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Troppe tasse e nessun finanziamento, l’università italiana nel mirino Ue: “Difficile studiare”

Articolo di Giuliano Balestreri pubblicato giovedì 15 febbraio 2018 dal sito di Business Insider Italia.

Troppe tasse e nessun finanziamento, l’università italiana nel mirino Ue: “Difficile studiare”

La beffa oltre il danno. Gli studenti italiani pagano le tasse universitarie più alte d’Europa – alle spalle degli inglesi -, non hanno di fatto accesso a un sistema di borse di studio e, come se non bastasse, non hanno alcuna università tra le prime 100 del mondo. Secondo la classifica del Qs World University, il Politecnico di Milano – maglia rosa tricolore – è al 187esimo posto. Certo ci sono alcune facoltà che primeggiano, ma a livello complessivo la situazione resta complicata.

A fare luce su un sistema farraginoso che rende gli studenti italiani “dipendenti dal supporto finanziario delle famiglia” rendendo “difficile l’accesso all’istruzione superiore” è l’ultimo rapporto Eurydice dell’Unione europea dal quale emerge come solo il 10% degli studenti italiani abbia accesso a borse di studio. Il Paese dove studiare costa di più è il Regno Unito dove si spendono oltre 10mila euro l’anno, ma la Penisola si posizione al secondo posto nel gruppo di 8 Paesi dove le tasse di frequenza oscillano tra i mille e i 3mila euro. Certo, dal 2017 gli studenti con un Isee inferiori ai 13 mila euro non dovranno pagare tasse, mentre chi supera questa soglia ma resta sotto i 30mila euro pagherà al massimo 1.100 euro, ma la strada da fare resta lunga.

Eurydice fotografa i sistemi di tassazione e di supporto finanziario agli studenti di tutta l’Unione europea con informazioni dettagliate su tasse, borse di studio, prestiti e altri benefit nei singoli paesi. E si scopre, per esempio, che in Inghilterra e nei Paesi Bassi le borse di studio sono state sostituite dai prestiti e che in Germania gli studenti extraeuropei pagano le tasse solo in uno dei 16 Länder (nel Baden-Württemberg). E che nella Repubblica ceca tutti possono studiare gratuitamente a patto di seguire corsi tenuti nella lingua nazionale.

Nell’Olimpo dell’istruzione superiore europea ci sono Danimarca, Malta, Svezia, Finlandia e Scozia: per la gran parte degli studenti le tasse sono a zero, ma in aggiunta quasi tutti hanno accesso a borse di studio e finanziamenti che – sottolinea il rapporto – “garantiscono un’elevata indipendenza economica agli studenti”. Secondo la Ue un approccio di questo tipo “mostra l’esistenza di investimenti pubblici significativi” per permettere a tutti di studiare ed essere indipendenti.

Appena sotto ci sono Repubblica Ceca, Germania, Estonia, Cipro, Polonia, Slovenia e Slovacchia dove la gran parte degli studenti spende meno di cento euro: paga di più chi ottiene risultati mediocri, all’insegna della meritocrazia. In compenso sono scarsi i finanziamenti agli studenti. Poi ci sono Lussemburgo, Galles e Inghilterra che hanno alte tasse, ma altrettanto alti finanziamenti e borse di Studio.

In fondo alla classifica ci sono Irlanda, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Svizzera e Liechtenstein dove il livello delle tasse cresce ancora, raggiungendo anche il limite di 3mila euro l’anno. Tra tutti l’Italia è il Paese che fa peggio. Il caro tasse, infatti, non è calmierato da un sistema di borse di studio o prestiti adeguato: vi ha accesso solo il 10% degli studenti. Un sistema in qualche modo perverso che – come nota la Ue – “tende a rendere gli studenti dipendenti dal supporto finanziario famigliare o dal lavoro. E questo rende più difficile, in particolare per gli studenti svantaggiati, l’accesso all’educazione superiore”.

Ipus, Arssup, Unipolisi: le false ‘università’ che truffano gli studenti e spariscono nel nulla

Articolo di Alberto Marzocchi pubblicato martedì 13 febbraio 2018 dal sito di Business Insider Italia.

Ipus, Arssup, Unipolisi: le false ‘università’ che truffano gli studenti e spariscono nel nulla

Sette facoltà, 57 professori e 180 studenti, quasi tutti italiani, che si sono iscritti in pochissime settimane. Nel settembre del 2013 Ipus (Istituto privato universitario svizzero) apriva i battenti a Chiasso accompagnato dai grandi proclami del direttore generale, l’italiano Vincenzo Amore:

Da noi ci sono tantissimi ragazzi che seguono Scienze infermieristiche e Fisioterapia, perché in Italia c’è il numero chiuso e qui no. Al termine del percorso formativo, potranno conseguire la laurea negli atenei a noi associati”.

E cioè, da quanto si leggeva su sito e brochure, all’Universitatea din Pitești (Romania), all’Univêrza v Máriboru (Slovenia) e in una scuola privata austriaca, l’Alma Mater. Procedimento, questo, necessario per poter esibire un titolo di studio valido nell’Unione europea e poter svolgere la professione.

Peccato che, da un giorno all’altro, senza alcun preavviso, le lezioni siano state sospese.

Non capivamo cosa stesse succedendo – ci racconta al telefono, da Madrid, un ex studente veronese di 26 anni di Ipus, Andrea L. – sembrava che il corso fosse stato bloccato, allo stesso tempo il rettore Giampiero Camurati cambiò scuola e passò all’Arssup (Associazione di ricerche scientifiche e studi universitari privati, ndre molti di noi lo seguirono. Fino a quel momento avevo frequentato più di un anno, mi mancavano tre esami e la tesi e non volevo perdere tutto quello che avevo fatto sin lì, soldi inclusi”. 

L’Ipus venne chiuso e il primo settembre del 2016 ne venne decretato il fallimento: il rettore e 14 dipendenti non ricevevano gli stipendi da mesi, per un importo di circa 100mila franchi svizzeri, a cui si sommavano altri debiti da 260mila franchi. Ma dietro c’era altro, come ci ha spiegato Ivan Paparelli, avvocato di Lugano:

L’istituto si fregiava del titolo di ‘università’ quando non lo era, e vantava convenzioni con scuole riconosciute dall’Unione europea e che potevano rilasciare le lauree. Ma non c’era nulla di vero”. 

La storia, però, non è finita con la chiusura della struttura, perché Amore ne ha aperta un’altra, a Disentis, nel Cantone dei Grigioni.

Gli studenti di Ipus si sono trovati a dover fare i conti col rischio di vedere azzerati i due anni di studio, costati la bellezza di circa 16mila euro. Così molti di loro si sono iscritti, lo scorso anno, a Unipolisi, nella cittadina a 260 chilometri da Milano.

È stato proposto loro il trasferimento – continua Paparelli – erano con le spalle al muro perché volevano salvare quanto fatto fin lì. Ma poi si sono accorti che la truffa continuava. Finché, a dicembre, la procuratrice pubblica Raffaella Rigamonti ha posto i sigilli alla scuola”. 

Ora l’avvocato sta seguendo il caso di 40 ragazzi truffati da Ipus, quasi tutti italiani provenienti dalla Lombardia e dal Sud Italia, a cui si sono aggiunti altri 30 ex studenti di Unipolisi.

“Il direttore è stato arrestato insieme alla moglie ed è coinvolto nell’inchiesta anche il figlio”. I reati contestati sono appropriazione indebita, truffa e amministrazione infedele aggravata e per Amore è già arrivata una prima condanna, e cioè una multa da 10mila franchi svizzeri per aver affibbiato il termine “universitario” al suo istituto. 

Per Andrea L., però, pur non essendosi inscritto a Unipolisi, non è andata tanto meglio.

Arssup ha organizzato sei mesi di lezioni a Cantalupa, in provincia di Torino, fino a ottobre. Poi, senza che ci informassero di nulla, le lezioni sono state interrotte”.

La scuola vantava un apparentamento con l’Università di Malta, così ai ragazzi è stato detto che i corsi sarebbero proseguiti sull’isola del Mediterraneo.

La verità è che l’immatricolazione da Malta non è mai arrivata. Io mi sono stufato e me ne sono andato, perdendo 4mila euro. Ora frequento fisioterapia a Madrid. Alcuni miei ex compagni hanno chiesto i soldi indietro, ma nessuno ha dato loro una risposta”.

La storia di Andrea, passato da Ipus ad Arssup, è uguale a quella di tanti altri studenti truffati.

È così. Qui in Spagna non mi hanno riconosciuto gli esami sostenuti in Svizzera e di fatto ho perso un anno, oltre a parecchio denaro. La cosa incredibile è che anche i professori sono caduti nella trappola. Erano bravi e preparati e non c’era nulla che ci indicasse che quella fosse una truffa”. 

Che qualcosa non andasse, però, lo aveva capito il sindaco di Cantalupa, Faustino Bello:

I dirigenti di Arssup mi sembravano poco seri. Erano carenti sia sul piano organizzativo sia su quello promozionale. Abbiamo messo a disposizione il nostro centro congressi ma ci devono ancora pagare. Sono spariti. Con noi hanno chiuso”.

In Ticino ci sono stati i casi di altre “scuole”, come l’Issea (Istituto superiore di studi di economia aziendale), che ha perso il titolo di “università” e i cui vertici intendono rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, e l’EurAka di Lugano. A Milano, l’ultimo caso è stato quello del centro studi “Queen”. Come riportato dal Corriere della Sera31 ragazzi lasciati a casa dall’oggi al domani, senza spiegazioni, dopo aver pagato una retta di circa 10mila euro. Tutte vittime, inconsapevoli, dell’avidità di chi gioca coi sogni dei giovani. 

Lettera di Dario Antiseri e Flavio Felice sui problemi della scuola

Appello pubblicato mercoledì 17 gennaio 2018 dal sito del Centro Studi e Ricerche “Tocqueville-Acton”.

Lettera di Dario Antiseri e Flavio Felice sui problemi della scuola

Ai politici:

Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Pietro Grasso, Stefano Parisi, Vittorio Sgarbi, Beatrice Lorenzin, Paolo Gentiloni, Valeria Fedeli, Raffaele Fitto, Lorenzo Cesa, Rocco Buttiglione, Luigi Zanda, Mario Adinolfi

Sui problemi della scuola

Illustri Signori,

È sconcertante constatare come nel corso della campagna elettorale tra i più urgenti problemi da loro affrontati – e che interessano centinaia di migliaia di famiglie e milioni di cittadini – sia sostanzialmente assente “il grande tema” della scuola e dell’università. Ed è proprio per questo che ci permettiamo di sottoporre alla Loro attenzione il seguente non eludibile interrogativo: uno Stato di diritto può avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola?

  1. La scuola di Stato è un patrimonio grande e prezioso che va protetto, salvato; solo che quanti difendono il monopolio statale dell’istruzione non aiutano la scuola di Stato a sollevarsi dalle difficoltà in cui versa. Nessuna scuola sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, una segreteria più operosa, una biblioteca ben fornita, un laboratorio ben attrezzato, insegnanti più preparati, ecc. bastano a fare la differenza. Me se nessuna scuola sarà mai uguale all’altra, non sarà allora che tutte potranno migliorarsi attraverso la competizione? In breve, non esistono forse buone ragioni per affermare che è tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di migliorare il nostro sistema formativo: la scuola statale e quella non statale?

         La realtà è che, è bene insistervi, il monopolio statale dell’istruzione è la vera, acuta, pervasiva malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola. E favorisce l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non pochi genitori.

Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà: unicamente l’esistenza della scuola libera garantisce alle famiglie delle reali alternative sia sul piano dell’indirizzo culturale e dei valori che sul piano della qualità e del contenuto dell’insegnamento.

Il monopolio statale dell’istruzione viola le più basilari regole della giustizia sociale: le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte – per un servizio di cui non usufruiscono – e una seconda volta con la retta da corrispondere alla scuola non statale.

Il monopolio statale dell’istruzione devasta l’efficienza della scuola: la mancanza di competizione tra istituzioni scolastiche trasforma queste ultime in nicchie ecologiche protette e comporta di conseguenza, in genere, irresponsabilità, inefficienza e aumento dei costi. La questione è quindi come introdurre linee di competizione nel sistema scolastico, fermo restando che ci sono due vincoli da rispettare: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione.

  1. Chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato: è semplicemente contrario al monopolio statale nella gestione della scuola. E questa non è un’idea di bacchettoni cattolici o di biechi e ricchi conservatori di destra. É la giusta terapia per i mali che necessariamente affliggono un sistema formativo intossicato dallo statalismo. Scriveva Gaetano Salvemini su «L’Unità» del 17 ottobre 1913: «Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere». Sempre su «L’Unità» (17 maggio 1919), Salvemini tornerà ad insistere sul fatto che «il metodo migliore per risolvere il problema […] è sempre quello escogitato dai liberali del nostro Risorgimento: non vietare l’insegnamento privato, ma mantenere in concorrenza con esso un sistema di scuole pubbliche». La verità è che la concorrenza è la migliore e più efficace forma di collaborazione; è, come dice F.A. von Hayek, una macchina per la scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio – e questo vale nella ricerca scientifica, nella vita di una società democratica e sul libero mercato. Nell’ambito del sistema formativo strutturato su linee di competizione, la scuola privata – è ancora Salvemini a parlare – «rappresenterà sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica. Obbligandola a perfezionarsi senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta». Di conseguenza: «se nella città, in cui abito, le scuole pubbliche funzionassero male, e vi fossero scuole private che funzionassero meglio, io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se i miei figli saranno educati male». Insomma, con Salvemini si trova d’accordo Luigi Einaudi allorché afferma che il danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno creato da ogni altra specie di monopolio». E non è da oggi che contro le disastrose conseguenze del monopolio statale dell’istruzione si sono schierati, in contesti differenti, grandi intellettuali come Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e tra altri ancora, Bertrand Russell, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani.

  1. «È tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse». E ancora: «Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio». Questa una coraggiosa e lungimirante dichiarazione fatta tempo addietro da Luigi Berlinguer, al quale è legata la Legge 62/2000, in cui si definisce il passaggio dalla “Scuola di Stato” a “Sistema Nazionale di Istruzione” costituito dalla “Scuola Pubblica Statale” e la “Scuola Pubblica Paritaria”. Solo che dichiarare giuridicamente uguali Scuola Statale e Scuola Paritaria finanziando solo la prima e lasciando morire di inedia la seconda è un ulteriore inganno perpetrato da una politica cieca e irresponsabile. E qui va detto che tra le diverse proposte – tese a sradicare in ambito formativo il diffuso, insensato e deleterio pregiudizio stando al quale è buono solo ciò che è pubblico ed è pubblico solo ciò che è statale – la migliore è sicuramente quella del “buono-scuola”. Idea avanzata da Milton Friedman e ripresa successivamente Friedrich A. von Hayek e sulla quale, da noi, ha insistito negli anni passati Antonio Martino. Con il “buono-scuola” i fondi statali sotto forma di “buoni” non negoziabili (vouchers) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro “buono”. Ed è così, che pressata nel vedere diminuire l’iscrizione alla propria scuola o vedere allievi già iscritti scappare da essa, ogni scuola sarà spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti. In poche parole: quella del “buono-scuola” è una misura in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza del sistema formativo. Una domanda ai politici di sinistra da sempre ostili all’idea del “buono-scuola”: ma quando riuscirete ad aprire gli occhi e capire che il “buono-scuola” è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti? E una domanda ai politici liberali e a tutti gli altri sedicenti tali: uno Stato nel quale un cittadino deve pagare per conquistarsi un pezzo di libertà è ancora uno Stato di diritto?

  1. La questione se lo Stato di diritto possa avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola è, dunque, un problema ineludibile. Di seguito, alcune proposte “classiche” a tale nevralgico interrogativo:

Alexis de Tocqueville: «[…] voglio che si possa organizzare accanto all’Università una seria concorrenza. Lo voglio perché lo richiede lo spirito generale di tutte le nostre istituzioni; lo voglio anche perché sono convinto che l’istruzione, come tutte le cose, ha bisogno, per perfezionarsi, vivificarsi, rigenerarsi all’occorrenza, dello stimolo della concorrenza».

Antonio Rosmini: «I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone nelle quali ripongono maggiore confidenza».

John Stuart Mill: «Le obiezioni che vengono giustamente mosse all’educazione di Stato non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l’istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla: è una questione completamente diversa».

Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato».

Bertrand Russell: «Lo Stato è giustificato nella sua insistenza perché i bambini vengano istruiti, ma non è giustificato nel pretendere che la loro istruzione proceda su un piano uniforme e miri alla produzione di una squallida uniformità».

Karl R. Popper: «L’interesse dello Stato non deve essere invocato a cuor leggero per difendere misure che possono mettere in pericolo la più preziosa di tutte le forme di libertà cioè la libertà intellettuale».

Luigi Einaudi: «In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori, ognora rinnovati, abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura».

Luigi Sturzo: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità».

  1. È del 14 marzo 1984 la Risoluzione “sulla libertà di insegnamento nella Comunità europea”. Con essa il Parlamento europeo ha inteso rendere chiaro che «il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adeguamento dei loro obblighi, in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Successivamente, il 4 ottobre 2012, una ulteriore Risoluzione del Parlamento europeo stabilisce: «1. L’Assemblea parlamentare richiama che il godimento effettivo del diritto all’educazione è una condizione preliminare necessaria affinché ogni persona possa realizzare ed assumere il suo ruolo all’interno della società. Per garantire il diritto fondamentale all’educazione, l’intero sistema educativo deve assicurare l’eguaglianza delle opportunità ed offrire un’educazione di qualità a tutti gli allievi, con la dovuta attenzione non solo di trasmettere il sapere necessario all’inserimento professionale e nella società, ma anche i valori che favoriscono la difesa e la promozione dei diritti fondamentali, la cittadinanza democratica e la coesione sociale. A questo riguardo le autorità pubbliche (lo Stato, le Regioni, e gli Enti locali) hanno un ruolo fondamentale e insostituibile che garantiscono in modo particolare attraverso le reti scolastiche che gestiscono; 2. È a partire dal diritto all’educazione così inteso che bisogna comprendere il diritto alla libertà di scelta educativa».

Ebbene, nei Paesi post-comunisti entrati nell’Unione Europea – come nel caso di Slovenia, di Slovacchia, Repubblica Ceka, Polonia – la parità tra scuole statali e scuole non statali è stata introdotta in modo pieno. Questa, per scuola non statale, la situazione nei Paesi della Vecchia Europa: in Belgio gli stipendi di tutto il personale sono a carico dello Stato; in Spagna sono a carico dello Stato tutte le spese; in Portogallo è erogato dallo Stato l’equivalente del costo medio di un alunno di scuola statale; in Lussemburgo sono a carico dello Stato tutte le spese; in Inghilterra nelle maintained schools sono a carico dello Stato tutti gli stipendi e le spese di funzionamento, oltre all’ 85% delle spese di costruzione; in Irlanda le spese di costruzione degli immobili sono a carico dello Stato, in misura completa per le scuole dell’obbligo e dell’ 88% per le scuole superiori; in Germania sono a carico dello Stato e delle Regioni (Länder) lo stipendio dei docenti (85%), gli oneri previdenziali (90%), le spese di funzionamento (10%) e la manutenzione degli immobili (100%); in Francia sono possibili quattro alternative: a) integrazione amministrativa, con tutte le spese a carico dello Stato; b) contratto di assunzione, con spese di funzionamento e per i docenti a carico dello Stato, a condizione che i docenti abbiano gli stessi titoli dei colleghi statali; c) contratto semplice, con spese per il solo personale docente a carico dello Stato; d) contratto di massima libertà che non prevede alcun contributo.

  1. Dove il diritto alla parità tra Scuola statale e Scuola non statale è stato e viene tradito è in Grecia e in Italia. Qualche dato sulla situazione italiana. Nel 2012-2013 il totale degli studenti iscritti era di 8.943.701, di cui 7.763.964 iscritti alla Scuola statale e 1.036.403 iscritti alla Scuola paritaria. Nell’anno 2013-2014 gli studenti frequentanti la Scuola in Italia ammontavano a 8.882.905, con 7.746.270 iscritti alla Scuola statale e con 993.544 iscritti alla Scuola paritaria (di questi iscritti alla scuola paritaria 667.487 sono alunni delle Scuole cattoliche). Nei due anni scolastici 2012-2013 e 2013-2014 la spesa per ogni allievo della Scuola statale è stata rispettivamente di € 6.411,16 e di € 6.414,57; mentre il contributo medio dello Stato per ogni alunno della Scuola paritaria è stato rispettivamente di € 481,47 e di € 497,21: una autentica elemosina. E nel frattempo, in questi anni di crisi economica, molte famiglie, non potendo permettersi di pagare la retta, sono state costrette a ritirare il proprio figlio dalla Scuola paritaria e iscriverlo alla Scuola statale, con la conseguente chiusura di Scuole non statali, anche di grande prestigio. Tra il 2012-2013 e il 2014-2015 si sono perse 349 scuole e 75.146 alunni delle Scuole paritarie e 423 scuole e 48.066 alunni delle Scuole cattoliche. Nell’anno scolastico 2015-2016 sono state chiuse 415 scuole non statali.

In Italia la scuola libera è solo libera di morire. E mentre non ci sono manifestazioni sindacali, occupazioni di scuole o convegni sulla scuola in cui non vengano lanciati slogan contro la Scuola paritaria che succhierebbe risorse a scapito delle Scuole statali, non ci si rende conto che le rette pagate dalle famiglie che iscrivono i loro figli alla Scuola paritaria fanno risparmiare allo Stato circa sei miliardi di € ogni anno. E, dunque, è la Scuola paritaria a danneggiare la Scuola statale, oppure è una politica cieca e irresponsabile di destra e di sinistra – intossicata di statalismo – a danneggiare sia la Scuola statale che quella non statale?

  1. Se poi ci rivolgiamo al più specifico problema dell’Università – con tutte le continue denunce di corruzione soprattutto in relazione ai concorsi per professore – non Le pare che la soluzione più ragionevole, per rimettere sulla giusta strada il nostro sistema formativo superiore, possa proprio consistere nell’abolizione del valore legale del titolo di studio? Un governo dopo l’altro, con una riforma dopo l’altra, non hanno portato al disastro gran parte della nostra Università? Si pensi al 3+2 applicato in maniera meccanica e non oggettiva (dove e solo dove davvero serviva); o si pensi alle varie proposte di regole per i concorsi – tutte fallite!; con le ultime in base alle quali Einstein non sarebbe neppure ammesso al concorso e Kant (avendo pubblicato monografie e non articoli su “riviste accreditate”) verrebbe sicuramente bocciato.

  1. Sono ormai decenni, nel corso dei quali si è insistito, inascoltati, contro i guai generati dal monopolio statale sulla gestione della scuola. All’inizio fu la Destra ad impegnarsi per il buono-scuola – impegno che ben presto venne tuttavia dimenticato. Nel mondo cattolico il card. Camillo Ruini si espose, con ben argomentate considerazioni, per la giusta causa di una effettiva parità tra scuole di Stato e scuole non-statali – la sua, però, fu una battaglia che non durò a lungo. La Sinistra (insieme ai fondamentalisti anticlericali e alla massoneria) è stata sempre semplicemente cieca di fronte ai danni generati dal monopolio statale nella gestione della formazione – e ciò nonostante lo scossone dato da Luigi Berlinguer con la Legge 62/2000. E a proposito di Sinistra, non va dimenticato quel battagliero comunista romagnolo il quale, parecchi anni fa, in un dibattito a Milano sulla parità scolastica, confessò pubblicamente il suo grande disagio nel constatare che alla Sinistra non fosse entrata in testa una semplice e profonda “verità di sinistra”, e cioè che l’introduzione del buono-scuola equivarrebbe ad una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti.

Insomma: un fallimento dopo l’altro. Quello della conoscenza è un diritto primario senza del quale una democrazia muore. Con tante buone ragioni per non cedere più ad illusioni, ci siamo permessi di inviare questa lettera, spinti dal desiderio di sapere la Loro risposta a questi due interrogativi: 1. Quali sono le ragioni per non essere d’accordo sulla proposta del bono scuola (o su quella forma articolata di buono scuola elaborata dalla dott.ssa Suor Anna Monia Alfieri – che è il “costo standard di sostenibilità per allievo”)? 2. È ragionevole rifiutare, per quanto riguarda il sistema universitario, quella terapia consistente nell’abolizione del valore legale del titolo di studio? E, da ultimo, signora Ministro, la pregheremmo di ritirare la deplorevole proposta di sperimentazione di licei ridotti a quattro anni – un ulteriore furto di conoscenza nei confronti dei nostri giovani.

Cordiali saluti

Dario Antiseri

Flavio Felice

Solo Regno Unito e Olanda più care dell’Italia ma il vero nodo è la qualità della formazione

Articolo di Francesco Pacifico pubblicato lunedì 8 gennaio 2018 da Il Mattino Napoli.

Solo Regno Unito e Olanda più care dell’Italia ma il vero nodo è la qualità della formazione

Sulla carta studiare in Italia è costosissimo. A maggior ragione se si guarda alla difficoltà di strappare una borsa di studio (la prende uno studente su cinque) o ai servizi e alle strutture negli atenei della Penisola. L’Ocse ha calcolato che nel Belpaese studenti e famiglie pagano per seguire i corsi e fare gli esami l’equivalente di 1.600 euro all’anno. Conti più salati soltanto per i loro omologhi in Regno Unito (9.019) e Olanda (2.300). In seconda fascia ci sono Svizzera, Belgio, Francia e Austria le rette oscillano tra i 400 e i mille euro. Totalmente gratuito, sempre secondo l’organismo di Parigi, l’accesso nelle università di Norvegia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Turchia, Repubblica Slovacca, Slovenia, Estonia e Ungheria. Proprio come ieri ha proposto il leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso.

Questo sulla carta, perché in teoria un terzo degli studenti italiani – circa 550mila – rientra nello «Student act» entrato in vigore dall’anno accademico in corso: l’esonero totale sulle tasse per chi presenta un reddito Isee di 13mila euro, e che dal secondo anno va mantenuto in base alla media degli esami. Non mancano poi sconti per le fasce di reddito superiori (ma il tetto annuo non può superare il 7 per cento della quota Isee eccedente i 13mila euro), legati alla frequenza e al merito. Senza contare che in nome della progressività l’università di Firenze ha inserito 73 scaglioni di reddito per calcolare le tasse, il Politecnico di Torino 75, l’università di Catania 40, quello senese ben 90.

Lo Student act ha invertito molto i costi nel sistema accademico italiano. La Sapienza, per esempio, ha reso noto di «aver tagliato le tasse universitarie per 42.000 studenti», con una «manovra da più di due milioni di euro che favorisce i redditi più bassi e premia il merito». Infatti l’Udu (l’Unione degli universitari) ha calcolato che nell’ultimo decennio le matricole hanno pagato 500 euro in più di quanto accadeva negli anni precedenti alla crisi. «Nelle sole università statali il gettito complessivo della contribuzione a livello nazionale è passato da circa 1 miliardo e 200 milioni a 1 miliardo e 600 milioni: 400 milioni in più, spillati agli studenti per coprire la progressiva diminuzione dei finanziamenti statali per le università».

Tra i corsi più cari – come ha calcolato il Sole24Ore – ci sono medicina a Pavia, odontoiatria a Bologna, scienze della formazione a Milano-Bicocca, tutti quanti con rette intorno ai 4mila euro. Sul lato opposto della classifica spiccano per convenienza la Gabriele D’Annunzio di Chieti, con una retta da 1.050 euro all’anno, l’Orientale di Napoli con i suoi 1.105 euro annui e i corsi di area storico-sociale di Lecce. Accanto alla retta vanno considerate le tasse regionali e i bolli, che in media non costano mai sotto i 300 o i 400 euro.

Secondo Francesco Sylos Labini, «se si volessero azzerare in un colpo solo le tasse universitarie, sarebbero necessari almeno 1,8 miliardi di euro pur di mantenere il finanziamento del sistema ai livelli attuali». L’astrofisico e uno degli animatori del Roars (la rete dei ricercatori italiani) è stato suo malgrado uno degli ispiratori della proposta lanciata da Pietro Grasso di azzerare le tasse universitarie. Quelli di Liberi e Uguali si sono rifatti alle sue proposte scritte per l’assemblea del Brancaccio. Nelle quali, però, si chiedeva più progressività sulle rette per venire incontro agli studenti più poveri. «Perché l’Italia, dopo Olanda e Gran Bretagna – ci spiega Sylos Labini è il Paese in Europa con le tasse più alte. Il tutto in un sistema che, con i 6 miliardi complessivi di risorse, vale la metà di quello francese e un terzo di quello tedesco. E non dimentichiamo che dall’introduzione della legge 133 del 2008 c’è stata una riduzione del 20% dei finanziamenti». In quest’ottica l’idea del presidente del Senato sembra irrealizzabile. «A meno che – conclude l’astrofisico – un governo non abbia una decina di miliardi per l’università. In quel caso le cose cambiano».

Rette salate per una formazione non sempre di qualità, se si guarda al fatto che soltanto due atenei italiani sono entrati presenti tra le duecento migliori realtà catalogate dalla World University Rankings, la classifica della rivista inglese Times Higher Education. Cioè parliamo di eccellenza come il Sant’Anna e la Scuola Normale di Pisa, ma rispettivamente ferme alla 155esima e alla 184esima posizione. E senza dimenticare un livello di laureati molto più basso rispetto alla media europea (24,5% contro 37%) e le difficoltà di accesso al mondo del lavoro da parte di chi ha concluso il suo corso di studi.

Eppoi c’è da scontare il gap negli strumenti messi a disposizione dei propri iscritti da parte degli atenei. L’Italia è fanalino di coda per borse di studio, quasi totalmente sconosciute nel Meridione. In un suo ultimo rapporto l’agenzia Anvur ha denunciato che soltanto uno studente su cinque ne usufruisce. Più in generale «circa l’80% degli iscritti non riceve alcun finanziamento o sostegno per le tasse universitarie». E la cosa colpisce non poco i 600mila fuorisede italiani. Federconsumatori ha calcolato che tra rette, affitti di una stanza, le utenze e i libri le famiglie italiane spendono tra i 7.944 euro annui (se i figli dormono in una doppia) e i 9.415 euro (nel caso di una singola). Chi invece ha i figli che studiano a casa, investe per questa voce del bilancio familiare tra 1.425 e i 1.669 euro.

Tasse all’università, siamo al terzo posto nell’Ue, borse di studio al minimo

Articolo di Roberto Ciccarelli pubblicato sabato 21 ottobre 2017 da il manifesto.

Tasse all’università, siamo al terzo posto nell’Ue, borse di studio al minimo

Rapporto Eurydice 2017 Commissione Ue. L’Ocse conferma: nel 2016, tra i 25 e 64enni, il 18% aveva una laurea. La media europea è del 33%. Tra i 25-34enni il 26% aveva una laurea. La media europea: 40%

Le tasse universitarie in Italia sono le terze più alte d’Europa. Solo nove studenti su 100 ricevono una borsa di studio. L’andamento delle prime è al rialzo: oggi in media è pari a 1.400 euro circa a studenti, presto aumenterà quando la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea, togliendosi dal primo posto: oggi per iscriversi in un’università inglese bisogna pagare 10.028 euro. L’Italia arriverà al secondo posto, preceduta dall’Olanda (2.006 euro medi). Direzione opposta è quella seguita dalle borse di studio: le ricevono meno del 10% degli iscritti, mentre in Spagna i borsisti sono aumentati del 55%, in Francia del 36%, in Germania del 32%. Oggi, in Spagna, il 30% degli studenti riceve una borsa; il 39% in Francia. Staccatissima la Finlandia dove il 72% degli studenti sono borsisti. Questi dati sono contenuti nel rapporto Eurydice 2017 pubblicato dalla Commissione Ue sui sistemi nazionali di tassazione e diritto allo studio.

Questi dati vanno spacchettati rispetto ai corsi di studio. Nelle lauree triennali, ad esempio, la tassa media è passata da 1.262 euro a 1.316 in un solo anno: il 4,3% in più. Lo stesso andamento si ritrova in altri paesi, inseriti dal rapporto nello stesso gruppo in fuga guidato dall’Italia: Irlanda, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo, Svizzera e Liechtenstein. Ormai staccato il gruppo dei paesi dove le tasse sono poco più che simboliche (meno 100 euro l’anno): sono la Repubblica Ceca, la Polonia, la Slovenia e la Slovacchia. In altri 15 stati – tra cui il Belgio, la Francia, l’Austria – le tasse variano tra 100 e mille euro l’anno.

«Siamo tra i Paesi con la più bassa percentuale di borsisti – ricorda Elisa Marchetti, coordinatrice dell’Unione degli Universitari –. Tutto questo mentre in Germania le tasse universitarie sono state abolite e un quarto degli studenti riceve una borsa, e in Francia la tassa media è di circa 200 euro e i borsisti sono il 40%. Anche la Spagna, un paese dell’Europa Meridionale fa meglio di noi: il 30% degli studenti riceve un sostegno economico».

Questa situazione va considerata anche rispetto al fallimento delle riforme di «centro-sinistra» Berlinguer-Zecchino dell’università, il cui obiettivo era quello di aumentare il numero dei laureati modificando i corsi di laurea nel famigerato «3+2». Fonti Ocse hanno di recente confermato che nel 2016, tra i 25 e 64enni, il 18% aveva una laurea. La media europea è del 33%. Tra i 25-34enni il 26% aveva una laurea. La media europea: 40%. Solo il Messico fa peggio con il 22% di laureati.

Mentre in tutti i paesi Ocse si aumentavano gli investimenti in istruzione e ricerca negli anni della crisi, l’Italia ha tagliato 9 miliardi di euro ai bilanci di scuola e università. A questi bisogna aggiungere i miliardi estorti agli insegnanti e ai docenti con il blocco degli stipendi a scuola: 12 mila euro a testa in sette anni. Per gli universitari, è stato calcolato che il blocco degli scatti di anzianità farà guadagnare allo stato austerico 100 mila euro a docente incardinato.

Sul capitolo tasse universitarie va tuttavia ricordato che la precedente legge di bilancio stanziò 55 milioni per il 2017 e 110 a regime dal 2018 per coprire le minori entrate delle università. Alcuni atenei hanno approvato regolamenti con una no tax area a 23mila euro e la fascia calmierata fino a 50mila euro (Bologna); 14mila e 40mila (Sapienza di Roma). L’università di Genova assicura l’iscrizione gratis per chi ha perso il lavoro. Le immatricolazioni degli studenti lavoratori sono aumentate.