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Interventi al convegno organizzato dall’Università Federico II di Napoli su “Il regionalismo differenziato” (29 maggio 2019)

Gli interventi sono visibili dall’archivio di Radio Radicale:

https://www.radioradicale.it/scheda/575352/il-regionalismo-differenziato

Evento promosso dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”.

Convegno “Il regionalismo differenziato“, registrato a Napoli mercoledì 29 maggio 2019 alle 10:30.

Sono intervenuti:

Michele Scudiero (professore emerito di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Gaetano Manfredi (magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Sandro Staiano (direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Luigi De Magistris (sindaco del Comune di Napoli)

Ettore Cinque (assessore al Bilancio della Regione Campania)

Franco Gallo (presidente emerito della Corte Costituzionale)

Adriano Giannola (presidente della SVIMEZ (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno))

Anna Maria Poggi (ordinario di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Torino)

Massimo Villone (professore emerito di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Teresa Panico (docente di Economia ed Estimo Rurale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Giuseppina Mari (docente di Diritto Amministrativo all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Aldo Barba (docente di Politica Economica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Paola Coppola (docente di Diritto Tributario all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Alberto Lucarelli (professore di Diritto Pubblico all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Roberta Alfano (docente di Diritto Tributario all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Fabio Villone (docente di Elettrotecnica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Guido Capaldo (docente di Ingegneria Economico-Gestionale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Giuliano Laccetti (docente di Informatica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Bruno Catalanotti (ricercatore di Chimica Farmaceutica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Raffaele Zarrilli (docente di Igiene Generale e Applicata allUniversità degli Studi di Napoli Federico II)

Claudia Casella (ricercatrice di Medicina Legale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Alessandro Pezzella (ricercatore di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Rosa Lanzetta (docente di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Domenico Calcaterra (docente di Geologia Applicata all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Achille Basile (docente di Metodi Matematici all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Nicola Ferrara (docente di Medicina Interna all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Vittorio Amato (professore di Geografia Politica ed Economica all’Università di Napoli Federico II)

Fortunato Musella (ordinario di Scienza Politica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Edoardo Massimilla (docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Luigi Musella (docente di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Luigi Califano (docente di Chirurgia Maxilofacciale all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Maria Rosaria Iesce (docente di Chimica Organica all’Università degli Studi di Napoli Federico II)

Aurelio Cernigliaro (presidente della Scuola di Scienze Umane e Sociali dell’Università Federico II di Napoli).

Tra gli argomenti discussi: Autonomia, Concorrenza, Cultura, Diritti Sociali, Docenti, Economia, Finanziamenti, G7, Giovani, Istruzione, Napoli, Nord, Politica, Questione Meridionale, Questione Settentrionale, Regioni, Stato, Sud, Sviluppo, Territorio, Unione Europea, Università.

La registrazione video di questo convegno ha una durata di 6 ore e 18 minuti.

Quando il classismo di alcuni dirigenti scolastici non paga

Articolo di Andrea Capocci pubblicato martedì 13 febbraio 2018 da il manifesto.

Quando il classismo di alcuni dirigenti scolastici non paga

Nonostante i proclami di alcuni dirigenti scolastici, un’indagine Ocse, e anche il volume «Excellence and equity in education», dimostrano come l’apprendimento migliore si ottenga in scuole socialmente e culturalmente miste

Le presentazioni delle scuole dei quartieri buoni, come quella del liceo Visconti di Roma in cui si vanta l’assenza di stranieri, poveri e disabili, non meritano moralismi e sensazionalismi. Che si impari più e meglio in una scuola di ragazzi italiani, sani e di buona famiglia è un’opinione molto diffusa. Puntare il dito contro qualche preside chiedendo sanzioni esemplari non deve servire a nascondere il malessere vero che questi episodi segnalano e che non ha un solo responsabile. Onestà intellettuale richiede di partire dai dati, rassicuranti o sgradevoli che siano: è vero che licei socialmente omogenei come il Visconti siano ambienti di apprendimento migliori? In realtà, si tratta di un luogo comune in gran parte smentito dai risultati dell’indagine «Programme for International Student Assessment» (Pisa) svolta dall’Ocse, la più accurata ricerca comparata sui sistemi di istruzione. Il volume Excellence and equity in education (l’ultima edizione è uscita a fine 2016) è dedicato appositamente a questo tema.

La correlazione tra aumento degli alunni stranieri e calo della qualità è solo apparente. Quando si tiene conto dello status socio-economico degli immigrati si osserva che, a parità di condizioni sociali, le scuole con più stranieri ottengono mediamente risultati migliori. Avviene in Italia ma anche in Scandinavia, Inghilterra, Nordamerica, Spagna. Inoltre l’Italia, insieme alla Spagna, è il paese in cui le differenze scolastiche tra stranieri e autoctoni si sono più assottigliate tra il 2006 e il 2015, nonostante il livello di scolarizzazione delle famiglie straniere di origine sia peggiorato.

Dunque, l’assenza o la presenza di alunni stranieri, di per sé, non garantisce un bel nulla. È vero, invece, che nelle scuole frequentate dagli studenti di status sociale superiore (italiani o stranieri che siano) il livello di apprendimento medio è migliore, anche se rispetto alla media Ocse le nostre scuole forniscono ambienti educativi mediamente più omogenei. La percezione dell’impatto negativo degli stranieri in classe, dunque, non ha ragioni culturali: nasce dal fatto che l’alunno migrante e quello povero spesso coincidono. Confrontare sistemi educativi diversi è molto difficile, ma la lezione che traggono i ricercatori Ocse è chiara: permettendo a studenti di diverso status socio-economico di frequentare le stesse scuole, si migliora l’apprendimento degli alunni svantaggiati senza peggiorare quello dei più abbienti.

Le politiche scolastiche nazionali dovrebbero dunque andare in questa direzione, favorendo un accesso equo a tutte le scuole. I vari attori del sistema scolastico italiano hanno colpevolmente ignorato questa lezione, nonostante provenga da una fonte autorevole e non certo sovversiva come l’Ocse. Le riforme ministeriali negli ultimi venti anni sono andate nella direzione opposta: «autonomia scolastica» è stata interpretata in gran parte come «concorrenza», nell’idea (falsa, come si è visto) che la competizione tra le singole scuole generi un miglioramento complessivo del sistema.
Le famiglie, anch’esse poco informate, inseguono le scuole delle classi sociali più abbienti invece che pretendere istituti scolastici efficienti anche nelle periferie disagiate.

Infine, dirigenti scolastici e docenti (i Rapporti di autovalutazione incriminati sono scritti anche da loro) assecondano la domanda sempre più insistente delle famiglie, visto che dalla politica non provengono impulsi in direzione dell’equità e dell’efficienza.
Possiamo puntare il dito contro qualche dirigente scolastico, ma il classismo della scuola italiana riguarda tutti.

I prof dell’ateneo fantasma: «Truffa scoperta in chat. Danni alle nostre carriere»

Articolo di Sara Bettoni pubblicato venerdì 9 febbraio 2018 dal Corriere della Sera ed. Milano.

I prof dell’ateneo fantasma: «Truffa scoperta in chat. Danni alle nostre carriere»

Chiusura di Unipolisi, ira dei docenti: ingannati dai manager

I sigilli alle porte. Scoperti per caso. «Nessuna comunicazione ufficiale di Unipolisi». Così i docenti hanno appreso della chiusura dell’università «fantasma» del Canton Grigioni in cui insegnavano. E vogliono prendere le distanze dai vertici che hanno ingannato loro e gli studenti. «Ci abbiamo messo la faccia, vogliamo tutelare il nostro buon nome e la nostra dignità».

«Ho saputo delle indagini da un messaggio Whatsapp» racconta il professor Vittorio Unfer, che nell’ateneo elvetico era titolare della cattedra di Ginecologia e ostetricia per gli aspiranti infermieri e fisioterapisti. Con i colleghi Giuseppe Titti, Claudio Di Brigida, Enrico Zanelli, Gioacchino Gaudioso e Gino Petri condivide una chat «in cui ci teniamo in contatto. Veniamo da parti diverse dell’Italia e della Svizzera». Unfer ricostruisce la vicenda dal suo punto di vista. «Uno di noi, sarà stato un mese fa, passa per caso davanti alla sede di Unipolisi a Disentis, in via Sursilvana e vede i sigilli all’ingresso». Subito avvisa gli altri. «A quel punto abbiamo chiamato i dirigenti per capire cosa stesse succedendo, ma nessuna risposta. I ragazzi ci chiedevano spiegazioni, non sapevamo cosa dire». Solo l’articolo del Corriere, giorni dopo, ha reso nota la verità. I responsabili dell’istituto, V.A. e D. P. sono in carcere a Lugano per appropriazione indebita, truffa e amministrazione infedele aggravata. E il raggiro è ben più esteso. Di questi reati i professori giurano di non aver mai avuto sentore. «Lavoravo con loro già all’Ipus, l’ateneo a Chiasso – dice Unfer – chiuso per un problema burocratico, o almeno così sapevo». Poi l’apertura a Disentis di una nuova università «per garantire continuità ai ragazzi che avevano già iniziato i corsi». Decine di giovani, molti milanesi e monzesi, disposti a pagare anche 8 mila euro all’anno per studiare. «L’accesso a numero chiuso negli atenei italiani è un limite, chi non supera le selezioni è costretto ad andare all’estero».

E il rettore di Unipolisi si è approfittato delle speranze di ragazzi che ora rischiano di non veder riconosciuti da altre università gli esami già sostenuti. «Ma sembrava tutto molto serio – continua il medico -. Una sede prestigiosa in una ex banca, contratti firmati». I docenti pensano di tutelarsi dal punto di vista legale. «Ci sono pubblicazioni col nostro nome e quello di Unipolisi, alcuni colleghi aspettano di essere pagati, cifre importanti. Attendiamo l’esito delle indagini, ma ci riserviamo ogni iniziativa contro chi ha violato la legge».

“Bologna selezionerà chi vuole rientrare per terminare gli studi a Medicina”

Articolo di Michele Sasso pubblicato lunedì 13 novembre 2017 da La Stampa.

“Bologna selezionerà chi vuole rientrare per terminare gli studi”

Festi (Alma Mater) : “Da quest’anno arginiamo il turismo universitario”

«Attenzione, chi si mette nelle mani di queste agenzie rischia di andare in Romania o Bulgaria e rimanere lì per sempre, perché se non si liberano posti in Italia prima o poi arriva il momento della laurea. L’andata è semplice ma non c’è nessuna garanzia sul ritorno». Davide Festi, gastroenterologo e coordinatore del corso di medicina dell’Università di Bologna, è caustico sul fenomeno del “turismo universitario”, in crescita negli ultimi 10 anni.

Cosa fate a Bologna per arginare questo via-vai di iscritti e trasferimenti?

«Quest’anno, per la prima volta, facciamo una graduatoria unica di italiani e stranieri. Una selezione dei migliori grazie a una prova orale e una commissione esaminatrice ad hoc. E i risultati sono arrivati: i posti erano 12 e solo uno studente in arrivo da Bucarest era adatto ai nostri standard».

Un giorno questi italiani con formazione bulgara o romena indosseranno un camice e faranno una visita. Saranno all’altezza?

«Se sono studenti dei primi anni e tornano in tempo si possono recuperare, perché il tirocinio inizia solo al terzo anno. Il medico italiano trova sempre da lavorare perché ha un’ottima formazione culturale e tanta teoria, mentre la pratica si fa in corsia. Noi abbiamo anche le matricole russe che però parlano italiano correttamente ma se, come immagino, vanno all’estero e non possono comunicare con i pazienti durante il tirocinio la vedo dura fare una diagnosi».

Alcuni studenti hanno raccontato che i programmi di medicina in Bulgaria sono miseri, ridicoli e senza una base di teoria.

«Mediamente la qualità è più bassa, la didattica sul piano teorico è buona ma è solo teorica: spesso la preparazione è claudicante. Molti studenti sono tornati con una montagna di crediti in attività curriculari, tirocini su tirocini, ma tutte questa operosità non corrisponde a una reale formazione».

Mentre il ministero dell’Istruzione conferma che non hanno alcuna validità questi titoli, ogni anno qualcuno si infila nei posti messi a disposizione dai singoli atenei. Come fanno?

«Credo che abbiano i dati statistici di quelli più “accoglienti” e provano a spedirli. Il consiglio di Stato ha stabilito che non possiamo mettere un freno agli spostamenti dentro e fuori l’Europa, il punto è selezionare i più meritevoli».

I genitori hanno evocato un «diritto allo studio negato» in Italia a causa del numero chiuso.

«Lo sbarramento con le 60 domande scritte per tutti ha creato certamente un fenomeno nuovo ma faccio fatica a pensare un sistema diverso. Esiste da 15 anni e in tutti i paesi del mondo, per chi vuole fare medicina, si è adottato un criterio di selezione obbligatorio. Un dottore preparato presuppone una buona preparazione che significa anche un numero congruo di docenti, aule, laboratori e didattica. Per questo noi ne accettiamo 320 ogni anno, non uno di più».

Quanti dei vostri studenti arrivano alla laurea?

«Al test passa solo un aspirante dottore su dieci e negli anni successivi la “mortalità degli iscritti” è bassa e si laureano in corso entro il sesto anno il 65 per cento. E poi abbiamo anche corsi di medicina tutti in inglese. Non è necessario andare oltre confine per avere un’ottima formazione con una spesa accettabile».

Marco Gilli (Rettore Politecnico di Torino): “Un piano per lanciare l’Università del futuro”

Articolo di Federico Callegaro e Alessandro Mondo pubblicato mercoledì 8 novembre 2017 da La Stampa Torino.

“Un piano per lanciare l’Università del futuro”

L’appello del rettore a Mattarella. Il Capo dello Stato: “Aggregazioni tra atenei e sinergie tra discipline”

Investimenti e riforme, in entrambi i casi strutturali. È stato un appello diretto, quello del rettore del Politecnico di Torino al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ospite d’eccezione durante l’apertura dell’anno accademico: diretto ed energico.

Né è un caso che, seppur con parole e sfumature diverse, sia stato rilanciato da docenti, studenti e precari. Tutti uniti nel chiedere/sollecitare a Mattarella di farsi promotore di un rinnovamento degli atenei italiani. «Piano Università 4.0», lo ha chiamato Gilli, dopo avere elencato i tanti punti di forza dell’Ateneo che guiderà per altri quattro mesi. «Riscatto dell’Università», lo hanno definito insegnanti e studenti i quali, dopo averla elaborata in un’assemblea nazionale, hanno consegnato nelle mani del Capo dello Stato una lettera in cui sottolineano i problemi del sistema attuale.

Di fatto, il Poli – forte di tanti successi internazionali – ormai sembra essersi accreditato come centro propulsivo di una voglia di cambiamento e di innovazione destinata a superare i confini regionali.

Sistema da ridisegnare

«Serve una coraggiosa inversione di tendenza e una riforma radicale degli atenei che porti alla nascita di un piano 4.0 che interessi, oltre alle industrie, anche le università – ha spiegato Gilli -. È fondamentale avviare un robusto ricambio generazionale nel corpo docente, bisogna concedere più risorse al diritto allo studio e favorire l’aggregazione tra università del territorio». Il quarto punto del piano disegnato dal rettore chiama in causa la sempiterna burocrazia: «Va rivisto il quadro normativo che circonda gli atenei, specialmente quando si parla di reclutamento dei professori. Per due motivi: il primo è evitare episodi poco edificanti, il secondo adeguare l’ingresso dei docenti a quello degli altri Paesi europei». Presenti Sergio Chiamparino, Chiara Appendino e il presidente del Consiglio regionale Mauro Laus.

Parole ascoltate con attenzione dal Capo dello Stato, protagonista di una giornata che in poche ore l’ha portato dal Poli alle Ogr («un tempio del lavoro») e dal Cottolengo al Sermig («le idee e i sogni sono più veloci della realtà, le idee e sogni del Sermig sono ancora più veloci»). Pur rimandando ai ruoli di Governo e Parlamento, quindi senza sbilanciarsi, Mattarella ha raccolto il messaggio: «Condivido in particolare l’importanza di creare aggregazione tra le università che operano sul territorio – ha risposto nel suo intervento -. Questo Ateneo è un punto d’eccellenza del nostro Paese, un luogo di scambio di cultura e di apertura che attira studenti stranieri ma che mi ha portato a incontrare nelle università cinesi studenti in arrivo proprio da qui». Un’apertura verso i cambiamenti tecnologici e il futuro, verso l’interdisciplinarietà («ha permesso ad un uomo di diritto come me di non sentirsi estraneo ma coinvolto nei discorsi di questa mattina») e verso l’estero.

Ius Soli

La cerimonia è stata l’occasione per parlare di Ius Soli. «Potrei concentrarmi sul tema degli scarsi investimenti sul diritto allo studio che rischiano di rendere utopia l’idea di inclusione – ha affermato Domenico Scarcello, rappresentante degli studenti -. Ma voglio usare questa occasione per parlare di ius culturae, visto che siamo in un ateneo cosmopolita come questo. Spetta alla politica dare risposte su un tema importante che rappresenta un atto di responsabilità verso le generazioni future e che favorisce l’inclusione». Parole che hanno riscosso l’apprezzamento di Laus: «Al Politecnico una lezione di vita alla politica».

 

Lettera di Carlo Ferraro in risposta a Gaetano Manfredi sul “tesoretto” degli Atenei

Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria
https://sites.google.com/site/controbloccoscatti/home

Lettera aperta

20/10/2017

Gentile Rettore, Chiar.mo Prof. Gaetano Manfredi

e p.c. Ai Rettori delle Università Italiane appartenenti alla CRUI

           Alla Segreteria della CRUI

Oggetto: “Tesoretto” degli Atenei. Richiesta ai Rettori.

Gentile Prof. Manfredi,

la ringrazio per la sua risposta del 17/10/2017 alla mia di pari oggetto del 12/10/2017.

Sono necessari chiarimenti per i quali cercherò anche io di non appellarmi a dati di bilancio affinché tutti possano comprendere con facilità.

Premetto che nella mia precedente non ho mai parlato di ricchezza nascosta e non utilizzata, bensì di risorse disponibili a bilancio, quindi ben visibili, e che laddove mi sono addentrato nella loro utilizzazione (per gli RtdA e RtdB) ho anche riconosciuto fin da allora la loro corretta utilizzazione da parte del suo Ateneo.

Rispondo per punti alle sue argomentazioni.

1) Lei asserisce che il risparmio di 16,4 milioni derivante dalla mancata corresponsione degli scatti non esiste per il suo Ateneo (e di conseguenza non esisterebbe neanche per gli altri), perché si tratta di un “tesoretto” che lo Stato ha già utilizzato per coprire il suo disavanzo corrente.

Lei parte, come mi ha scritto, dal presupposto che anno per anno lo Stato dovrebbe incrementare progressivamente il Fondo di Finanziamento Ordinario in entrata (FFO) per coprire i costi aggiuntivi di classi e scatti ed evitare che gli Atenei vadano in forte passivo, così come fatto prima del 2009.

Non ritengo che il suo presupposto sia corretto.

Parto dall’esempio concreto degli anni fino al 2009 al quale lei fa riferimento asserendo che fino al 2009 lo Stato aveva sempre aumentato l’FFO per far fronte agli aumenti di classi e scatti. Analizzo le Università Statali, alle quali è destinato l’FFO.

Orbene, fino a tale data i Docenti Universitari delle Università Statali erano circa 58300.

Ogni anno, mediamente, andavano in pensione circa 1500 Docenti. Nella stragrande maggioranza, ovviamente, erano i Docenti con gli stipendi più alti. Potevano quindi essere assunti 1500 nuovi Docenti (allora 1500 Ricercatori a Tempo Indeterminato), mantenendo l’organico inalterato, e, poiché questi nuovi 1500 si immettevano con stipendi più bassi, le risorse in eccesso potevano essere usate anche per bandire nuovi posti di Professore Associato e Ordinario. In conclusione, la spesa sostenuta dagli Atenei per il personale docente per classi e scatti in sé e per sé non diminuiva né aumentava di anno in anno: rimaneva semplicemente costante e non richiedeva interventi sull’FFO da parte dello Stato.

Detto in altro modo, contemporaneamente al pensionamento di circa 1500 Docenti, tutti i Docenti che erano ancora in servizio progredivano di un anno nella loro progressione stipendiale in classi o scatti stipendiali. La maturazione delle classi o degli scatti era allora biennale, ma per circa la metà dei Docenti avveniva in un dato anno, per l’altra metà nell’anno successivo, il che permette il ragionamento su base annuale. Il Docente più anziano andato in pensione in un dato anno veniva sostituito da un docente che progrediva nella sua progressione stipendiale di un anno e a sua volta quest’ultimo era sostituito da un docente che un anno prima era di un anno indietro rispetto a lui. In altre parole, la composizione dell’organico, in termini di posizioni stipendiali di classi e scatti, rimaneva mediamente costante. La conclusione è la stessa di prima: la spesa complessiva rimaneva costante, senza bisogno dell’intervento dello Stato.

Unica variante: in corrispondenza del rinnovo dei contratti stipulati dagli altri dipendenti del pubblico impiego (contratti bloccati per anni a partire dal 2011, e a volte anche da prima) i valori delle classi e degli scatti venivano rivalutati in misura pari alla media degli aumenti ottenuti dagli altri dipendenti del pubblico impiego. In tali occasioni le Università chiedevano giustamente, e in genere ottenevano, gli aumenti di FFO necessari. Sono questi e solo questi gli aumenti di FFO che lo Stato concedeva, in quanto derivanti da dinamiche esterne agli Atenei. Aumenti che in questi ultimi anni gli Atenei non potevano e non possono richiedere, non essendoci stato in questi anni alcun rinnovo contrattuale degli altri dipendenti del pubblico impiego.

In definitiva, le Università non hanno bisogno di incrementi di FFO per sostenere gli aumenti di classi e scatti stipendiali in sé e per sé, perché le risorse necessarie sono già presenti nell’FFO stesso. Negli ultimi anni non si è potuto utilizzarle a tal fine e sono rimaste quindi a disposizione degli Atenei: un risparmio forzato.

In conclusione i 16,4 milioni di euro da me calcolati come risparmio da classi e scatti non sono un tesoretto che lo Stato ha utilizzato per coprire il suo disavanzo corrente, bensì risparmi forzati che il suo Ateneo ha dovuto fare: un tesoretto dell’Ateneo, che andrebbe quindi aggiunto agli 0.6 milioni da lei calcolati come “tesoretto “ residuo a fine bilancio 2016, per arrivare così a 17 milioni.

2) Minor costo del personale a tempo indeterminato

Ad evitare incomprensioni e contestazioni non utili al momento, uso i suoi dati e la sua metodologia di calcolo che fa riferimento ai POM.

Il suo Ateneo calcola in 752 Docenti la diminuzione di Docenti “strutturati” nel periodo 2010-2016, con una diminuzione di POM di circa 500 punti e usa un valore di circa 110000 euro per il valore del POM, arrivando così a un calcolo di 500*110000= 55 MEuro.

Orbene, come risulta dal Decreto Ministeriale 10 agosto 2017 n. 614, il valore del POM è di 113939 euro, quindi circa 114000 euro. Tale decreto recita infatti:

CONSIDERATO che dalle rilevazioni ministeriali relative all’anno 2016 concernenti il costo del personale delle Istituzioni Universitarie Statali, incluse le Istituzioni ad ordinamento speciale, il costo medio nazionale di 1 Professore di I fascia cui corrisponde il coefficiente stipendiale di 1 Punto Organico è pari a euro 113.939.

Alla luce di ciò il calcolo del suo Ateneo va corretto, dai 55 calcolati, in 500*114000= 57,0 MEuro; il “tesoretto” residuo, dunque, salirebbe di altri 2,0 milioni di euro arrivando a 19,0 milioni di euro ancora disponibili per il 2016.

Non mi addentro qui nell’uso che lei fa dei POM per il calcolo dei risparmi. In effetti usare i POM, come il suo Ateneo fa ora, per ridimensionare quella che io calcolavo come disponibilità di cassa potrebbe essere dibattuto a lungo e il discorso si complicherebbe.
Non complico, accetto per ora la sua impostazione e la seguo fino in fondo. Vedrà che le conclusioni non cambiano di molto.

Sulla base di quanto detto al punto 1 e in questo punto 2, il suo Ateneo ha avuto risparmi forzati di 16.4 +57= 73,4 MEuro, nettamente superiori ai 38,4 MEuro in meno dell’FFO. La differenza è pari a 35.0 milioni, il “tesoretto” che nel 2016 l’Ateneo ha avuto quali risorse a disposizione in più rispetto al 2010.

Si tratta di risorse che legittimamente dovrebbero ritornare alle fonti che le hanno generate, nelle proporzioni dovute a ciascuna fonte primaria: nel 2016, ad esempio (dato che circa poco più un quinto di tali risorse deriva dal blocco degli scatti e poco meno di quattro quinti dal blocco del turnover), 7.8 milioni di euro annui per le classi e gli scatti e 27.2 per la reintegrazione del personale docente.

Per la reintegrazione del personale docente il suo Ateneo ha già impegnato, legittimamente e lodevolmente, 16 milioni per Ricercatori di tipo A e B; rimangono ancora a disposizione i 7,8 milioni per le classi e gli scatti e ancora 11,2 per il reintegro del personale docente. Non è un caso che la somma di queste due voci riporti ai 19 milioni di euro citati sopra.

Proiettati su base nazionale, i 150 milioni di euro che avevo indicato nel documento inviato precedentemente scendono a “soli” 130: di conseguenza la richiesta diventa la seguente.

Si chiede ai Rettori di avanzare al MIUR la proposta di un “cofinanziamento” degli Atenei per le classi e gli scatti dell’ordine dei 130 milioni di euro annui a partire dal 1° gennaio 2015, anno, si ripete, a partire dal quale si chiede lo sblocco definitivo delle classi e degli scatti (attualmente è dal 2016), e per tutti i Docenti in servizio al 1° gennaio 2015 stesso.

Rinvierò il documento precedentemente inviato adottando la metodologia da lei proposta, in modo da evitare ogni incomprensione o contenzioso.

3) Nuove assunzioni di Professori Ordinari e Professori Associati

Lei cita dal 2010 50 ingressi di I e II fascia, 150 avanzamenti a I fascia e circa 350 a II Fascia con investimenti per 12,6 MEuro. Fa bene a citarli e fa bene a non evidenziarli come utilizzazione del “tesoretto” iniziale dell’Ateneo, in quanto derivanti essenzialmente dal quel poco di turnover consentito in questi anni; ma chi legge la sua lettera può avere l’impressione che nei miei calcoli fossero stati dimenticati. Invece c‘erano, ne tenevo conto correttamente nel numero di Docenti evidenziati in servizio nel 2016.

Sono ovviamente a sua disposizione per qualsiasi chiarimento.

Cordiali saluti,

Carlo Vincenzo Ferraro

Nota Prof Ferraro 20-10-2017

Italia agli ultimi posti per spesa in istruzione e stipendi degli insegnanti

Italia agli ultimi posti per spesa in istruzione e stipendi degli insegnanti

di Pierangelo Soldavini

In tutto il mondo industrializzato l’istruzione aumenta e migliora le prospettive occupazionali dei ragazzi. È una tendenza che appare irreversibile a partire dal 2000 quella evidenziata dal rapporto “Education at a glance” dell’Ocse. Oggi la maggioranza – ben il 43% – dei “giovani adulti” ha una laurea , ma anche tra gli adulti (25-64 anni) la quota è cresciuta al 37%.

L’istruzione “paga”

D’altra parte l’istruzione terziaria mantiene le promesse in termini di ritorno degli investimenti: i laureati hanno una maggior probabilità – dieci punti percentuali in più – di trovare lavoro e guadagnano in media il 56% in più rispetto agli adulti che hanno completato solo il percorso secondario superiore. E hanno una maggior capacità di rispondere ai periodi di crisi: il tasso di occupazione per i “giovani adulti” (per l’Ocse la fascia d’età tra 25 e 34 anni) con laurea è già tornato ai livelli pre-2008, mentre la disoccupazione per quelli con una formazione inferiore è ancora oggi su livelli superiori.

Proprio per questo i ragazzi hanno compreso che un’istruzione più qualificata migliora le prospettive occupazionali rispetto a chi entra direttamente nel mercato del lavoro alla fine dell’istruzione obbligatoria: tra il 2000 e il 2016 la quota dei ragazzi tra 20 e 24 anni che studia ancora è aumentata del 10% nei paesi Ocse mentre gli occupati, nella stessa fascia, sono diminuiti del 9%.

Questa tendenza mette ancora più in risalto il caso negativo dell’Italia, dove gli adulti in possesso di laurea sono fermi al 18% – peggio di noi fa solo il Messico – contro il 37% di media Ocse. Anche da noi i giovani (25-34 anni) fanno un po’ meglio con il 26% di laureati, ma ancora ben lontani dalla media Ocse (43%). Compensa però la formazione professionale: in linea con la tendenza globale tra i diplomati a livello secondario superiore la maggioranza ha un titolo con indirizzo professionale (53% contro il 39% con indirizzo generale). E l’istruzione professionale garantisce un tasso d’occupazione superiore del 68% rispetto all’indirizzo generale.

Insegnanti sempre sottopagati (e vecchi)

In un mondo sempre più affamato di istruzione gli insegnanti dovrebbero essere la colonna portante del sistema educativo. Invece la professione diventa sempre meno attraente per i giovani e la popolazione dei docenti si fa sempre più vecchia, in particolare nei livelli più elevati di istruzione. In media nei paesi Ocse un terzo degli insegnanti in primarie e secondarie ha più di 50 anni. In Italia la quota di docenti ultracinquantenni è ben superiore: 60% nella primaria e 71% nella secondaria superiore. Il che, aveva già segnalato l’Ocse, può diventare anche una risorsa, visto che nel prossimo decennio quasi due terzi degli insegnanti dovranno essere sostituiti.

L’attrattività è in buona parte determinata dalle prospettive di remunerazione, che per gli insegnati rimangono decisamente più basse rispetto ai coetanei con la stessa formazione. In media lo stipendio di un docente si ferma tra il 78 e il 94% di quello di occupati a tempo pieno con istruzione terziaria. Per di più la crisi del 2008 ha peggiorato la situazione con il congelamento o addirittura la riduzione degli stipendi in diversi paesi, con il risultato che tra il 2005 e il 2015 gli stipendi dei docenti hanno registrato una flessione in termini reali in un terzo dei paesi presi in considerazione.

Anche in questo campo la situazione in Italia è più deteriorata. Per fare qualche esempio un insegnante di scuola primaria ha un salario iniziale di 27.900 dollari che può salire a 33.700 dopo 15 anni di esperienza (parliamo sempre di livelli medi) contro un’oscillazione tra 30.800 e 42.800 di media Ocse. Non molto migliore la situazione per la scuola secondaria superiore: 30.100-37.800 la fascia in Italia contro 33.800-46.600 nelll’Ocse.

Cresce la spesa in istruzione

La rilevanza dell’istruzione nella nuova era della conoscenza ha portato a un generalizzato aumento della spesa in educazione superiore all’incremento della popolazione studentesca: 4% rispetto a una lieve flessione degli studenti. Ma l’importanza dell’istruzione terziaria ha indotto i governi e le istituzioni private a puntare molto sull’università, che ha registrato un aumento della spesa più che doppio rispetto a quello della popolazione studentesca.

L’incremento della spesa in termini monetari non ha però tenuto il passo con la crescita del Pil, portando a una flessione di due punti percentuali della spesa in relazione al Pil.

La quota di investimenti pubblici premia ovviamente l’istruzione obbligatoria, coprendo in media il 91% delle spese, ma scende drasticamente, al 70%, all’università, lasciando il resto del conto da pagare alle famiglie.

In Italia la spesa per istruzione si è attestata al 4% del Pil, un rapporto molto inferiore alla media Ocse del 5,2% e in calo del 7% rispetto al 2010: solo cinque altri paesi si collocano su livelli inferiori. In termini di spesa per studente per l’intero ciclo scolastico l’Italia è attestata a 9.300 dollari, meno dei 10.800 di media Ocse, con una forbice che va allargandosi nella fascia più alta dell’istruzione: nella primaria il divario è limitato (8.400 dollari contro 8.900) mentre nella terziaria cresce con una spesa, comprese le attività di ricerca e sviluppo, pari a 11.500 dollari, 3.900 in meno rispetto alla media Ocse.