ci troviamo, purtroppo, di fronte a fatti episodici, quanto piuttosto davanti a un malcostume diffuso, una rete di comportamenti illeciti estesa a molti Atenei, che richiede una presa di coscienza collettiva e un intervento riformatore radicale.

Un sistema di reclutamento dei docenti fondato su trasparenza e merito non è solo una scelta etica doverosa, ma prima di tutto un dovere civico che deve impegnare l’intera collettività.

Occorre assicurare all’istruzione, formazione e ricerca i più alti standard qualitativi e non livellarle verso il basso attraverso sistemi di reclutamento fondati non sulla competenza, sulla valutazione comparativa dei titoli e delle pubblicazioni, bensì sullo scambio di favori, dove ogni concorso pubblico appare già scritto e predeterminato nel suo esito. In una parola: una farsa.

Ma non è solo una questione etica e una scelta civica. Una istituzione fondamentale quale quella universitaria non può pensare di perpetrare le sue opache regole di gestione in modo da garantire continuità a un potere sottratto a qualsivoglia controllo o verifica di legalità.

La gravità dei fatti denunciati e al vaglio della magistratura in Università come Catania, Firenze, Roma, Chieti, Bologna, Messina e tante altre, pone il problema di una vera e propria emergenza istituzionale e costituzionale. E come tale la questione va affrontata e, con urgenza, risolta.

Ne va della dignità e dell’immagine del Paese, ma soprattutto è in gioco il futuro dei giovani e lo sviluppo culturale ed economico della intera nazione.

Non vi può essere progresso in alcun campo con un sistema di istruzione e formazione che si fonda sul clientelismo e sul malaffare.

La sistematica negazione di elementari diritti per chi con sacrificio, entusiasmo e passione ha rinunciato a molto nella vita per un ideale fatto di studio, di ricerca, di insegnamento, di sana competizione basata sui risultati scientifici e non su intrallazzi di varia natura, mina alle sue fondamenta principi costituzionalmente riconosciuti, come il diritto al lavoro e alla giustizia.

Ogni genitore che con sacrificio investe, non solo economicamente, in un suo figlio per spingerlo allo studio e alla ricerca scientifica oggi sa che tutto potrebbe essere speso invano, perché in un Paese come il nostro se non si fa parte della schiera dei privilegiati, se non si è affiliati a un gruppo di potere, a nulla serviranno le capacità, le competenze e i brillanti successi conquistati con i propri meriti, o anche all’estero, poiché altri «eletti» e predestinati lo precederanno in qualsiasi concorso universitario gestito come oggi leggiamo nelle sentenze della giustizia amministrativa, nelle inchieste come quella denominata “Università bandita”, nelle segnalazioni che quotidianamente pervengono alla nostra associazione.

Il prezzo che il Paese è costretto a pagare è diventato insostenibile. Il danno non solo di immagine ma anche economico alla comunità è evidente, non solo all’istruzione ma anche alla salute (quando si parla di concorsi dell’area medica), con centinaia di concorsi pubblici per primario o professore in ambito medico dove a vincere non sono i più preparati e competenti, ossia coloro i quali potrebbero garantire al cittadino comune le cure migliori e all’avanguardia, ma coloro che a tavolino vengono prescelti in barba ai curricula e a parametri, che pure a mo’ di beffa vengono elencati in leggi ad hoc e in bandi pubblici, puntualmente aggirati e illecitamente ignorati.

In questi anni, in parte, la magistratura si è attivata su singoli casi ed ha cercato di fare chiarezza, ma pressoché sempre l’Università si è opposta compatta a qualsiasi ingerenza non della politica ma della legge, scegliendo di non dare esecuzione alle statuizioni dei giudici e violando anche qui principi fondamentali dell’ordinamento dello Stato. Il mondo accademico, nella sua grande maggioranza, ha deciso di comportarsi come un fortino asserragliato, come una torre d’avorio fatta da intoccabili, come una conventicola nella quale è impossibile dialogare e mettersi in discussione.

Questa lettera è un Appello per una Università diversa, fatto nel nome della cultura, dell’istruzione, della legalità, ma è anche un ennesimo grido di denuncia rivolto alle Istituzioni dopo tutte le richieste di aiuto finora rimaste inascoltate. Oggi è improcrastinabile una risposta e un intervento radicale sul sistema universitario e in particolare su quello del reclutamento da parte della politica. Abbiamo fatto pubblicamente le nostre proposte, insieme ai colleghi di “Osservatorio indipendente sui concorsi universitari”: riduzione dell’autonomia alle università; abolizione dei concorsi locali e attivazione di commissioni nazionali sorteggiate (tra tutti i docenti dei settori, quindi sorteggi veri) allargate ad almeno 5-7 membri; punteggi per titoli e pubblicazioni stabiliti a livello centrale dal Miur e uguali per tutte le classi di concorso (dal dottorato ai concorsi per ordinario) ed obbligo da parte delle commissioni di motivare i punteggi; penalizzazioni in percentuale sui fondi ordinari per gli atenei che si rendono colpevoli di non vigilare con i loro uffici sulle irregolarità (ad esempio il 3-5% in meno per chi propone bandi profilati, per chi non sanziona conflitti di interessi e illogicità di valutazione e non adegua le commissioni alle norme previste dall’Anac); sospensioni e multe pesanti per i commissari che si sono macchiati di irregolarità a livello di giustizia amministrativa o di reati penali ai concorsi.

La legge 240/2010, meglio conosciuta come “Legge Gelmini”, a quasi dieci anni dalla sua promulgazione, se pure ha permesso ai candidati penalizzati ingiustamente di ricorrere alla giustizia amministrativa con più agilità, ha dimostrato più in generale il suo fallimento. Il sistema dell’abilitazione scientifica nazionale, così come quello delle procedure comparative, per come è applicato oggi, ha dimostrato tutta la sua inefficacia: il 96% dei vincitori di concorsi universitari è un interno, pochissimi concorsi con più di 2-3 concorrenti nonostante le migliaia di abilitati scoraggiati dal sistema baronale che li regola, età media troppo elevata della classe docente universitaria.

Un Paese che fonda il suo futuro su una classe docente universitaria selezionata in questo modo da chi viola le leggi è un Paese che non ha futuro!

Per questi motivi oggi siamo qui, in qualità di rappresentanti non dell’Università che emerge dalle intercettazioni della magistratura, che appare profondamente malata – di una malattia che sembra quasi insanabile – ma in rappresentanza di quella parte del corpo docente e ricercatore, che speriamo diventi presto maggioranza, la quale, al contrario, cerca non il riscatto personale ma la creazione di un sistema universitario che si fondi sui principi della legalità, della trasparenza e del merito.

È necessario uno scatto di orgoglio da parte di quella componente seria, buona e onesta del mondo universitario affinché l’istituzione esca dall’ignobile pantano delle inchieste giudiziarie e da un sistema di potere clientelare e autogestito e si affidi invece all’efficienza e al buon andamento imposto dall’art. 97 della nostra Costituzione, per ritornare a dare dignità all’altissimo ruolo istituzionale che il nostro ordinamento affida all’Università e alla sua classe docente.

Noi abbiamo combattuto finora le nostre battaglie in nome di questi principi, ma sappiamo bene che senza un grande movimento di opinione, senza l’aiuto della stampa e dei media, senza l’impegno istituzionale delle alte cariche dello Stato, senza il coinvolgimento di quella parte delle forze politiche che intende, non a parole ma con i fatti, rinnovare e riorganizzare l’università italiana, tutto ciò rimarrà come un grido nel deserto: in tal caso sarebbe l’ennesima occasione sprecata per il futuro dei nostri giovani, di chi crede nello studio, nella preparazione, nella legalità, per migliorare se stessi, la propria condizione di vita, e così facendo la vita e l’immagine dell’intero paese agli occhi del mondo.

Catania, 9 luglio 2019

Interventi al convegno organizzato dall’Università Federico II di Napoli su “Il regionalismo differenziato” (29 maggio 2019)

Gli interventi sono visibili dall’archivio di Radio Radicale:

https://www.radioradicale.it/scheda/575352/il-regionalismo-differenziato

Evento promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Convegno “Il regionalismo differenziato“, registrato a Napoli mercoledì 29 maggio 2019 alle 10:30.

Sono intervenuti:

Michele Scudiero (professore emerito di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Gaetano Manfredi (magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Sandro Staiano (direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Luigi De Magistris (sindaco del Comune di Napoli)

Ettore Cinque (assessore al Bilancio della Regione Campania)

Franco Gallo (presidente emerito della Corte Costituzionale)

Adriano Giannola (presidente della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno))

Anna Maria Poggi (ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Torino)

Massimo Villone (professore emerito di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Teresa Panico (docente di Economia ed Estimo Rurale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Giuseppina Mari (docente di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Aldo Barba (docente di Politica Economica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Paola Coppola (docente di Diritto Tributario all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Alberto Lucarelli (professore di Diritto Pubblico all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Roberta Alfano (docente di Diritto Tributario all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Fabio Villone (docente di Elettrotecnica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Guido Capaldo (docente di Ingegneria Economico-Gestionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Giuliano Laccetti (docente di Informatica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Bruno Catalanotti (ricercatore di Chimica Farmaceutica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Raffaele Zarrilli (docente di Igiene Generale e Applicata allUniversità degli Studi di Napoli Federico II)

Claudia Casella (ricercatrice di Medicina Legale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Alessandro Pezzella (ricercatore di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Rosa Lanzetta (docente di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Domenico Calcaterra (docente di Geologia Applicata all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Achille Basile (docente di Metodi Matematici all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Nicola Ferrara (docente di Medicina Interna all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Vittorio Amato (professore di Geografia Politica ed Economica all’Università di Napoli Federico II)

Fortunato Musella (ordinario di Scienza Politica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Edoardo Massimilla (docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Luigi Musella (docente di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Luigi Califano (docente di Chirurgia Maxilofacciale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Maria Rosaria Iesce (docente di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Aurelio Cernigliaro (presidente della Scuola di Scienze Umane e Sociali dell’Università Federico II di Napoli).

Tra gli argomenti discussi: Autonomia, Concorrenza, Cultura, Diritti Sociali, Docenti, Economia, Finanziamenti, G7, Giovani, Istruzione, Napoli, Nord, Politica, Questione Meridionale, Questione Settentrionale, Regioni, Stato, Sud, Sviluppo, Territorio, Unione Europea, Università.

La registrazione video di questo convegno ha una durata di 6 ore e 18 minuti.

Turismo e cultura, la Scuola di Franceschini costata milioni per produrre nulla

Articolo di Alberto Crepaldi pubblicato martedì 16 gennaio 2018 dal sito di gli Stati Generali.

Turismo e cultura, la Scuola di Franceschini costata milioni per produrre nulla

Al bilancio dello Stato – capitoli turismo e cultura – è costata, sino ad oggi, più di quindici milioni di euro. E negli ultimi due anni ha garantito un appannaggio di 180 mila euro all’anno ad una docente già stipendiata dalla scuola pubblica di alti studi IMT di Lucca. Ma, in cinque anni e mezzo di esistenza formale, non ha prodotto nulla. Parliamo della ‘Scuola dei beni e delle attività culturali e del turismo‘ – già ‘Fondazione di studi universitari e di perfezionamento sul turismo’ – del Ministero dei Beni e le Attività Culturali e del Turismo (Mibact) guidato da Dario Franceschini. Nata nel 2012 grazie ad un articolo ad hoc infilato nelle “misure urgenti per la crescita del Paese” varate dal Governo Monti, la Fondazione è finita ben presto su un binario morto, in un limbo politico-istituzionale. Particolarmente paradossale, questa situazione, se consideriamo che una coalizione trasversale rappresentata dall’allora governatore della Regione Campania Stefano Caldoro e dal Sindaco di Napoli Luigi De Magistris condusse una battaglia epocale affinché la città partenopea fosse indicata, come avvenne, quale sede dell’istituto. Il 31 dicembre 2014, dopo che dai radar era completamente scomparsa, arriva per la Fondazione un’altra norma taylor made, inserita nel decreto milleproroghe per volontà di Dario Franceschini. La Fondazione di studi universitari e di perfezionamento sul turismo viene prorogata fino al 31 dicembre 2017 e, in conseguenza dell’estensione del suo ambito operativo al settore dei beni e delle attività culturali, appunto ribattezzata ‘Scuola dei beni e delle attività culturali e del turismo’.

La missione della Scuola affidata al governo del Mibact – posta in particolare sotto la gestione della direzione generale turismo retta da Francesco Palumbo – e anche per questo ospitata nel Palazzo del Collegio Romano ove ha sede il Ministero stesso, è apparentemente nobile quanto ambiziosa: fare formazione, ricerca e studi avanzati a livello internazionale con lo “scopo di sviluppare le risorse umane, la ricerca, la conoscenza e l’innovazione nell’ambito delle competenze del Ministero”. Nello statuto predisposto dagli uomini di Franceschini al Mibact si vola altissimo, indicando addirittura l’obiettivo di dare vita ad “un modello formativo e di ricerca di eccellenza di standard internazionali negli ambiti della tutela, gestione, valorizzazione e promozione dei beni, delle attività culturali e del turismo”.

Traguardi, sulla carta, così strategici non potevano che meritare uno sforzo finanziario importante, concretizzatosi con stanziamenti enormiai 4 milioni messi sul tavolo dal Ministero degli Affari Regionali nel 2013, si sono aggiunti 3,9 milioni nel 2016 da parte della direzione generale turismo del Mibact, che nel 2017 ha donato alla causa altri 3,4 milioni di euro.

Oltre a queste cifre vanno poi considerate quelle che già le norme istitutive della Scuola, approvate dall’ex premier Monti, avevano indicato come somme limite da utilizzare per lo svolgimento delle attività nel triennio 2012-2014: sei di milioni di euro. A cui, grazie ad un emendamento alla manovra di bilancio 2018, si aggiungeranno 2 milioni a partire dal 2020 in modo che la disponibilità totale «a regime» sarà di 3,5 milioni all’anno. Un fiume di denaro, che, vista l’inoperatività dell’istituto, sono serviti fino ad ora a pagare l’esiguo gettone di presenza all’unico dei tre componenti del Consiglio di gestione che non vi ha rinunciato, nonché modesti compensi e rimborsi spese al Collegio dei Revisori. Ma soprattutto l’appannaggio, pari a 180.000 euro, di Maria Luisa Catoni, docente all’IMT di Lucca, di area lettiana, designata da Dario Franceschini a direttrice dell’alta scuola di formazione del Mibact il 2 febbraio 2016.

Incarico, quello assegnato alla Catoni, che ha suscitato dubbi sulla legittimità di essere contemporaneamente docente a Lucca e direttrice della Scuola a Roma. Dubbi sfociati in una interrogazione al Ministro Dario Franceschini, firmata dal pentastellato Gianluca Vacca e da quattro suoi colleghi, presentata nel settembre dello scorso anno, ma tutt’ora rimasta senza alcuna risposta. Nell’atto ispettivo i cinque parlamentari chiedono, in particolare “se l’incarico […] sia stato conferito con scelta diretta e discrezionale […] e se siano stati considerati altri curricula, […] quali siano state le altre posizioni valutate e […] i criteri di scelta che hanno condotto alla nomina […] e se il Ministro […] abbia verificato preventivamente le eventuali situazioni di incompatibilità, ai sensi della normativa vigente, della professoressa Catoni ed in particolare in virtù del suo ruolo di professore ordinario presso l’Imt di Lucca e, in caso negativo, se intenda assumere iniziative in tal senso”.

È immaginabile l’imbarazzo, da parte di Dario Franceschini ma soprattutto di chi come Francesco Palumbo ha firmato “al buio” gli atti di  finanziamenti per oltre 7 milioni di euro, nel vedersi recapitare sul tavolo un atto ispettivo che lambiva un tema così scivoloso come quello della Scuola. Istituto, come detto, che fino ad ora non ha messo in pista alcun progetto formativo, nonostante le prime azioni fossero state annunciate con enfasi e come imminenti addirittura nel giugno del 2015 dal ministro Franceschini in persona.

Proprio nei giorni scorsi, dopo una serie di inspiegabili rinvii, come ci aveva annunciato l’ufficio stampa del Mibact a seguito di reiterate richieste di semplici informazioni, è stato pubblicato un bando di selezione dei partecipanti al primo ciclo della ‘Scuola del Patrimonio’bollata come “un’infamia contro i professionisti della Cultura” dal seguito blog Miriconosci, nato nel 2015 per iniziativa di esperti e studiosi del mondo dei beni culturali. La curiosità:  il bando della scuola in questione è stato affidato in gestione, per 10.200 euro, al Consorzio Cineca, con questa singolare motivazione: “[..] la attuale fase di start-up e in attesa dell’implementazione di una apposita unità operativa informatica”.

Maria Del Zompo (Rettrice Università di Cagliari): “Più soldi pubblici per tutti gli atenei per crescere ugualmente”

Articolo di Corrado Zunino pubblicato mercoledì 20 settembre 2017 da la Repubblica.

Maria Del Zompo: “Più soldi pubblici per tutti gli atenei per crescere ugualmente”

La rettrice dell’Università di Cagliari: “Assurdo quel meccanismo per cui migliori in alcuni indicatori e continuano a toglierti fondi”

L’Università di Cagliari, un ateneo che accusa la crisi demografica del territorio intorno, nel 2017 ha ricevuto 4 milioni di euro in più nell’aliquota premiale (su un bilancio di 108 milioni). Nell’insieme ha perso l’1,89 per cento dei finanziamenti. Dice la rettrice Maria Del Zompo: “Siamo cresciuti in molti indicatori della didattica e della ricerca, eppure nelle ultime sette stagioni abbiamo lasciato 25 milioni per strada”.

I suoi colleghi del Nord dicono che così il Fondo di finanziamento non premia la qualità.
“Vorrei partire da un concetto: si chiama Sistema universitario pubblico nazionale. Giusti gli indicatori, giusta una valutazione, ma l’obiettivo finale è quello di migliorare la condizione di tutti gli atenei italiani. Tutti. Quelli che sono in un contesto economico di crescita e più facilmente crescono e quelli che stanno in territori sfavoriti. Guardi…”.

Sì.
“Non sto dicendo: “Oh, poveri noi, siamo messi male, aiutateci”. No, gli atenei in difficoltà devono obbligatoriamente migliorare. Ricerca, didattica, rapporto con il territorio. Dottorati, Europa, rapporto con il mondo del lavoro. Ma lo Stato deve far crescere le università che da 70 sono arrivate a 80 e quelle che già stavano a 100″.

Che cosa bisogna cambiare nelle regole del finanziamento?
“Il meccanismo per cui migliori in alcuni indicatori e continuano a toglierti soldi. Serve una crescita armonica ed è possibile solo aumentando il finanziamento pubblico generale”.

Alle università manca un miliardo di euro.
“Ho stampato in testa un dato Ocse: nell’arco della crisi economica la pubblica amministrazione è stata definanziata in media del 2 per cento, le università del 13. Servono più laureati e meglio preparati: stiamo recuperando terreno, ma lo Stato deve dare un segnale. Non c’è futuro in un territorio che non porta avanti la cultura e la cultura è l’unica possibilità che un cittadino abbia per cambiare il proprio stato sociale”.

Ci sono troppi atenei in Italia?
“No, siamo in linea con le medie occidentali. Ci sono diversi studi sulla questione. Se chiudi un ateneo non aumenti la mobilità degli studenti, avrai soltanto meno ragazzi che andranno all’università “.

 

Mauro Van Haken – Una cosmologia di procedure. Per un’etnografia delle culture della valutazione e della loro seduzione autoritaria

Una cosmologia di procedure. Per un’etnografia delle culture della valutazione e della loro seduzione autoritaria

  1. Culture dell’audit

L’università, la ricerca e la trasmissione del sapere stanno vivendo negli ultimi anni in Italia un cambiamento epocale, dentro un generale senso di smarrimento da parte di molti suoi lavoratori: più che il definanziamento strutturale, l’austerity e la crisi economica, è l’immissione di modelli di audit (valutazione) dei processi lavorativi come riforma tecnico-amministrativa che ha drammaticamente mutato il senso di una lezione, di un progetto di ricerca e del senso delle relazioni sociali: di fatto, intaccando ampiamente la libertà e autonomia del lavoro universitario, precario e strutturato.

Poco visibili e ‘manifestabili’ all’esterno dell’università, e poco comunicabili al suo interno  proprio perché ammantate come manna efficientistica e morale per risolvere i problemi organizzativi, le culture dell’audit introdotte in nome dell’ottimizzazione delle risorse stanno svuotando da dentro i significati della didattica e della ricerca attraverso la costruzione di una miriade di scatole procedurali e valutative di ogni atto lavorativo. Parte di un flusso di modelli globali che hanno già stravolto i sistemi educativi e universitari nell’“anglosfera”, i modelli dell’audit, all’interno delle riforme di new public managementdei servizi statali sono entrate come un fiume in piena in Italia in occasione della crisi finanziaria, del debito e della shock economy che hanno determinato: il sapere si sta riconfigurando alle sue fondamenta, in un processo di rottamazione e nuovismo, direttamente nelle pratiche mondane di lavoro, dove è valutato e risemantizzato in base ad “azioni” di “produttività” e “competitività”, e attraverso nuove politiche del numero.

Ma questi modelli sono culturali: hanno una loro storia, una cosmologia e costruzione simbolica e un nuovo linguaggio composto dai termini anglofoni dell’audit, che per necessità riprendo in queste pagine. Tutto ciò attiva “rituali di validazione” [1] e nuove definizioni del lavoro (si “eroga” una lezione, si scrive “un prodotto” o pubblicazione) che tolgono parola e senso; il sistema di audit auspica un nuovo sistema morale (“trasparenza”, “efficienza”) e introduce de facto una nuova organizzazione del lavoro e nuove finalità dell’istruzione e ricerca pubblica.

Una costellazione di procedure di valutazione compone oggi il lavoro universitario, in una burocratizzazione perversa che è diventata spesso fine a sé stessa, oltre che una forma di disciplina e auto-disciplina che opera a molteplici livelli. Un “pieno” di procedure è diventata l’occupazione principale dentro un doppio cambiamento, riscontrabile in altri settori lavorativi: la delega burocratica a valutare e misurare per comporre “ranking” a ogni livello, ma anche l’immissione di piattaforme informatiche che “comandano”, misurano, indirizzano il lavoro, entro cui il medium si fa messaggio. Nella loro congiuntura, il lavoro quotidiano è costituito da criteri cangianti e contradditori delle misure del lavoro – anche di ciò che non è misurabile, come gran parte delle dimensioni culturali e sociali – e da una dimensione arbitraria, discrezionale e, quindi, quotidianamente violenta fatta del “non ci sono alternative”; una “performance” di efficienza nella ridefinizione del lavoro di insegnamento e di ricerca, dunque, che maschera frammentazione, paura, ricatto e alienazione perché sotto continua valutazione arbitraria.

Ma la buona notizia è che sono modelli culturali! Ho incontrato e studiato, da antropologo, i sistemi di audit in Giordania, introdotti non a caso nelle politiche di aggiustamento strutturale a fine anni Ottanta nell’aiuto allo sviluppo per l’ottimizzazione dell’acqua in agricoltura, come controllo finanziario delle risorse amministrative del paese: già allora, come in tanti altri contesti del sud del mondo, uno strumento di controllo finanziario (accountance) si trasformava in una ridefinizione delle politiche interne e in un effettivo cambio di governo in nome di procedure tecniche, in “conditionalities” ai fondi di sviluppo, in una definizione esogena dei bisogni degli agricoltori e di categorizzazione del loro lavoro, esulando completamente dai processi sociali locali e tanto più dalle dinamiche di marginalità  e povertà. Una “invenzione” dell’Altro nei discorsi dello sviluppo (ampia è la letteratura) dove uno strumento finanziario si traduceva in strumento di ingegneria sociale, in leva politica e in scontro culturale tra diverse definizioni e mondi di senso relativi a cosa fossero l’acqua, il coltivare, i beni comuni tra pianificatori e popolazioni locali: modelli di tecno-politica con tutte le loro contraddizioni, dove i maggior cambiamenti avvenivano attraverso atti amministrativi discreti, depoliticizzanti. Tecnici, per l’appunto.

Già a fine anni Settanta i modelli di audit furono inseriti nella macchina dello sviluppo nelle frontiere post-coloniali come controllo finanziario delle risorse, dove gli strumenti e indicatori di valutazione erano innanzitutto finanziari, e, in secondo luogo, erano negoziati con le amministrazioni “partner”: lo strumento contabile (accountance) era ben distinto  dalla valutazione dei processi lavorativi (accountability), due livelli che nella realtà italiana sono venuti a fondersi e confondersi in modo perverso.

“Non c’è più il buon vecchio audit” di un tempo, si potrebbe dire! Nel momento in cui oggi vivo sulla mia pelle ciò che gli agricoltori giordani e palestinesi vivevano come irrealtà e politica arbitraria (ma con dimensioni collettive di manipolazione e resistenza a queste politiche), in Università ci ritroviamo “senza alternative”, in una situazione in cui risuona quotidianamente quell’esclamazione della Thatcher, “there is no such thing as society!”, che coniò quelle politiche iperliberiste oggi tornate come unico margine di senso del politico.

Evidenziare alcuni aspetti antropologici di questa costellazione sociale calata dall’alto è il primo passo per estrarli dal loro mondo tecnico e ridare significato a un sistema morale e simbolico che sta ridefinendo la stessa organizzazione della società e le forme di gerarchia e di esclusione, presentandosi come nuovo principio organizzatore etico e morale, non solo dell’Università dove si sperimenta. E se il modello è culturale, una lotta culturale è possibile e le alternative ci sono.

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