Archivi tag: Austria

Quanto costa un titolo di studio top in Italia e all’estero

Articolo di Isabella Colombo pubblicato martedì 30 luglio 2019 su Capital.

Quanto costa un titolo top in Italia e all’estero

Zero euro nelle prestigiose Scuole di Pisa, decine di migliaia di dollari l’anno nelle top americane. Fra i due estremi, la spesa per laurearsi è comunque un investimento. Che rende, ma va ben programmato. Le cifre per i conti delle famiglie

Capital_1

Capital_2

La Scuola Normale superiore e la Scuola Sant’Anna di Pisa costituiscono una straordinaria eccezione: sono fra le università migliori al mondo, sempre in cima ai ranking internazionali, ma sono anche gli unici due atenei in Europa completamente gratuiti. Le matricole non pagano la retta e non devono spendere nemmeno per vitto e alloggio. Entrarci però non è facile: conta solo il merito e i candidati devono superare test di ingresso assai selettivi. Per il resto, l’università pubblica in Italia non è economica come in altri paesi europei. Secondo l’Ocse, negli ultimi 10 anni in Italia le tasse per iscriversi all’università sono aumentate del 60% e adesso solo Paesi Bassi e Regno Unito sono più cari. Inoltre, le borse di studio sono poche e non bastano a sostenere i costi, soprattutto per gli studenti fuori sede. In Italia si parte da rette basse per gli studenti da famiglie con basso reddito iscritti a università pubbliche e si arriva a 16mila per alcune private. L’ammontare per ciascuno studente è definito a fasce: in genere sono quattro e vanno da un reddito familiare inferiore a 20mila euro a oltre 80mila; c’è anche una no tax area per i redditi sotto il 13mila euro e solo per le università pubbliche. Sempre l’Ocse calcola spese per retta e testi nell’università pubblica che possono arrivare a 3mila euro l’anno per uno studente che vive nella stessa città dell’ateneo. Secondo Federconsumatori i costi per i fuorisede salgono fino a 9mila euro, quindi 27mila euro in media per una laurea triennale e fino a 45mila per la magistrale. Le borse di studio raramente vengono concesse solo per meriti. I dati Ocse dicono ancora che in Italia la spesa pubblica media per studente universitario (che comprende anche le borse di studio) è di circa 9.352 euro l’anno, mentre la media europea è 13.125. In Italia solo il 9-10% degli universitari percepisce una borsa di studio contro il 30% in Spagna e il 40% in Francia. Questi dati acquistano significato considerando che sempre più studenti italiani decidono di trasferirsi all’estero per studiare. Se un decennio fa molti si indirizzavano a Milano, Roma e Torino, adesso che l’Europa è a portata di voli low cost le nuove mete sono molto più a nord. Secondo dati Unesco, nel 2006 meno dell’1,5% dei neodiplomati espatriava, ora superano il 3%, in aumento. L’espatrio, che prima era un’opzione post laurea per scappare dalla disoccupazione, adesso è la possibile scelta del dopo diploma. Tanto vale anticipare il trasferimento ed essere poi avvantaggiati nella ricerca del lavoro dopo gli studi. Le università straniere, ritenute più meritocratiche e attrezzate, risultano in svariati casi più economiche. Certo, chi punta a Harvard o a Yale, ammesso che superi le selezioni, può sborsare fino 70mila dollari l’anno. Ma negli States quasi tutte le università sono care (la media, sempre per anno accademico, è di circa 20mila dollari) ed è difficile ottenere borse di studio. Circa 44 milioni di americani infatti contraggono prestiti per accedere agli atenei. In Europa parecchi atenei anche prestigiosi sono meno cari che in Italia. Sono abbordabili istituzioni accademiche di alto livello come l’Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna e la Delft University of Technology nei Paesi Bassi. In Austria, Germania, Danimarca, Finlandia, Svezia e Norvegia non sono previste tasse, che sono bassissime in Scozia, Grecia, Malta e Cipro. Negli atenei del Nord Europa è anche più facile avere incentivi ed esoneri: quei paesi puntano sull’attrazione degli studenti stranieri per aumentare l’ecosistema di startup e imprese innovative. Per questo, oltre a tenere basse o a eliminare del tutto le tasse, propongono anche i corsi in lingua inglese. In Germania, oltre a essere gratuite, le università spesso appaiono nelle classifiche di quelle più prestigiose a livello internazionale, come la Technische Universität Dresden (Tud), la Free University of Berlin, la University of Göttingen, la University of Würzburg, la Rwth Aachen University, la Heidelberg University e la University of Freiburg. Inoltre, il programma di sostegno BAföG garantisce agli under 30 un sussidio individuale che arriva fino a 735 euro al mese. Nel Regno Unito, che è ancora la meta preferita dagli studenti expat italiani nonostante l’annunciata Brexit, le cose sono diverse: esclusa la Scozia, dove la triennale è gratuita e per la magistrale si arriva a 5mila euro l’anno, per una laurea triennale si spendono fino a 11mila euro di tasse l’anno. Anche se, grazie al prestito d’onore, si può pagare tutto dopo, quando si trova lavoro.

La laurea facile si prende fuori dall’Italia

Articolo di Miriam Romano pubblicato giovedì 16 maggio 2019 da Libero.

La laurea facile si prende fuori dall’Italia

Sempre più studenti esclusi dalle università italiane vanno a laurearsi all’estero

Serve un po’ di spregiudicatezza. Un pizzico di conoscenza della lingua inglese per farsi capire almeno i primi tempi e un attaccamento non troppo forte alla patria natìa, l’Italia. Le soluzioni per ottenere una laurea senza ammazzarsi sui libri ci sono, ma all’estero. L’ostacolo principale da superare nei nostri atenei è spesso il test di ingresso. Scoglio che in giro per l’Europa non esiste ovunque. Poi ci saranno da affrontare, per chi, una volta ottenuto il titolo, sogna il rimpatrio, le pratiche burocratiche per il riconoscimento della laurea estera. Ma l’equipollenza del titolo si può ottenere senza troppa fatica. Partiamo dalla facoltà di Medicina. Ogni anno allo scoccare del mese di settembre se ne parla. Troppi candidati agli atenei italiani e pochi posti. Troppo difficile il test e troppo poco adatto ai nostri studenti, e così via. Per chi però non vuole arrendersi di fronte alla stroncatura della prova di ingresso, le porte delle università estere sono aperte ai nostri aspiranti dottori. Anche se, a seconda dello Stato scelto, bisognerà mettere mano al portafogli. Paese che vai, usanze che trovi… Si può optare, ad esempio, per l’International Campus di Chiasso, in Svizzera. Non c’è un test di ammissione, ma bisognerà comunque seguire un corso preparatorio che verte sul linguaggio medico, inglese e materie scientifiche. Non un gioco da ragazzi. Per non parlare dei costi: dai 40mila euro ai 60mila all’anno. Più comoda è la Spagna, tra le più facili per le vie d’accesso. È l’Universidad Europea di Madrid la meta dei nostri camici bianchi in fuga. Qui, per sedere tra i banchi dell’Ateneo, basta un breve colloquio orale, il certificato B1 della lingua inglese e una prova psicoattitudinale da eseguire online. Anche se l’esborso economico da affrontare non è proprio alla portata di tutti: almeno 25mila euro in denari vanno cacciati. L’Est d’Europa è sicuramente la zona più consigliata ai testardi aspiranti medici, che però non dispongono di molte risorse economiche. In Albania, dove la vita media di uno studente tra vitto e alloggio si aggira intorno ai 150 euro al mese, ci si può iscrivere senza troppa difficoltà a Tirana. Il test di ingresso necessita di poco studio per rispondere a quesiti a risposta multipla in biologia, chimica, fisica e matematica. Di tasse, invece, ci sarà da sborsare circa 8mila euro all’anno. In Bulgaria sono due le università di Medicina dove ci si può facilmente iscrivere, la San Clemente di Ocrida e la Medical University, per entrambe il costo si aggira intorno agli 8mila l’anno. Ma lo scoglio, in questo caso, può essere la lingua: i corsi e una parte del test di accesso sono in inglese. Qualche migliaia di euro in meno si spende all’università statale di Timisoara (la rata prevista per gli studenti stranieri è di 5mila euro l’anno). Sempre in Romania è consigliata anche la Vasile Goldis di Arad, un’università privata che però apre la porta agli studenti persino due volte l’anno, una a luglio e l’altra a settembre. Un aiuto in più per gli indecisi e per chi non è passato al primo colpo.

Anche per la laurea in Odontoiatria vale più o meno lo stesso schema di prezzi e mete. La Spagna, dove l’accesso è più semplice, sforna ogni anno centinaia di dentisti italiani. Ma anche per gli altri corsi di laurea non legati all’ambito medico, soluzioni più semplici di quelle offerte dal nostro paese esistono. In Architettura, l’università di Madrid, consente liberamente l’accesso agli studenti. E pure in Austria, la maggior parte dei corsi sono ad accesso libero. Anche la Germania e la Francia sono mete da valutare, se però si ha almeno un’infarinatura rispettivamente del tedesco e del francese. Per l’equipollenza del titolo in Italia, dicevamo, non ci sono troppi problemi. Infatti per tutti i titoli accademici ottenuti in Europa, bisogna passare il vaglio del giudizio di equipollenza rilasciato dai singoli Atenei italiani allo studente che ne fa richiesta. Se per la Romania, di solito, raccontano su alcuni blog gli studenti che ci sono già passati, la trafila è un po’ più lunga per raccogliere tutte le carte, per gli altri paesi nel giro di qualche mese il gioco è fatto. Valutare la laurea in Medicina, invece, spetta al ministero della Salute, che nel giro di tre mesi emana il riconoscimento per potersi iscrivere all’Ordine dei medici.

«L’iscrizione ai corsi di laurea in medicina e in generale nelle professioni sanitarie in paesi che non prevedono selezioni è un fenomeno noto e che risolleva la questione delle modalità di accesso a questi corsi di laurea. Ogni anno assistiamo a un numero crescente di iscrizioni ai test d’ingresso e sappiamo anche che nei prossimi anni assisteremo a un calo dei medici in attività – un calo che avrà un impatto significativo sulla collettività. Se da un lato selezioni rigorose ci aiutano ad avere studenti fortemente motivati, dall’altro dobbiamo pensare a una riflessione pubblica, di sistema, che consideri i fabbisogni di salute del nostro paese e garantisca che si possa contare su un numero di specialisti adeguato», ha commentato il professor Enrico Gherlone, Rettore dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Mentre secondo Daniele Grassucci, fondatore di Skuola.net, «il fenomeno della fuga all’estero degli studenti dovrebbe servire a far riflettere sul business del test di ingresso: la prova di accesso finisce per facilitare gli studenti che si trovano in una condizione economica vantaggiosa, potendo trovare negli atenei stranieri un escamotage».

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Articoli di Ilaria Venturi e Corrado Zunino pubblicati lunedì 26 febbraio 2018 da la Repubblica.

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Sul grande “no” al referendum del 2016 la scuola ha lasciato le sue tracce. Molti docenti si sono vendicati lì della Legge 107, la Buona scuola appunto, subita a colpi di fiducia. E hanno innescato un corto circuito nel governo Renzi che si è ripercosso sull’attuale esecutivo nonostante gli aggiustamenti della ministra Fedeli: abbiamo investito 4 miliardi nell’istruzione, è stato il ragionamento della maggioranza, assunto come non si faceva da anni, fatto ripartire i concorsi, svuotato le graduatorie eppure molti professori ci contestano. Forse perché, come racconta Gaetano da Bologna, in aula restano i problemi di sempre. Nella primavera 2015 si è registrato il più grande sciopero del mondo della scuola e anche il recente rinnovo del contratto è stato motivo di polemiche. Sull’università nelle ultime due stagioni sono tornati i finanziamenti. Ma l’impoverimento degli atenei post-Gelmini (i docenti sono calati del 20% tra il 2008 e il 2013) e la precarizzazione dei ricercatori, vedi Alessandra da Bari, sono diventati ragione per un inedito sciopero dei prof d’università. In questo quadro, ecco le proposte dei partiti per il 4 marzo.

“Stipendi bassi e classi affollate nessuno ci ascolta”

Delusi nonostante il nuovo contratto. Quanti nodi irrisolti per chi sta in aula

Gaetano Passarelli, 49 anni, originario di Potenza, due figli, insegna a Bologna in un istituto tecnico. Il suo percorso è emblematico: supplenze subito dopo il diploma, la laurea e il dottorato di ricerca in Ingegneria elettrotecnica, la doppia abilitazione (docente di laboratorio e insegnante di fisica), dieci anni di precariato prima di ottenere la cattedra di ruolo. Ha quasi trent’anni di anzianità e uno stipendio di 1.580 euro, «più alto della media perché insegno da tanto». «Premetto: stare a scuola è un’avventura meravigliosa. Ma rimaniamo pagati poco rispetto ai colleghi europei, nonostante il recente aumento. E il nostro riconoscimento sociale è sceso a picco, con classi sempre più difficili da gestire. E poi ogni governo cambia le regole, dalla Maturità al reclutamento, senza ascoltare chi vive nella scuola. Pesantissima è la situazione dei precari. La collega dell’aula accanto, supplente, è considerata dagli alunni uguale a me: ma ha meno diritti. Mi aspetto stabilità per lei, stipendi adeguati per tutti. Vorrei insegnare in classi meno numerose, con più strumenti a disposizione: formazione, supporto di pedagogisti e psicologi, aiuti per far crescere professionalmente tutti gli insegnanti».

Partito Democratico

Assunzioni e nuovo contratto, ora più maestri e tempo pieno

Quattro miliardi investiti sulla scuola, 10 nell’edilizia. L’assunzione in tre anni di 132mila docenti, 80 mila con la Buona scuola. Ogni istituto ne ha avuti in media sette in più per potenziare la didattica. E in busta paga? Il contratto bloccato da 10 anni è stato firmato in extremis (con scadenza a fine anno) dalla ministra Fedeli: 96 euro lordi mensili in media di aumento da marzo. Confermati il bonus per i prof migliori (che passa da 200 a 130 milioni nel 2018, il resto torna nello stipendio di tutti) e la card di 500 euro. Infine concorsi nel 2018 per stabilizzare i precari. Non è una lista di impegni elettorali: il Pd punta sulle cose fatte con la Legge 107 per dare risposta agli insegnanti. Sulla mobilità Renzi fa autocritica: «L’algoritmo per i docenti del Sud non ha funzionato come avremmo voluto». Obiettivi? La crescita professionale degli insegnanti, più maestri nelle scuole per combattere la povertà educativa, meno burocrazia e più tempo pieno.

Liberi e Uguali

Stabilizzare tutti i precari, bonus merito da abolire

Gli insegnanti? «Eroi del nostro tempo», premette Leu. L’obiettivo principale è smantellare la riforma della Buona scuola targata Pd. Da qui parte il programma. Grasso ricorda che ci sono ancora 83mila precari. Che fare? «Stabilizzare tutti attraverso un piano pluriennale». E ancora: adeguare gli stipendi che, nonostante il rinnovo del contratto, «rimangono tra i più bassi in Europa»; cancellare il bonus- merito; offrire formazione «continua e di qualità». Nel programma non vengono indicate le risorse per attuare le proposte rivolte ai docenti. Mano tesa ai trasferiti con le immissioni in ruolo attuate nel 2016: «Occorre dare risposta alle vittime di un algoritmo impazzito». La proposta è di un percorso partecipato per “un’altra scuola” che contempli la gratuità degli studi, l’aumento del tempo pieno e l’estensione dell’obbligo scolastico dall’ultimo anno della materna (che si vuole per il 100% dei bimbi in età) all’ultimo delle superiori.

Movimento 5 Stelle

Basta chiamate dirette e stipendi a livello europeo

Per la scuola (e università) il M5S promette nel programma uno stanziamento aggiuntivo di 15 miliardi (senza dire dove prenderli). Di Maio lo ha spiegato a parte: «Eliminando gli sprechi, rilanciando il piano Cottarelli e incentivando il gettito fiscale». L’attacco è alla Legge 107: da abrogare. Il capitolo dedicato al personale accontenta tutti: insegnanti già in cattedra, supplenti, laureati e con il diploma magistrale. «Censire i precari», l’indicazione. Tra le promesse, un piano di assunzioni in base al fabbisogno delle scuole; stipendi adeguati alla media europea con abolizione della card e del bonus premiale (da restituire a tutti in busta paga); l’eliminazione della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi; il monitoraggio del percorso introdotto dal governo (e votato dal M5S) per l’accesso al ruolo: concorso, tre anni di formazione, tirocinio e supplenze prima dell’assunzione. Sulle scuole private: via i fondi, non alle materne.

Coalizione di Centro-Destra

Neoassunti su base regionale, più poteri ai presidi

Nel triennio 2009-2011 la Tremonti-Gelmini ha tagliato 8 miliardi di euro alla scuola: 87.400 cattedre e 44.500 posti per il personale Ata (amministrativi e bidelli) perduti con il centrodestra al governo. Ora il programma sulla scuola sta in una pagina e pochi punti che partono dalla «libertà di scelta delle famiglie nell’offerta educativa». Dunque fondi alle private. E poi abolizione delle “storture” della Buona scuola (non si precisa quali). Salvini invece twitta: «Sarà una delle prime leggi che cambieremo». E così Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: «Legge da asfaltare». Rispetto agli insegnanti la Lega propone una vecchia idea dei tempi di Bossi: il federalismo scolastico, con stipendi dei docenti legati a quelli dei funzionari regionali. I neoassunti saranno assegnati a una Regione, spiega Elena Centemero (Fi) che aggiunge: più poteri ai presidi nella chiamata dei docenti.

“Precaria in facoltà da dodici anni datemi un futuro”

La trafila infinita di chi aspira a entrare. L’incubo di tornare a casa a fine contratto

Alessandra Operamolla ha 40 anni ed è una chimica con un buon curriculum (un brevetto depositato) e dodici anni di precariato. Si è laureata all’Università di Bari, ha preso il dottorato di ricerca e per otto stagioni ha infilato una litania di collaborazioni, assegni di ricerca e contratti al Dipartimento di chimica e poi a Farmacia. «Per un periodo sono rimasta disoccupata, otto mesi senza reddito. Non esisteva ancora la Dis.coll., l’indennità mensile, e per rifinanziarmi sono andata a cercare una borsa di studio in Austria». La continua ricerca di denaro toglie tempo alla ricerca scientifica. «Adesso lavoro da sola a un progetto sulla cellulosa. Credo che tutti, a partire dai partiti, dovrebbero considerare i ricercatori come normali lavoratori, non sognatori che devono fare la fame per inseguire la loro passione. Abbiamo bisogno di tranquillità, e di poter progettare. Tra dieci mesi finisce il mio contratto di Tipo A, 1.800 euro netti al mese: li paga la Regione Puglia e per ora non ci sono fondi per un rinnovo di altri due anni. In Puglia siamo in 170 in questa situazione. Al prossimo ministro? Chiedo solo di aumentare i finanziamenti per la ricerca».

Partito Democratico

Altri diecimila ricercatori nei prossimi cinque anni

Gli ultimi due governi di centrosinistra nelle Leggi di bilancio ‘16 e ‘17 hanno iniziato a reinvestire sull’università. Con la Finanziaria 2017 sono stati reclutati 1.300 nuovi ricercatori (altri 300 negli enti di ricerca). Il Pd ha sostenuto il premio per i dipartimenti di eccellenza e le chiamate dall’estero per i docenti, ma sono state fermate le Cattedre Natta (500 assunzioni dirette degli atenei). Il Fondo Ffo nel 2017 è passato da 6,957 miliardi a 7,011. Niente tasse per gli studenti con redditi familiari fino a 13.000 euro. Rivalutate le borse di dottorato e cresciute le borse di studio: molti studenti idonei, però, ancora non la ricevono. Sono stati sbloccati gli scatti dei docenti. Il programma Pd prevede: 10mila ricercatori di Tipo B in più nei prossimi 5 anni, soppressione dei punti organico e un’Agenzia nazionale della ricerca. Replica a Napoli dello Human Technopole di Milano e piano per l’edilizia.

Liberi e Uguali

Via le tasse per gli studenti e aumentare le borse di studio

Per le università italiane Liberi e uguali chiede “l’obiettivo della gratuità”: abolizione delle tasse per gli studenti e potenziamento del diritto allo studio (in Italia solo il 10 per cento degli universitari hanno borse di studio). Leu chiede di far crescere il finanziamento ordinario del sistema negoziando con l’Unione europea un aumento di Pil “fuori dal patto di stabilità”: in cinque anni 20.000 nuovi ricercatori negli atenei e 10.000 negli Enti di ricerca. Ridefinire dalle fondamenta l’Agenzia di valutazione Anvur: “Autonomo dalla politica e con personalità inattaccabili”. Sulla valutazione si chiede una Conferenza nazionale: “Basta con la logica di competizione tra gli atenei”. Superare il numero chiuso nei corsi di laurea e “no” alla scadenza dell’Abilitazione scientifica. “Il 3+2 si può rivedere”. Bisogna tornare al ministero dell’Università e della ricerca (Murst) e nuovi fondi per la ricerca di base, anche umanistica.

Movimento 5 Stelle

Risorse maggiori per gli atenei con criteri diversi da oggi

Il programma per università e ricerca del M5S è il più esteso e articolato. Il Movimento intende aumentare la quota del Fondo ordinario, ma non indica di quanto. La “quota premiale” deve diventare aggiuntiva e non “a sottrazione”. Nel riparto delle risorse per ogni ateneo si dovrà tener conto del successo dei laureati nel mondo, del reclutamento di giovani ricercatori, della diminuzione dei docenti di ruolo improduttivi. Si prevedono “specifici finanziamenti” per gli atenei in zone depresse. Il programma M5S vuole reintrodurre il ricercatore a tempo indeterminato, obbligarlo ad attività didattiche e sopprimere i ricercatori di Tipo A e Tipo B e gli assegnisti di ricerca. Viene ipotizzata un’unica figura di docente (oggi sono due: associati e ordinari) e si indica la necessità di limitare i ruoli extra-accademici dei professori verificando lo svolgimento dei compiti didattici.

Coalizione di Centro-Destra

Ministero solo per l’università e azzeramento del precariato

Il Decreto Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione dell’ultimo governo di centrodestra del Paese, ha tagliato un miliardo e 441 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università, tra il 2009 e il 2013. La Legge Gelmini, approvata nel dicembre 2010, ha limitato gli incarichi di rettore (sei anni non rinnovabili), soppresso diversi corsi di laurea (alcuni pleonastici), avviato il taglio del 20 per cento delle cattedre universitarie e reso strutturale il ricercatore precario (assegnista rinnovato ogni anno e ricercatore di “Tipo B”, tre anni non rinnovabile). Oggi nei dieci punti del programma del centrodestra al punto 7 si legge: “Azzeramento progressivo del precariato”, quindi: “Rilancio dell’università per farla tornare piattaforma primaria della formazione”. Renato Brunetta ha dichiarato che università e ricerca devono avere un ministero separato dalla scuola.

Più studenti stranieri nelle Università italiane, nonostante l’inglese

Articolo pubblicato mercoledì 14 febbraio 2018 dal sito di University2Business.

Più studenti stranieri nelle Università italiane, nonostante l’inglese

L’Italia è una destinazione sempre più popolare tra gli studenti stranieri. Lo sostiene Uniplaces, piattaforma online per la ricerca di sistemazioni per studenti, che ha realizzato un’analisi dei propri dati constatando un aumento degli studenti internazionali nel nostro Paese, dove sono oggi presenti oltre 100 diverse nazionalità. E non si tratta di presenze per corsi estivi o Erasmus: parliamo di iscritti a corsi di laurea triennale o specialistica. E questo nonostante il processo di internazionalizzazione degli Atenei italiani non sia del tutto lineare, come il recente caso sullo stop ai corsi in inglese al Politecnico di Milano ha mostrato.

Precisiamo subito che l’indagine di Uniplaces,  presente in Italia da un paio di anni,  è da prendere con le pinze: la società ha analizzato solo i propri dati e offre quindi una fotografia parziale della situazione degli affitti agli studenti in Italia, ciò non toglie che vi siano spunti interessanti.

Sulla piattaforma Uniplaces, nel 2017, quasi il 90% delle prenotazioni in Italia sono state fatte da studenti internazionali, con un incremento del 48% rispetto al 2016. Chi sono questi studenti e cosa fanno in Italia?

Quello che ci dice Uniplaces è che sono rappresentate almeno 104 nazionalità, benchè ce ne siano 10 più popolari. Gli studenti spagnoli sono i primi, rappresentando l’11% di tutti gli studenti internazionali che hanno prenotato su questa piattaforma, seguiti dagli studenti francesi e tedeschi. Sette nazionalità su dieci provengono dall’Unione Europea, mentre la prima nazionalità extraeuropea è quella indiana.

Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare circa la presenza di studenti stranieri in Italia, e cioè che si tratti in prevalenza di soggiorni Erasmus o corsi estivi, la gran parte di questi studenti è qui per frequentare corsi di laurea triennali o specialistiche.

Quali sono i motivi che spingono gli studenti esteri a scegliere l’Italia?

Secondo Uniplaces si tratta di un insieme di fattori: confrontando la situazione con i paesi dell’Europa Centrale, o addirittura con il mercato americano, le rate universitarie più economiche, il costo della vita più conveniente e, naturalmente, il clima mite e la buona cucina rendono l’Italia una destinazione molto popolare tra gli studenti. Insomma, la qualità della vita.

Sarebbe bello se tra i motivi ci fosse anche la ‘qualità’ dell’Università. Che indubbiamente nella sostanza c’è, ma sotto diversi aspetti è ancora indietro. Per esempio, proprio sul fronte dell’internazionalizzazione.

L’UNIVERSITÀ ITALIANA E L’INGLESE

L’internazionalizzazione degli Atenei è stato da tempo inserito tra gli obiettivi delle Università dalla legge riforma 240 del 2010; internazionalizzazione che permetterebbe alle Università italiane di competere con le migliori al mondo, e che si persegue in diversi modi, tra cui il superamento delle barriere linguistiche con l’inserimento dei corsi in lingua straniera, in particolare con l’uso dell’inglese più diffuso. Da qui è nato il caso ‘Politecnico di Milano’ che nel 2012 aveva stabilito che dal 2014 tutti i corsi di laurea magistrale e i dottorati sarebbero stati in inglese, decisione che aveva aperto una diatriba soprattutto interna tra docenti che è stata portata fino all’esame prima del Tar e poi del Consiglio di Stato. Recentemente è intervenuta direttamente la Ministra Fedeli. Il sunto è che al Politecnico è stato impartito un contrordine: stop alla linea internazionale, per lo meno non così intesa, l’inglese non può mai sostituire l’italiano. Tutta la storia qui. 

Il processo di internazionalizzazione degli atenei italiani non andrebbe fermato, anche perché nonostante il trend di miglioramento riscontrato da Uniplaces, in realtà in uno scenario mondiale che vede il movimento di 5 milioni gli studenti universitari iscritti in un paese diverso da quello di origine (lo riporta questo articolo),  di cui l’80% frequenta l’università di un paese del G20, con gli Stati Uniti in testa, l’Italia raccoglie solo il 2%, come Spagna, Austria e Nuova Zelanda.

E’ inutile nasconderlo, gli studenti che vanno all’estero sono necessariamente attratti dai paesi di lingua inglese o le cui Università offrono programmi di lingua inglese: l’inglese è la lingua più diffusa al mondo, è la lingua del business, è la lingua che si parla in quasi tutti i contesti lavorativi multietnici, che siano aziende, organizzazioni no-profit, istituzioni, centri di riecrca. In parole povere, con l’inglese vai ovunque.

Come dicono gli autori dell’articolo sopra citato la lingua di Dante è stupenda e ha moltissimi estimatori (è la quarta più studiata globalmente), ma nell’istruzione universitaria e post-universitaria l’inglese è cruciale.

Nonostante l’inglese, altri indicatori confermano il trend positivo di iscrizioni di studenti stranieri in Università italiane, in particolare quelle milanesi che si stanno distinguendo per l’attenzione che dedicano all’attrazione di studenti internazionali.

Come riporta il Corriere della Sera, quasi tutti gli Atenei del capoluogo lombardo hanno migliorato il numero di iscritti grazie a borse di studio e sconti sulle rette, offerta dei corsi in inglese, sistemazione in campus con residenze: dalla giovane Humanitas che ha un corso di Medicina inglese frequentato da un 35 per cento di stranieri ( e prevede di arrivare al 43% il prossimo anno), fino a Bicocca, Bocconi e Politecnico che presentano i numeri più alti. Ma i dati crescono dappertutto, anche alla Statale, alla Cattolica, allo Iulm.

Ipus, Arssup, Unipolisi: le false ‘università’ che truffano gli studenti e spariscono nel nulla

Articolo di Alberto Marzocchi pubblicato martedì 13 febbraio 2018 dal sito di Business Insider Italia.

Ipus, Arssup, Unipolisi: le false ‘università’ che truffano gli studenti e spariscono nel nulla

Sette facoltà, 57 professori e 180 studenti, quasi tutti italiani, che si sono iscritti in pochissime settimane. Nel settembre del 2013 Ipus (Istituto privato universitario svizzero) apriva i battenti a Chiasso accompagnato dai grandi proclami del direttore generale, l’italiano Vincenzo Amore:

Da noi ci sono tantissimi ragazzi che seguono Scienze infermieristiche e Fisioterapia, perché in Italia c’è il numero chiuso e qui no. Al termine del percorso formativo, potranno conseguire la laurea negli atenei a noi associati”.

E cioè, da quanto si leggeva su sito e brochure, all’Universitatea din Pitești (Romania), all’Univêrza v Máriboru (Slovenia) e in una scuola privata austriaca, l’Alma Mater. Procedimento, questo, necessario per poter esibire un titolo di studio valido nell’Unione europea e poter svolgere la professione.

Peccato che, da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, le lezioni siano state sospese.

Non capivamo cosa stesse succedendo – ci racconta al telefono, da Madrid, un ex studente veronese di 26 anni di Ipus, Andrea L. – sembrava che il corso fosse stato bloccato, allo stesso tempo il rettore Giampiero Camurati cambiò scuola e passò all’Arssup (Associazione di ricerche scientifiche e studi universitari privati, ndre molti di noi lo seguirono. Fino a quel momento avevo frequentato più di un anno, mi mancavano tre esami e la tesi e non volevo perdere tutto quello che avevo fatto sin lì, soldi inclusi”. 

L’Ipus venne chiuso e il primo settembre del 2016 ne venne decretato il fallimento: il rettore e 14 dipendenti non ricevevano gli stipendi da mesi, per un importo di circa 100mila franchi svizzeri, a cui si sommavano altri debiti da 260mila franchi. Ma dietro c’era altro, come ci ha spiegato Ivan Paparelli, avvocato di Lugano:

L’istituto si fregiava del titolo di ‘università’ quando non lo era, e vantava convenzioni con scuole riconosciute dall’Unione europea e che potevano rilasciare le lauree. Ma non c’era nulla di vero”. 

La storia, però, non è finita con la chiusura della struttura, perché Amore ne ha aperta un’altra, a Disentis, nel Cantone dei Grigioni.

Gli studenti di Ipus si sono trovati a dover fare i conti col rischio di vedere azzerati i due anni di studio, costati la bellezza di circa 16mila euro. Così molti di loro si sono iscritti, lo scorso anno, a Unipolisi, nella cittadina a 260 chilometri da Milano.

È stato proposto loro il trasferimento – continua Paparelli – erano con le spalle al muro perché volevano salvare quanto fatto fin lì. Ma poi si sono accorti che la truffa continuava. Finché, a dicembre, la procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti ha posto i sigilli alla scuola”. 

Ora l’avvocato sta seguendo il caso di 40 ragazzi truffati da Ipus, quasi tutti italiani provenienti dalla Lombardia e dal Sud Italia, a cui si sono aggiunti altri 30 ex studenti di Unipolisi.

“Il direttore è stato arrestato insieme alla moglie ed è coinvolto nell’inchiesta anche il figlio”. I reati contestati sono appropriazione indebita, truffa e amministrazione infedele aggravata e per Amore è già arrivata una prima condanna, e cioè una multa da 10mila franchi svizzeri per aver affibbiato il termine “universitario” al suo istituto. 

Per Andrea L., però, pur non essendosi inscritto a Unipolisi, non è andata tanto meglio.

Arssup ha organizzato sei mesi di lezioni a Cantalupa, in provincia di Torino, fino a ottobre. Poi, senza che ci informassero di nulla, le lezioni sono state interrotte”.

La scuola vantava un apparentamento con l’Università di Malta, così ai ragazzi è stato detto che i corsi sarebbero proseguiti sull’isola del Mediterraneo.

La verità è che l’immatricolazione da Malta non è mai arrivata. Io mi sono stufato e me ne sono andato, perdendo 4mila euro. Ora frequento fisioterapia a Madrid. Alcuni miei ex compagni hanno chiesto i soldi indietro, ma nessuno ha dato loro una risposta”.

La storia di Andrea, passato da Ipus ad Arssup, è uguale a quella di tanti altri studenti truffati.

È così. Qui in Spagna non mi hanno riconosciuto gli esami sostenuti in Svizzera e di fatto ho perso un anno, oltre a parecchio denaro. La cosa incredibile è che anche i professori sono caduti nella trappola. Erano bravi e preparati e non c’era nulla che ci indicasse che quella fosse una truffa”. 

Che qualcosa non andasse, però, lo aveva capito il sindaco di Cantalupa, Faustino Bello:

I dirigenti di Arssup mi sembravano poco seri. Erano carenti sia sul piano organizzativo sia su quello promozionale. Abbiamo messo a disposizione il nostro centro congressi ma ci devono ancora pagare. Sono spariti. Con noi hanno chiuso”.

In Ticino ci sono stati i casi di altre “scuole”, come l’Issea (Istituto superiore di studi di economia aziendale), che ha perso il titolo di “università” e i cui vertici intendono rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e l’EurAka di Lugano. A Milano, l’ultimo caso è stato quello del centro studi “Queen”. Come riportato dal Corriere della Sera31 ragazzi lasciati a casa dall’oggi al domani, senza spiegazioni, dopo aver pagato una retta di circa 10mila euro. Tutte vittime, inconsapevoli, dell’avidità di chi gioca coi sogni dei giovani. 

Nicola Bellomo (Politecnico di Torino) e Maria Pia Abbracchio (Università Statale di Milano) – La ricerca scientifica dimenticata dai partiti

Articolo pubblicato mercoledì 7 febbraio 2018 dal Corriere della Sera.

La ricerca scientifica dimenticata dai partiti

Serve un’Agenzia nazionale che valuti la qualità dei progetti

Caro direttore, è sorprendente che finora la campagna elettorale in Italia non abbia posto l’accento sulla ricerca scientifica, considerata evidentemente da tutti i partiti come un argomento trascurabile. Eppure investire in ricerca è una delle strade maestre per far ripartire l’economia e l’innovazione nel Paese.

Lo ha capito molto bene il presidente francese Emmanuel Macron, che dal giorno del suo insediamento ha mostrato uno spiccato interesse verso la scienza, in particolare verso gli investimenti nei settori dell’intelligenza artificiale e delle misure contro il cambiamento climatico. Lo ha capito ancora di più Angela Merkel, che grazie anche al suo retroterra da fisico ha ben chiaro che la competizione internazionale si gioca sul terreno della conoscenza. Per questo ha dichiarato di voler portare l’investimento in ricerca dal 3 al 3,5% del Prodotto interno lordo, lanciandosi all’inseguimento di Israele e Corea del Sud (4,5%), Svizzera, Giappone, Svezia e Austria (dal 3 al 3,5%).

L’Italia stagna da anni intorno ad un investimento in ricerca dell’1,2-1,3% sul Pil, in compagnia di Spagna, Paesi balcanici e dell’Est europeo, e ben staccata da Francia, Gran Bretagna e Nord Europa. Siamo quindi lontani sia dalla media del finanziamento Ue del 2%, che dalla media dei Paesi Ocse del 2,4%, e a meno della metà del valore minimo del 3% consigliato dalla Commissione europea per assicurare la crescita e la creazione di un meccanismo virtuoso di indotti positivi.

Non va meglio se consideriamo il numero dei ricercatori italiani rispetto agli altri Paesi, anche limitandoci a quelli più vicini. Con 4,9 ricercatori ogni mille lavoratori, il nostro Paese ne ha poco meno della metà della media dei Paesi dell’Ocse (8,2). Siamo anche gli ultimi in Europa riguardo alla percentuale di laureati tra i giovani fra i 25 e i 34 anni: solo il 24%.

È ora quindi di prendere sul serio il nostro deficit nel campo della ricerca e dell’istruzione superiore e farne un punto qualificante nei programmi elettorali dei partiti. Negli ultimi mesi, un segnale incoraggiante è arrivato dal finanziamento alla ricerca di base con il bando Prin (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) del Miur, che per la prima volta si è attestato sui 400 milioni di euro, seguito dal finanziamento dei dipartimenti universitari valutati come più meritevoli. Ma si tratta ancora di interventi estemporanei che vanno resi costanti e sistematici, inseriti in una programmazione nazionale che porti molto rapidamente l’Italia a investire in ricerca e sviluppo almeno il 2-2,5% del Pil, creando anche le opportune facilitazioni ai privati per aumentare il loro contributo, in Italia particolarmente basso.

Tutti i centri di ricerca devono prima di tutto poter contare su una dotazione adeguata per sviluppare le loro linee di ricerca, che spesso riescono a essere ancora competitive in ambito internazionale grazie all’impegno quasi volontario dei giovani che ancora credono nel loro lavoro e che, peraltro, vengono pagati circa la metà dei loro colleghi all’estero.

Garantita la ricerca diffusa, bisogna poi aumentare il finanziamento competitivo – quindi attraverso bandi – che nel nostro Paese rappresenta ancora una percentuale infima rispetto al finanziamento ordinario alle Università e agli Enti di ricerca, che a malapena paga gli stipendi del personale.

Anche per questo, da anni il Gruppo 2003 per la ricerca invoca la creazione di una Agenzia nazionale che valuti in modo indipendente la qualità dei progetti e li finanzi di conseguenza. Non c’è Paese sviluppato che non abbia una o più agenzie di questo tipo, capaci di far crescere sempre più la competitività internazionale dei loro gruppi di ricerca.

Solo potenziando istruzione universitaria, scienza e tecnologia, e promuovendo il trasferimento delle scoperte di base alle aziende del Paese, l’Italia può ambire a mantenere il suo status di Paese sviluppato e giocare un ruolo nella nuova «economia della conoscenza» che sta plasmando il mondo di domani.

Nicola Bellomo è Presidente di Gruppo 2003 per la ricerca

Maria Pia Abbracchio è Vicepresidente di Gruppo 2003 per la ricerca

Corsi in inglese, l’università è ostaggio di chi ha paura di innovare

Articolo di Piercamillo Falasca* e Vincenzo Giannico* pubblicato venerdì 2 febbraio 2018 dal sito di Linkiesta.

Corsi in inglese, l’università è ostaggio di chi ha paura di innovare

Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Politecnico di Milano, che voleva istituire corsi solo in lingua inglese per attirare più studenti da tutto il mondo. Una scelta sbagliata, che rischia di lasciarci indietro

Sono oltre 5 milioni gli studenti universitari iscritti in un paese diverso da quello di origine (fonti OCSE, erano appena 800mila nel 1975). Oltre l’80 per cento di questi studenti internazionali frequenta l’università di un paese del G20, con gli Stati Uniti. Con un modesto 2 per cento, l’Italia ha la stessa quota di Spagna, Austria e Nuova Zelanda. Troppo poco per un paese che vuol riconquistare la frontiera dell’innovazione e del talento.

Una delle cause del ritardo è inevitabilmente causata dalla barriera linguistica: gli studenti sono molto attratti da paesi di lingua inglese o, se provengono da realtà francofone, dalla Francia. Un ostacolo che paesi come Germania, Olanda o Svizzera aggirano offrendo eccellenti programmi di lingua inglese, mentre nel nostro Paese questi sono stati organizzati poco e spesso male. Intendiamoci: la lingua di Dante è stupenda e ha moltissimi estimatori (è la quarta più studiata globalmente), ma nell’istruzione universitaria e post-universitaria l’inglese è cruciale. Se vogliamo che uno studente ungherese o cinese scelga l’Italia, occorre un’offerta formativa anche in inglese. Poi costoro, in molti casi, impareranno anche l’italiano e se ne innamoreranno.

A tal proposito, appare incomprensibile la decisione della Corte Costituzionale di dichiarare illegittima una norma della legge Gelmini sulle strategie di internazionalizzazione dell’università italiana. In sintesi, la Corte ha stabilito che è incostituzionale che un’università italiana decida di fornire corsi di studio interamente in una lingua diversa dall’italiano perché – sostiene la Consulta – estrometterebbe la lingua ufficiale della Repubblica (art. 6 Cost), imporrebbe la conoscenza di una lingua non italiana per poter studiare e accedere ai corsi di studio e quindi violerebbe il principio dell’eguaglianza (artt. 3 e 34), potrebbe essere lesiva della libertà d’insegnamento poiché sottrarrebbe la modalità con cui un insegnante dovrebbe comunicare con gli studenti (art. 33). Sulla base di questa sentenza, il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Politecnico sottolineando quindi l’illegittimità della delibera del 21 maggio 2012 del Senato accademico del Politecnico di Milano, nella parte in cui ha previsto che «interi corsi di studio siano erogati esclusivamente in una lingua diversa dall’italiano».

La vicenda scatenante riguarda il Politecnico di Milano. Un rettore innovatore, Giovanni Azzone, voleva rendere l’ateneo meneghino un polo di attrazione mondiale, tanto che da settembre 2014 lauree magistrali e PhD sarebbero dovuti essere solo in inglese. Migliaia di domande di iscrizione dai vari angoli del pianeta, ma la reazione sindacal-corporativa di 150 docenti (forse più preoccupati per se stessi che per la difesa del sacro idioma nostrano) è stata il classico ricorso al TAR, che a maggio 2013 ha bocciato la decisione del Politecnico. Inutile citare l’incertezza procurata a centinaia di giovani già pronti con la valigia e il biglietto per l’Italia. Azzone si è dunque appellato al Consiglio di Stato, che però ha sollevato la questione di costituzionalità. E, a distanza di qualche anno, è giunta la mazzata della sentenza della Corte. Conseguenze? Costi e duplicazioni insostenibili (lo stesso corso dovrebbe essere fornito anche in italiano, per essere tenuto in inglese), oppure una riduzione significativa dell’offerta formativa in inglese.

La bocciatura del Consiglio di Stato rischia di ripercuotersi su tutto il sistema universitario italiano, con richieste – a questo punto legittime – da parte di docenti di altri atenei italiani che vorranno l’adeguamento del doppio binario linguistico dove presenti corsi di studio solo in inglese. Una reazione a catena che può creare non pochi problemi organizzativi, di budget e offerta formativa. L’adeguamento imposto dalla Consulta sarà sicuramente oggetto di confronto fra i vari rettori italiani (la Crui) e il MIUR, come dichiarato dall’attuale rettore del PoliMi, Ferruccio Resta, al Corriere della Sera, poiché oltre al difficile automatismo, non c’è nessuna volontà di duplicare i corsi, con l’obiettivo di “garantire una formazione di qualità in un contesto anche multietnico per tutti gli studenti”.

Anche in questo caso, c’è bisogno di più Europa. Le università italiane, fin dal Medioevo, sono un simbolo di autonomia dal potere. Tutelare la libertà di insegnamento dei singoli atenei, lasciarli competere con le migliori università mondiali per i migliori studenti, è obiettivo da non sacrificare in nome di un insensato sciovinismo linguistico. L’italiano va promosso nel mondo e studiato meglio a scuola e all’università, ma senza chiudere le frontiere ad altre lingue. Nel contesto dell’Unione Europea, l’inglese è una lingua ufficiale (e lo sarà anche dopo la Brexit, grazie alla presenza dell’Irlanda): sarà forse necessario un intervento in sede europea per aprire definitivamente all’insegnamento in lingua inglese nei corsi universitari e post-universitari. L’italiano si difende facendo dell’Italia un posto vivo, frequentato, ambito, non attraverso una insensata chiusura burocratica mascherata da diritto costituzionale.

* candidati alle elezioni politiche per +Europa con Emma Bonino

Tasse universitarie, l’Italia terza più cara d’Europa. Poche borse di studio e nessun aiuto per affitto e bollette

Articolo di Luisiana Gaita pubblicato lunedì 15 gennaio 2018 sul sito di il Fatto Quotidiano.

Tasse universitarie, l’Italia terza più cara d’Europa. Poche borse di studio e nessun aiuto per affitto e bollette

Il leader di LeU Grasso ha proposto di abolirle. Un’idea giudicata “trumpiana” da Calenda e criticata dal Pd e dall’ex ministro Vincenzo Visco. Per capire se e quale sia il sistema di sostegno per gli studenti, però, bisogna considerare anche altre esenzioni e agevolazioni. E guardando all’estero la situazione è molto diversa dalla nostra: in Nuova Zelanda, ad esempio, ci sono contributi per le spese di alloggio e in Germania, dove gli studi sono gratis, l’iscrizione all’università è legata solo al pagamento di un abbonamento ai mezzi pubblici

In Italia non solo le tasse universitarie sono tra le più alte d’Europa, ma il nostro Paese non è neppure fra quelli che sostengono maggiormente l’istruzione dei giovani. Tra gli Stati dove l’università è economicamente più accessibile ci sono sicuramente Germania, Danimarca, Finlandia, Svezia, Scozia e Norvegia. Le rette più alte sono quelle della Gran Bretagna, anche se nel Regno Unito gli studenti possono iniziare a pagare dopo la laurea. La recente proposta del presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso di abolire le tasse è stata criticata in primis dal Pd, ma anche dall’ex ministro Vincenzo Visco, secondo il quale in Italia “sono così basse che non è che abolendole succeda molto” e dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda che l’ha definita una misura “trumpiana” che sarebbe un “supporto fondamentale alla parte più ricca del Paese”, perché “oggi sono già esentati gli studenti con reddito basso”. Ma è davvero così? “La misura – ha spiegato intanto Grasso – costa 1,6 miliardi: avere un’università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei significa credere davvero sui giovani, non a parole ma con fatti concreti”. Da LeU, a difendere la proposta di Grasso, sono stati Nicola Fratoianni e Roberto Speranza. Ma rispetto agli altri Paesi europei, in Italia si paga davvero di più per frequentare l’università? Cosa succede altrove? Per avere un’idea del sostegno che si dà (o non si dà) agli studenti italiani e ai loro genitori, anche in confronto ad altre realtà, bisogna tenere presenti diversi fattori. Non solo i costi di iscrizione all’Università, ma anche il sistema di esenzioni e le borse di studio.

Le tasse universitarie in Italia – Secondo l’Ocse negli ultimi dieci anni le tasse universitarie sono aumentate in Italia del 60%, facendo piazzare il Paese al terzo posto della classifica dei più cari d’Europa, dopo Olanda e Regno Unito. D’altro canto, a fine anno, l’Unione degli Universitari ha denunciato nel dossier Dieci anni sulle nostre spalle che mentre in Italia le borse di studio sono poche e insufficienti a sostenere i costi da affrontare, la tassazione media che pesa sugli studenti universitari è aumentata di 473,58 euro negli ultimi due lustri. Una prima grande differenza con diversi Paesi è che in Italia le rette le pagano sia gli studenti europei sia quelli extracomunitari. Nell’università pubblica le rette partono dai circa 500 euro per arrivare a superare i duemila euro, a seconda del reddito Isee della famiglia e dell’ateneo. Si segue quindi un sistema progressivo con il quale, già oggi, chi ha un reddito basso non paga, mentre la retta aumenta in modo proporzionale al reddito.

Chi ha pagato, chi pagherà – Nel 2016 sono stati quasi un milione e 700mila gli studenti che si sono iscritti a corsi di laurea, dottorati, master e specializzazioni, oltre un milione e mezzo solo ai corsi di laurea. E di questo milione e mezzo quelli esonerati totalmente dal pagamento delle tasse sono stati 176mila, mentre in 134mila hanno ottenuto uno ‘sconto’. Nell’ultima legge di Stabilità, però, il governo Gentiloni ha inserito il cosiddetto Student Act che esonera dal pagamento delle tasse tutti gli studenti le cui famiglie hanno un Isee inferiore a 13mila euro. Diverse università hanno aumentato il limite stabilito dal governo, non facendo pagare le tasse agli studenti con Isee inferiore a 15mila euro. L’Istat stima che questa novità ridurrà il costo delle tasse del 39,3%. Secondo un’analisi del Sole 24 Ore la decontribuzione per il 2017/2018 porterà a quasi 600mila gli studenti che non pagheranno tasse e a 500mila quelli che beneficiano dell’esenzione parziale. Questo significa che oggi un terzo degli studenti non paga le tasse universitarie e un terzo paga importi agevolati. A chi gioverebbe quindi l’abolizione? In Italia sborsano la retta intera gli studenti con alle spalle famiglie che presentano un reddito Isee superiore a 30mila euro. Quindi se è vero che quelle meno abbienti sono già esonerate, è anche vero che quelli che pagano non sono necessariamente ‘figli dei ricchi’ che, tra l’altro, frequentano sempre più spesso università private, anche straniere. La differenza potrebbero invece sentirla le famiglie che hanno un reddito medio e sul cui budget le rette universitarie influiscono eccome.

Il confronto con i Paesi europei – Ma per fare un confronto con gli altri Paesi è necessario considerare tutta una serie di agevolazioni che fanno sistema altrove e che da noi sono ancora una chimera. Si parte sì dalle tasse, per arrivare a borse di studio, sostegno per gli studenti che vivono da soli e ad altri tipi di agevolazione. Basti pensare che in Italia solo il 9-10% degli universitari percepisce una borsa di studio a fronte del 25% in Germania, 30% in Spagna e del 40% in Francia. Secondo un rapporto Eurydice per la Commissione europea i Paesi europei dove non esistono, o quasi, tasse universitarie sono Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Scozia, Grecia, Malta e Cipro. In Germania e Austria sono state prima introdotte e poi abolite. In Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia gli studi sono gratuiti solo per gli europei: in Austria la tassa annuale per gli studenti che non provengono da un Paese dell’Ue va dai 600 ai 1.500 euro, in Danimarca dai 6mila a 16mila euro, mentre in Finlandia è stata di recente introdotta una tassa di 1.500 euro, ma solo per i corsi di laurea in inglese. Decisamente più alte, invece, le tasse in Italia e in Paesi come Spagna, Irlanda, Olanda, Portogallo e Svizzera. In diverse realtà, poi, c’è un legame tra le tasse universitarie e il merito: accade, ad esempio, in Spagna come in Austria, in Polonia come in Slovacchia.

Danimarca, Finlandia, Scozia e Germania tra i più virtuosi – Come ricordato da FQ Millennium Danimarca, Germania, Finlandia e Norvegia sono quattro Paesi accomunati da due fattori: non ci sono tasse universitarie ed esiste un ottimo sistema di erogazione delle borse di studio. Gli studenti a tempo pieno residenti in Danimarca ricevono un aiuto economico a cadenza settimanale o mensile per l’intera durata della loro carriera accademica. Per gli universitari che vivono a casa dei genitori il valore delle borse di studio va dai 124 euro (se il reddito familiare supera i 76.900 euro) ai 346 euro (se il reddito è pari o inferiore ai 45mila euro). Gli studenti che vivono da soli, invece, possono ricevere fino a 804 euro al mese. Il 38% degli studenti danesi utilizza poi i prestiti al 4% d’interesse: possono arrivare a 411 euro al mese e può beneficiarne anche chi già ha ottenuto una borsa di studio. In Finlandia, invece, tra prestito statale (3.600 euro) e borsa di studio ogni studente ha a disposizione ogni anno la somma massima di 11.260 euro. Nel caso in cui abbia un reddito inferiore agli 11.850 euro, lo Stato garantisce allo studente un aiuto per la copertura di parte delle spese di affitto: 201 euro al mese per 9 mesi. E anche in Finlandia funziona molto bene il sistema dei prestiti da parte del governo: 400 euro al mese, che si iniziano a restituire generalmente entro due anni dalla laurea. In Scozia, l’agenzia governativa Student Awards Agency for Scotland paga agli studenti europei l’intera retta universitaria a patto che gli esami vengano superati nei tempi previsti.

In Germania e Norvegia si pagano (scontati) solo i servizi – In Germania il sistema non è neppure paragonabile al nostro. Non esiste alcuna tassa, né per gli studenti europei, né per quelli che arrivano da altri Paesi extra Ue. L’iscrizione all’università è legata solo al pagamento di un abbonamento ai mezzi pubblici: si tratta di una somma tra i 100 e i 200 euro a semestre che copre i costi di trasporto. Ma c’è di più. Il programma di sostegno BAföG garantisce agli universitari under 30 un sussidio individuale che può arrivare fino a 735 euro al mese per un anno composto per il 50% di una borsa di studio erogata in base al merito (la cui entità va dai 300 ai 1.035 euro, dipende dal reddito e dalla situazione familiare) e per l’altra metà di un prestito garantito dallo Stato, che riguarda i costi non coperti dal BAföG. Si tratta di 300 euro mensili per un massimo di 7.200 euro in 2 anni, che vanno restituiti a partire dal 4° anno dopo la concessione in rate da 120 euro. A questo c’è da aggiungere che lo Stato interviene per assicurare l’alloggio a tutti i cittadini europei residenti in Germania sotto una certa soglia di reddito, che siano studenti o no. Anche in Norvegia gli studenti sono tenuti a pagare solo una somma modesta (fra i 30 e i 60 euro a semestre) che copre i costi di carta, assistenza sanitaria, trasporti gratuiti e garantisce diversi sconti per attività ed eventi culturali.

Gran Bretagna: tasse alte, ma si paga dopo la laurea – In Scozia la triennale è gratuita e per la magistrale si arriva a 5mila euro l’anno. Nel resto del Regno Unito, invece, gli studenti devono sborsare fino agli 11mila euro l’anno per il conseguimento della triennale, ancora di più se si tratta di cittadini non europei. Le tasse sono state aumentate nel 2012, con la revisione del sistema di istruzione. Le tasse, però, possono essere pagate dopo la laurea, a patto che si rispettino i tempi previsti. C’è da dire che già nel 2016 l’organizzazione no profit Sutton Trust aveva segnalato un debito medio record di 44.500 sterline per i laureati inglesi del 2015. Non è un caso se di recente Jo Johnson, ministro dell’Università e della ricerca, ha annunciato che agli studenti saranno offerti corsi universitari di due anni, ad un costo ridotto rispetto a quello triennale. Molto alte le tasse anche in Olanda: gli studenti europei arrivano a pagare anche più di 2mila euro, mentre i non europei sborsano fino a 12mila euro. Relativamente alte anche le tasse spagnole: le triennali costano dai 700 ai 2mila euro all’anno, mentre per la magistrale si può arrivare fino a 4mila euro l’anno.

Francia, tasse basse pagate da tutti – In Francia le tasse le pagano tutti, ma rispetto ad altri Paesi dell’Ue sono piuttosto basse. La laurea magistrale costa 181 euro all’anno, un master 250 euro e un dottorato 380 euro. Fanno eccezione le università di medicina e i politecnici. Nelle prime si può arrivare a pagare 450 euro all’anno, nei prestigiosi politecnici 596 euro. Per i redditi più bassi le tasse di abbassano di circa 30 euro. Anche in Francia, però, lo Stato aiuta gli studenti studente con l’alloggio: si possono ricevere dai 115 ai 200 euro al mese.

Negli Stati Uniti milioni di famiglie indebitate – Dando uno sguardo al di fuori dei confini europei, è significativo quanto accade negli Stati Uniti. Come in Gran Bretagna, anche negli Usa iscriversi all’università rischia sempre più di essere un lusso. Sono 44 milioni gli americani titolari di prestiti contratti proprio per accedere agli atenei. Si tratta del 13% della popolazione. Le rette delle università pubbliche per l’anno accademico 2016-2017 ammontavano in media a circa 20mila dollari, il 2,6% in più rispetto all’anno precedente.

Nuova Zelanda, il paradiso – In Nuova Zelanda non solo lo Stato paga le tasse universitarie, ma non chiede neppure il rimborso. A garantire questo tipo di sostegno è lo Student Allowance, il programma del ministero dello Sviluppo sociale che prevede un finanziamento statale di 380 dollari a settimana a fondo perduto. Può farne domanda chi studia full time dai 18 ai 65 anni, ma anche chi ha tra i 16 e i 17 anni con un figlio a carico e un partner. Ma il governo della Nuova Zelanda mette a disposizione fondi anche per i giovani con figli a carico che vivono con i genitori o che non abitano con loro e non ricevono nessun aiuto economico. E per affitto e bollette c’è lo Youth Service: 50 dollari a settimana.

Solo Regno Unito e Olanda più care dell’Italia ma il vero nodo è la qualità della formazione

Articolo di Francesco Pacifico pubblicato lunedì 8 gennaio 2018 da Il Mattino Napoli.

Solo Regno Unito e Olanda più care dell’Italia ma il vero nodo è la qualità della formazione

Sulla carta studiare in Italia è costosissimo. A maggior ragione se si guarda alla difficoltà di strappare una borsa di studio (la prende uno studente su cinque) o ai servizi e alle strutture negli atenei della Penisola. L’Ocse ha calcolato che nel Belpaese studenti e famiglie pagano per seguire i corsi e fare gli esami l’equivalente di 1.600 euro all’anno. Conti più salati soltanto per i loro omologhi in Regno Unito (9.019) e Olanda (2.300). In seconda fascia ci sono Svizzera, Belgio, Francia e Austria le rette oscillano tra i 400 e i mille euro. Totalmente gratuito, sempre secondo l’organismo di Parigi, l’accesso nelle università di Norvegia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Turchia, Repubblica Slovacca, Slovenia, Estonia e Ungheria. Proprio come ieri ha proposto il leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso.

Questo sulla carta, perché in teoria un terzo degli studenti italiani – circa 550mila – rientra nello «Student act» entrato in vigore dall’anno accademico in corso: l’esonero totale sulle tasse per chi presenta un reddito Isee di 13mila euro, e che dal secondo anno va mantenuto in base alla media degli esami. Non mancano poi sconti per le fasce di reddito superiori (ma il tetto annuo non può superare il 7 per cento della quota Isee eccedente i 13mila euro), legati alla frequenza e al merito. Senza contare che in nome della progressività l’università di Firenze ha inserito 73 scaglioni di reddito per calcolare le tasse, il Politecnico di Torino 75, l’università di Catania 40, quello senese ben 90.

Lo Student act ha invertito molto i costi nel sistema accademico italiano. La Sapienza, per esempio, ha reso noto di «aver tagliato le tasse universitarie per 42.000 studenti», con una «manovra da più di due milioni di euro che favorisce i redditi più bassi e premia il merito». Infatti l’Udu (l’Unione degli universitari) ha calcolato che nell’ultimo decennio le matricole hanno pagato 500 euro in più di quanto accadeva negli anni precedenti alla crisi. «Nelle sole università statali il gettito complessivo della contribuzione a livello nazionale è passato da circa 1 miliardo e 200 milioni a 1 miliardo e 600 milioni: 400 milioni in più, spillati agli studenti per coprire la progressiva diminuzione dei finanziamenti statali per le università».

Tra i corsi più cari – come ha calcolato il Sole24Ore – ci sono medicina a Pavia, odontoiatria a Bologna, scienze della formazione a Milano-Bicocca, tutti quanti con rette intorno ai 4mila euro. Sul lato opposto della classifica spiccano per convenienza la Gabriele D’Annunzio di Chieti, con una retta da 1.050 euro all’anno, l’Orientale di Napoli con i suoi 1.105 euro annui e i corsi di area storico-sociale di Lecce. Accanto alla retta vanno considerate le tasse regionali e i bolli, che in media non costano mai sotto i 300 o i 400 euro.

Secondo Francesco Sylos Labini, «se si volessero azzerare in un colpo solo le tasse universitarie, sarebbero necessari almeno 1,8 miliardi di euro pur di mantenere il finanziamento del sistema ai livelli attuali». L’astrofisico e uno degli animatori del Roars (la rete dei ricercatori italiani) è stato suo malgrado uno degli ispiratori della proposta lanciata da Pietro Grasso di azzerare le tasse universitarie. Quelli di Liberi e Uguali si sono rifatti alle sue proposte scritte per l’assemblea del Brancaccio. Nelle quali, però, si chiedeva più progressività sulle rette per venire incontro agli studenti più poveri. «Perché l’Italia, dopo Olanda e Gran Bretagna – ci spiega Sylos Labini è il Paese in Europa con le tasse più alte. Il tutto in un sistema che, con i 6 miliardi complessivi di risorse, vale la metà di quello francese e un terzo di quello tedesco. E non dimentichiamo che dall’introduzione della legge 133 del 2008 c’è stata una riduzione del 20% dei finanziamenti». In quest’ottica l’idea del presidente del Senato sembra irrealizzabile. «A meno che – conclude l’astrofisico – un governo non abbia una decina di miliardi per l’università. In quel caso le cose cambiano».

Rette salate per una formazione non sempre di qualità, se si guarda al fatto che soltanto due atenei italiani sono entrati presenti tra le duecento migliori realtà catalogate dalla World University Rankings, la classifica della rivista inglese Times Higher Education. Cioè parliamo di eccellenza come il Sant’Anna e la Scuola Normale di Pisa, ma rispettivamente ferme alla 155esima e alla 184esima posizione. E senza dimenticare un livello di laureati molto più basso rispetto alla media europea (24,5% contro 37%) e le difficoltà di accesso al mondo del lavoro da parte di chi ha concluso il suo corso di studi.

Eppoi c’è da scontare il gap negli strumenti messi a disposizione dei propri iscritti da parte degli atenei. L’Italia è fanalino di coda per borse di studio, quasi totalmente sconosciute nel Meridione. In un suo ultimo rapporto l’agenzia Anvur ha denunciato che soltanto uno studente su cinque ne usufruisce. Più in generale «circa l’80% degli iscritti non riceve alcun finanziamento o sostegno per le tasse universitarie». E la cosa colpisce non poco i 600mila fuorisede italiani. Federconsumatori ha calcolato che tra rette, affitti di una stanza, le utenze e i libri le famiglie italiane spendono tra i 7.944 euro annui (se i figli dormono in una doppia) e i 9.415 euro (nel caso di una singola). Chi invece ha i figli che studiano a casa, investe per questa voce del bilancio familiare tra 1.425 e i 1.669 euro.

Raffaele Simone – Senza giovani perde il paese

Articolo pubblicato domenica 26 novembre 2017 da la Repubblica.

Senza giovani perde il paese

Dall’Italia si va via volentieri, soprattutto da ragazzi. È indizio di una catena di flop e di indifferenza al futuro

Chi dice che l’immigrazione servirà a ripopolare un Paese in cui i bambini non nascono più, ignora l’altra faccia della medaglia. Il calo della popolazione infatti non si deve solo a scarsità di nascite, ma anche a un’emigrazione di italiani che dura da anni ed è ormai una fuga. Dalle stime del Dossier statistico immigrazione 2017 del centro Idos e Confronti, per esempio, risulta che il nostro è un Paese di emigrazione più che di immigrazione: gli italiani che hanno preso residenza all’estero sono stati 102.000 nel 2015 e 114.000 nel 2016, i rientri meno di 30.000 all’anno.

Una ripresa dell’emigrazione tradizionale? Non proprio. Fino agli anni Sessanta gli italiani che emigravano avevano istruzione modesta o nulla e aspiravano a lavori primari: il bracciante, il muratore, il cuoco o il sarto. Ora è diverso. La maggior parte sono giovani con titoli di studio importanti. Nel 2002, tra gli italiani più che venticinquenni in uscita, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e 1’11,9% la laurea. Dieci anni dopo (2013) l’Istat ha registrato un’impennata: il 34,6% aveva la licenza media, il 34,8% il diploma e il 30,0% la laurea, sicché si stima che nel 2016, sui 114.000 italiani emigrati, i diplomati fossero 39.000 e i laureati 34.000. Perdere (o indurre alla fuga) ogni anno settantamila persone con qualifiche elevate è più o meno come invitare all’evasione fiscale. Le cifre sono per difetto, dato che spesso le iscrizioni all’Aire (il registro degli italiani all’estero) sono fatte in ritardo o eluse. Secondo il centro Idos i valori andrebbero moltiplicati per tre. Si tratterebbe di circa 300.000 persone ogni anno: come se ogni 365 giorni si svuotasse una città come Bologna o Venezia, o due volte Cagliari.

Il Centro studi Confindustria ha fatto il conto economico della grande fuga. Nel solo 2015 il Paese ha perso in capitale umano un valore di circa 8,4 miliardi. A ciò va sommata la perdita costituita dalla spesa pubblica necessaria per formare questi giovani (dalla scuola primaria all’università), valutata 5,6 miliardi. Il totale sale così a 14 miliardi l’anno, quasi un punto di Pil. Guardando le cose dall’altro lato, i Paesi in cui gli italiani si stabiliscono (in Europa, anzitutto Germania e Regno Unito; poi Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Svizzera, e perfino Repubblica Ceca) ricevono dal nostro spettacolari regali senza contraccambio: un prezioso capitale umano, un massiccio risparmio di spesa e un patrimonio di know-how innovativo.

Almeno tre ministri dovrebbero battersi il petto: quello dell’Istruzione, quello del Lavoro e quello dello Sviluppo economico, oltre al premier. Invece, silenzio di tomba. Eppure i dati sono indizio di una catena di flop: dell’istruzione superiore e dell’università, delle politiche del lavoro dei giovani e degli incentivi alle imprese. E in sostanza, l’emblema dell’indifferenza al futuro del Paese.

L’Italia è un Paese da cui si fugge volentieri, soprattutto da giovani. Siamo i soli, nell’Europa comunitaria, ad avere questa tendenza. Perché i giovani stanno male e, se li interroghi, rispondono che se ne andranno all’estero? Dipendenza culturale? Ricerca del cool? O qualcosa di più serio? Si fugge dal poco lavoro, dal clima politico intossicato, dalla corruzione e il clientelismo, dalla difficoltà di vedere riconosciuti i meriti. I media raccontano storie di ragazzi e ragazze che all’estero hanno trovato senza difficoltà quel che in Italia non c’era o era un miraggio: incarichi nel privato, creazione di startup, posti in università e centri di ricerca.

Siamo così tornati, come nel dopoguerra, a essere uno dei primi Paesi di emigrazione del pianeta (dati Ocse): ottavi nella triste graduatoria in cui il primo posto è della Cina, seguita da Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è dopo il Messico e prima di Vietnam e Afghanistan, e in 10 anni è salita di 5 posti nella poco onorevole lista. Non solo dall’Italia si fugge, ma lo si fa sempre più. Un governo sensibile ai giovani farebbe bene a trattare il problema come urgente e studiare misure di contrasto.