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Università, le regole del gioco che drogano la ricerca scientifica

Articolo di Francesco Margiocco pubblicato martedì 4 giugno 2019 da Il Secolo XIX.

Università, le regole del gioco che drogano la ricerca scientifica

Dal 2010 i nuovi criteri che misurano la produttività scientifica degli atenei italiani hanno provocato un aumento della quantità della ricerca. Ma non della sua qualità. E ora il governo annuncia cambiamenti

I numeri e i grafici che troverete in questa pagina indicano la produttività scientifica delle università italiane. Misurano gli articoli pubblicati sulle riviste scientifiche e le relazioni presentate ai convegni e sono cresciuti molto in pochi anni. Chi conosce l’argomento si chiederà come abbiano potuto, in un Paese che investe in ricerca l’1,33% del suo Pil, quando la media europea è del 2% e la Germania, con ben altro Pil, sfiora il 3%.

Il gioco delle citazioni

Una risposta plausibile è in un saggio di 15 pagine, consultabile nell’archivio internet Arxiv, scritto da un terzetto di studiosi: Giuseppe De Nicolao, ordinario di analisi dei dati all’Università di Pavia, Alberto Baccini, ordinario di economia all’Università di Siena, ed Eugenio Petrovich, ricercatore, anche lui a Siena. La loro conclusione è che quantità non sempre fa rima con qualità. In questo caso fa rima con Anvur, l’agenzia nazionale nata nel 2010 per controllare e valutare il sistema della ricerca italiano. L’Anvur usa criteri bibliometrici, ossia matematico-statistici. Uno dei suoi metodi è vedere quante volte un articolo scientifico è stato citato da altri.

I tre studiosi dimostrano che esiste un «uso opportunistico delle citazioni», un gioco dove tanti «club delle citazioni … si scambiano le citazioni per promuovere i rispettivi indici “citazionali”» e fare carriera. La prima vittima di questo gioco è la qualità.
Nel 2010 la ricerca italiana aveva dato alla luce 76.993 articoli scientifici, passati a 86.828 nel 2012 e a 100.399 nel 2016. Una crescita in sei anni del 30,4%, ben oltre il 14% francese, il 19% tedesco, il 21% britannico o il 10,3% statunitense.
A leggere il lavoro dei tre studiosi sul “Gioco delle citazioni”, viene da dubitare che sia tutta produzione di alta qualità. «In un sistema che premia la produttività, il numero di pubblicazioni diventa l’obiettivo da raggiungere non solo con comportamenti virtuosi (fare più ricerca) ma anche con strategie opportunistiche (dividere uno stesso lavoro scientifico in più pubblicazioni). E quando l’obiettivo da raggiungere è un alto numero di citazioni, comincia il gioco».

L’esplosione dal 2010

Per smascherare il gioco delle citazioni, i tre studiosi hanno costruito un indice, che chiamano indice di autoreferenzialità: è il rapporto tra le citazioni nazionali, gli articoli scientifici di un dato Paese che citano altri articoli dello stesso Paese, e le citazioni, articoli di tutto il mondo che citano articoli di quel Paese.
Dal 2000 al 2016 le prime sono aumentate, le secondo diminuite e l’indice di autoreferenzialità è cresciuto di oltre 10 punti in Italia, di gran lunga la crescita maggiore nel G10: 3 punti negli Stati Uniti, 3,8 in Giappone, 4,2 in Francia, 5,2 la media. «Fino al 2009 l’autoreferenzialità italiana cresce in linea con quella di Paesi paragonabili, come Regno Unito, Germania e Francia. Nel 2010 abbiamo un’accelerazione», scrivono i tre studiosi.

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La bibliometria, che l’Anvur usa per misurare la produzione scientifica, poggia su tre cardini. Nelle scienze esatte, sono il numero di articoli scientifici pubblicati cioè la quantità, il numero di citazioni cioè la presunta qualità e l’indice H, che incrocia quantità e qualità. Nelle scienze sociali e umanistiche, sono il numero di risultati della ricerca, il numero di monografie e il numero di articoli pubblicati sulle riviste che l’Anvur, in base ad una sua classificazione, considera di classe A.

Il governo: «Cambiare le regole»

Giuseppe Valditara, direttore dell’Alta formazione del ministero dell’Istruzione, vuole cambiare le regole: «Dobbiamo abolire la distinzione tra riviste di classe A e non. Una rivista è tale se è internazionalmente accreditata, cioè se è inserita in un database internazionale. Punto. Esiste già una classificazione, fatta dalle banche dati internazionali, e non c’è motivo di creare un percorso parallelo con la classificazione dell’Anvur».
L’Università di Genova ha un brutto rapporto con gli indicatori bibliometrici. L’anno scorso ha dovuto rinunciare al ruolo di coordinatrice del nuovo centro di ricerca pubblico-privato ligure, il “competence center” sulla cyber-sicurezza, perché secondo i parametri dell’Anvur aveva un punteggio troppo basso. Nel 2016, durante un convegno, il rettore Paolo Comanducci, riecheggiando la battuta di Fantozzi sulla Corazzata Potemkin, aveva definito i parametri bibliometrici dell’Anvur «una schifezza».

«Sono migliorabili», dice oggi con più calma il pro-rettore alla ricerca Marco Invernizzi. «La bibliometria è nata nelle scienze di base, poi è stata adattata alle discipline tecniche e oggi pretendono di usarla anche per le materie umanistiche, con cattivi risultati». Dal 2010 gli articoli scientifici pubblicati dall’Università di Genova sono aumentati del 47%, più di quanto non siano aumenti nell’Università di Pavia, 40%, o di Pisa, 36%. Ma per Invernizzi non è tutto oro.

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«Ci sono picchi di qualità eccelsa, e sacche di inattività. Nella media la qualità è ancora troppo bassa. Dobbiamo alzarla. L’ateneo ci sta provando in diversi modi: promuove i soggiorni all’estero dei suoi docenti, finanzia gli ammodernamenti dei laboratori, organizza convegni internazionali, premia, con un concorso interno, le idee di ricerca più innovative. E poi si è svecchiato, ha assunto molti giovani. Tutto questo dovrebbe servire».

Costi fuori controllo

L’Anvur e le sue valutazioni bibliometriche hanno prodotto tanta ricerca, tanti articoli, tanta carta. L’indice di autoreferenzialità è aumentato, le citazioni no: «La percentuale di articoli italiani citati da articoli non italiani crolla dopo il 2010», scrivono gli autori dello studio; e nel 2016 l’Italia è anche il Paese europeo con il più basso livello di collaborazioni internazionali, cioè di ricerche che coinvolgano almeno un altro Paese.
La sovrapproduzione crea dei sovraccosti. Pubblicare non è un’attività gratis: è un grande business gestito da un oligopolio di editori – Elsevier, Springer Nature, Taylor & Francis, Wiley, American Chemical Society – che sulle proprie pagine ospitano i risultati di ricerche finanziate in genere con denaro pubblico per poi rivendere questa “loro” merce alle biblioteche degli enti di ricerca e delle università, ad un caro prezzo. L’ultimo rapporto della European University Association, di inizio maggio, calcola che per abbonarsi ai  giornali scientifici di questi cinque giganti dell’editoria, le università europee spendano nell’insieme mezzo miliardo di euro l’anno e che i costi siano in aumento del 3,6% l’anno cosa che fa salire l’esborso per il prossimo triennio a quasi un miliardo e mezzo di euro.
Nell’era di internet, la cultura dovrebbe essere più accessibile. La Commissione europea sostiene un piano per far sì che dal 2020 i risultati della ricerca siano in massima parte consultabili a costo zero: nell’aprile 2016 ha lanciato un’iniziativa per la scienza aperta, una piattaforma dove archiviare, gestire, analizzare e riutilizzare i dati della ricerca, e l’ha chiamata European Science Cloud, la nuvola della scienza europea. L’arrivo della nuvola è atteso a inizio 2020. «Per il nostro Paese – dice Valditara – è un progetto strategico».
La conseguenza forse più grave del “gioco delle citazioni” riguarda il nostro futuro. In un sistema che premia le citazioni, i ricercatori eviteranno la ricerca di base altamente innovativa, che rompe con la tradizione e apre nuove frontiere, perché la capirebbero, e la citerebbero, in pochi. Ma senza ricerca di base e innovativa lo sviluppo industriale finisce nella stagnazione.

Tasse universitarie, ricorso degli studenti contro la Statale di Milano: “Il bilancio di previsione è fuorilegge”

Articolo di Luisiana Gaita pubblicato martedì 20 febbraio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Tasse universitarie, ricorso degli studenti contro la Statale di Milano: “Il bilancio di previsione è fuorilegge”

L’ateneo nel 2018 prevede di incassare dagli studenti 87,5 milioni e riceverne 267 dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario. “La legge però – spiega Carlo Dovico, coordinatore dell’Udu Milano – stabilisce che il rapporto tra il gettito complessivo della contribuzione studentesca e il Ffo non possa superare il 20%”. E c’è il precedente di Pavia, la cui università ha dovuto risarcire gli iscritti

“Agli studenti dell’università Statale di Milano vengono richiesti oltre 34,1 milioni in più rispetto al tetto imposto dalla legge”. Questa l’accusa dell’Unione degli Universitari che ha appena depositato un ricorso al Tar contro le tasse definite “fuorilegge” dell’ateneo milanese. Così come aveva fatto a Pavia, dove due anni fa il Consiglio di Stato ha condannato l’Università a rimborsare agli studenti 1,7 milioni di euro di tasse universitarie più gli interessi. Secondo le cifre inserite nel bilancio di previsione del 2018, la Statale prevede di incassare dagli studenti 87,5 milioni di euro. Lo stesso bilancio riporta che, per il 2018, l’ateneo prevede di ricevere 267 milioni di euro dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). “La legge però – spiega Carlo Dovico, coordinatore dell’Udu Milano – stabilisce che il rapporto tra il gettito complessivo della contribuzione studentesca e il Ffo non possa superare il 20%, mentre nell’ateneo milanese la percentuale è addirittura del 32,8%”. Il limite è fissato nel decreto del Presidente della Repubblica 306/1997 ed è stato poi confermato proprio dal Consiglio di Stato. Il ricorso al Tar per la Statale è stato depositato con l’obiettivo di restituire questi soldi agli studenti. Ma non basta. “Crediamo sia fondamentale che la prossima legislatura – spiega Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Udu – metta in atto una progressiva abolizione delle tasse universitarie, iniziando a toglierle a chi si trova in condizioni economiche più svantaggiate”.

GLI ATENEI FUORILEGGE – Quella delle tasse “fuorilegge” è una situazione che non riguarda solo la statale di Milano. I dati, però, sono fermi al 2011, quando 36 atenei pubblici su 61 totali, secondo i calcoli dei propri bilanci preventivi, sforavano quel limite con tasse medie di oltre i mille euro. Tanto che anche il Codacons ha lanciato un’azione risarcitoria sul proprio sito, pubblicando l’elenco degli atenei coinvolti, i cui studenti potrebbero avere diritto ad un rimborso. Nell’elenco, oltre all’Università di Pavia, l’Università degli Studi Insubria Varese-Como, quelle di BolognaBergamo, Statale, Bicocca e Politecnico di Milano, la Ca’ Foscari di Venezia, l’Università Iuav di Venezia, gli atenei di PadovaModena, Reggio EmiliaTorino, Verona e Ferrara. Cosa accade ora? “Stiamo aggiornando i dati nazionali in merito, per capire quanti atenei ancora superano quel 20%”, dicono dall’Udu.

UN PO’ DI DATI SULLE TASSE – Come già evidenziato nel rapporto sulla tassazione universitaria ‘Dieci anni sulle nostre spalle’, però, i dati sulle tasse sono significativi. Nell’anno accademico 2015/2016, a fronte di una tassa media nazionale di 1.250 euro e di 1.500 euro al Nord, l’Università Statale di Milano ha richiesto una tassa media di 1.640 euro, risultando tra le dieci più costose in Italia. “La nostra inchiesta – sottolineano gli studenti – dimostrava come le tasse fossero costantemente cresciute negli ultimi 10 anni, con impennate molto brusche successivamente ai tagli della Legge 133/2008 e della Legge 240/2010, dell’accoppiata Tremonti-Gelmini”. Il sottofinanziamento universitario consolidato con quelle due leggi è stato fatto pesare in prevalenza direttamente sulle spalle degli studenti, che in tutta Italia si sono trovati a pagare tasse schizzate alle stelle in pochissimo tempo. “Il gettito complessivo della contribuzione studentesca in Italia delle sole università statali si aggira attorno a 1 miliardo e 600 milioni di euro. La sola Università Statale di Milano – ricorda l’Udu – dal 2011 in poi ha prelevato dagli studenti, ogni anno, non meno di 90 milioni di euro”.

I PARADOSSI – Secondo l’Unione degli Universitari la situazione alla Statale di Milano è ancora più paradossale se si considera che l’anno scorso è stato riformato il sistema di contribuzione studentesca: “È stata mantenuta la discriminazione della tassazione studentesca per tre macro aree a cui sono afferenti i corsi di laurea”. In particolare è stata introdotta una no tax area fino a 14mila euro di Isee che può arrivare fino a 23mila euro nel caso in cui si abbiano anche una serie di requisiti di merito. “Si mantiene inoltre – aggiunge l’Udu – una maggiorazione per gli studenti fuori corso e per gli studenti silenti”.

IL LIMITE AL GETTITO – Tornando al limite stabilito dalla legge per il gettito totale delle tasse recepito da ogni ateneo, il principio di non superare il 20% di quanto ricevuto dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario è stato confermato dalle tre sentenze del Tar della Lombardia sui ricorsi presentati dall’Udu ai bilanci dell’Università di Pavia per gli anni 2010, 2011 e 2012 e, successivamente confermato anche dal Consiglio di Stato per tutti e tre gli anni. “Quelle sentenze – sottolineano gli studenti – confermavano un altro punto sostanziale, ossia che gli atenei non possono escludere dal conteggio del 20% la contribuzione degli studenti fuori corso”. Il governo Monti aveva modificato la normativa dopo il ricorso proposto nel 2010. Con il decreto Legge 95/2012, convertito con la Legge 135 del 7 agosto 2012, era stata infatti modificata la normativa sul 20%, introducendo la possibilità di escludere dal conteggio le tasse degli studenti fuori corso, secondo criteri da definirsi con un successivo decreto ministeriale. “Questo decreto – spiega l’Udu – non è mai uscito. Con la Legge di bilancio 2018, inoltre, è stata inserita una ulteriore tipologia di studenti che potrebbero essere estrapolati dal conteggio, ossia gli studenti internazionali. Riteniamo entrambe queste distinzioni fortemente discriminatorie e sbagliate e pensiamo possano sussistere anche elementi tali da renderle illegittime perché in contrasto con la nostra Costituzione”. Secondo Marchetti è inaccettabile “che il sottofinanziamento dell’università pubblica sia scaricato sulle spalle degli studenti, e che gli atenei decidano persino di ignorare quei limitati ed irrisori argini posti dalla legge a tutela degli studenti. È offensivo – conclude – verso gli studenti dichiarare, attraverso il bilancio di previsione, che l’ateneo non ha intenzione di rispettare la legge”.

Ricercatori: troppi cervelli in fuga, Italia tredicesima nella classifica dei più citati al mondo

Articolo di Corrado Zunino pubblicato lunedì 12 febbraio 2018 dal sito di la Repubblica.

Ricercatori: troppi cervelli in fuga, Italia tredicesima nella classifica dei più citati al mondo

La nostra nazione paga il solito prezzo: molti studiosi sono assoldati da atenei stranieri. L’Università di Bologna in testa con cinque citazioni. La rete scientifica di Milano a quota dieci

Nella classifica dei ricercatori più citati al mondo, l’un per cento dell’élite scientifica certificato dalla Thomson Reuters, nel 2018 l’Italia annovera 46 studiosi in una lista di 3.539 (l’1,3 per cento). Restiamo al 13° posto. Siamo dietro, oltre a una grande potenza scientifica come gli Usa, largamente in testa con 1.644 “Highly cited researchers” (il 46,4 per cento del totale), a Gran Bretagna (344 ricercatori citati) e Cina (249). Siamo alle spalle anche – in ordine – di Germania, Australia, Olanda, Canada, Francia, Svizzera, Spagna (che ci ha superati nel 2014) e Arabia Saudita (ci ha passati nel 2015). Tutte queste nazioni, Arabia compresa, hanno iniziato a importare professori italiani alimentando la fuga dei cervelli, maturi e giovani. Chi sta davanti a noi cresce: tutti, a parte il Giappone (decimo). Nelle ultime quattro stagioni la Cina è salita in citazioni del 58 per cento. Anche gli investimenti pubblici e privati in ricerca sono aumentati nelle nazioni che migliorano le loro performance.

SETTIMI IN EUROPA
Ecco, il nostro Paese resta stabile (49, 44, 48, 46 i “researchers” che lavorano in strutture italiane citati dal 2014 ad oggi): è il settimo in Europa. Rischia di essere superato, per esempio, da una nazione medio-piccola come il Belgio, arrivata a quaranta scienziati in classifica e avvantaggiata dalla presenza degli uffici della Comunità europea a Bruxelles. L’Italia paga il solito prezzo, che si è visto in modo plateale nei premi alla ricerca Erc: molti riconoscimenti, in questo caso citazioni di lavori, vanno a grandi studiosi nazionali assoldati però da università, centri e ospedali stranieri. Nel 2017 sono stati 29 i ricercatori italiani “tra i più citati al mondo” e fuori dal nostro Paese. Tutti lavorano – a Harvard, Yale e Berkeley, a Melbourne, Amsterdan, Londra e Parigi – in posizioni di assoluta preminenza: guidano divisioni ospedaliere, team di ricerca sul cancro, prime istituzioni economiche.

I GRANDI SCIENZIATI ALL’ESTERO
Se si sommano i ricercatori citati in Italia e quelli in fuga (una fuga in alcuni casi stanziale, visto che i protagonisti hanno preso una seconda cittadinanza) l’Italia mette nella lista Reuters 75 studiosi “highly cited” (il 2,1 per cento del totale). In classifica, in questo modo, raggiungeremmo il Giappone al decimo posto. Per dire, tra gli italiani citati all’estero c’è Maurizio Corbetta, uno dei cento scienziati più conosciuti al mondo, neurologo laureato all’Università di Pavia ora in classifica per i suoi studi sul cervello portati avanti alla Washington School. Lo hanno chiamato a fine 2015 a dirigere la clinica neurologica dell’ospedale di Padova, ma i suoi “papers” arricchiscono ancora la bacheca dell’ateneo statunitense. Federico Capasso, 68 anni, si è laureato in Fisica alla Sapienza di Roma e, poi, ha firmato oltre 300 pubblicazioni e 50 brevetti (tra cui il laser a cascata quantica) negli Stati Uniti. Annamaria Lusardi, piacentina graduata alla Bocconi di Milano, oggi, insediata alla George Washington, guida il Comitato per l’educazione finanziaria, riferimento mondiale sul tema. Lo scienziato del cibo Vincenzo Fogliano dalla Federico II di Napoli è migrato all’Università di Wageningen in Olanda, da dove i suoi lavori hanno ricevuto oltre 12mila citazioni. Sono italiani, i ventinove, formati ad alto costo dalle nostre università (la Statale di Milano, la Bicocca, la Cattolica, Padova, Parma, il Politecnico di Bari, Palermo) e oggi danno prestigio e portano finanziamenti ad atenei, fondazioni e aziende straniere.

GLI EXPLOIT DI PAVIA, TORINO E CNR
Nella classifica Reuters l’ateneo italiano con i ricercatori più citati è Bologna (5), per la prima volta in testa. Seguono l’Università di Pavia (4), l’Università di Torino (3) e il Consiglio nazionale delle ricerche (3), che annovera l’unico italiano presente nella disciplina Informatica e che perde il primato nazionale di citazioni globali dopo averlo tenuto dal 2014 al 2016. Due “high citations” sono andate alla Statale di Milano, all’Istituto Mario Negri di Milano, all’Istituto oncologico europeo di Milano, all’Università di Parma, all’Osservatorio astronomico di Bologna, all’Irccs e a due ricercatori gestiti in Italia dalla Commissione europea. Con la sua rete di atenei, ospedali e centri studio è comunque Milano ad esprimere nel Paese il maggior numero di scienziati citati: dieci.

Rettori contro il Consiglio di stato: “I giudici non conoscono l’Università”

Articolo di Antonio Gurrado pubblicato mercoledì 7 febbraio 2018 da Il Foglio.

Rettori contro il Consiglio di stato: “I giudici non conoscono l’Università”

La sentenza del Consiglio di Stato che ha proibito al Politecnico di Milano di attivare corsi di laurea esclusivamente in inglese riesce a essere al contempo antistorica e inattuale. Eppure Fabio Rugge – coordinatore della commissione della Conferenza dei Rettori delle Università italiane (Crui) per l’internazionalizzazione e rettore dell’Università di Pavia – non nasconde che alle radici c’è un annoso ricorso di membri dello stesso Politecnico refrattari alla novità. “Nell’Università italiana – dice al Foglio – ci sono posizioni più inerziali, di persone che sono più preoccupate dalla difficoltà dei corsi in inglese di quanto siano convinte del guadagno che comporterebbero, e dell’imprescindibilità di questo passo. Costoro però non danno la temperatura del sistema universitario italiano. Noi rettori, pur avendo attivato ancora troppo pochi corsi in inglese nella penisola, siamo soddisfatti della loro riuscita. Ritengo quindi che si debba andare incontro all’utilizzo parziale di corsi di laurea in inglese, non a tappeto ma in termini ragionevoli”.
La ragionevolezza di quest’innovazione consiste, secondo Rugge, nell’escludere “ambiti in cui l’insegnamento in inglese può essere meno necessario o meno facile, come ad esempio la Giurisprudenza: il diritto ha carattere fortemente nazionale e i termini possono risultare scarsamente traducibili. Questa ragionevolezza non contrasta con le esigenze del sistema universitario”. Convinto che sia imprescindibile? “Sì, per tre motivi. Abbiamo bisogno di attrarre in Italia studenti di altri paesi e il metodo sono i corsi in inglese: si utilizza una lingua per integrarsi in tutto il mondo; si creano classi realmente internazionali (e penso ai corsi di Medicina in inglese, in cui ho visto studenti tedeschi, israeliani, venezuelani…); soprattutto, l’Italia ha una buona formazione superiore da offrire a livello internazionale e da questo si può trarre vantaggio”. Le cifre – circa 78.000
studenti stranieri sparsi su tutti gli atenei, per una percentuale inferiore al 5 per cento, la metà rispetto a Francia e Germania, per non parlare dei paesi anglofoni – promettono ampi margini di crescita ma sembrano denunciare un’immobilità difficile da superare.
Di certo non aiuta la sentenza del Consiglio di stato, che Rocco Todero ha dimostrato essere vincolata da un pronunciamento della Corte Costituzionale volto a ribadire “il primato costituzionalmente indefettibile della lingua italiana”. Secondo Rugge queste sentenze nascono “da una scarsa conoscenza dell’università italiana e dei suoi cambiamenti. Parlano di rischio di marginalizzazione della lingua italiana, quando invece è in inglese solo il 5 per cento dei corsi, per lo più di laurea magistrale, che riguarda dunque un numero di studenti molto basso”. Né la sentenza sembra considerare l’ipotesi che l’Università debba preparare al lavoro. “Riconoscere le esigenze della globalizzazione significa riconoscere che l’inglese serve anche a lavorare in Italia. Oltre a temere – testualmente – il rischio che venga estromessa la lingua ufficiale della Repubblica da intieri rami del sapere”, continua Rugge, “secondo la sentenza i corsi in inglese comprimerebbero il diritto allo studio perché, cito, gli studenti non anglofoni sarebbero forzati a optare per altri corsi universitari o addirittura per altri atenei. Ora, a 40 km dal Politecnico c’è il dipartimento di Ingegneria di Bergamo, a 30 quello di Pavia, a un’ora di treno quello di Brescia. Ma i giudici sanno quanto è intensa l’offerta universitaria? O il diritto allo studio consiste nel diritto all’università sotto casa?”.
In realtà i giudici acconsentono ai corsi in inglese se ne vengono attivati di paralleli in italiano. “Questo sarebbe possibile in un mondo di risorse infinite. La sentenza invece non sembra preoccuparsi troppo dell’analisi del contesto reale, anzi.” Anzi? “E’ antistorica. Noi siamo eredi di una grande lingua franca, il latino, di cui la diffusione stessa dell’italiano si è giovata. Il latino è stato lingua della scienza e della cultura: quindi insegnare in inglese la fisica dei materiali o l’equilibrio delle imprese di oligopolio non mi sembra una atto di sudditanza”. Del resto l’università è stata per secoli un’istituzione sovranazionale, meta di libero scambio fra stranieri. “Sa da quanto tempo l’università è nazionalizzata? Grossomodo da due secoli. In passato, quando parlava latino, era un’impresa transnazionale: ed è un aspetto straordinariamente bello, che oggi i migliori studenti apprezzano moltissimo anche se c’è da parlare inglese”.

 

Università, tasse raddoppiate in dieci anni. Ma l’abolizione per gli studenti non è una priorità

Articolo di Sara Dellabella pubblicato venerdì 26 gennaio 2018 dal sito di L’Espresso.

Università, tasse raddoppiate in dieci anni. Ma l’abolizione per gli studenti non è una priorità

Quanto costa laurearsi nel nostro Paese? Sempre di più. Lo dicono i dati che mostrano come per la stessa facoltà siano previsti importi diversi, addirittura nella stessa regione. Ma togliere la retta non elimina i problemi legati al diritto allo studio

C’è chi è d’accordo e chi no. C’è chi bolla la proposta come populista e chi invece pensa che sia un buon punto di inizio. Certo è che la promessa elettorale del neo leader di Liberi e Uguali, Piero Grasso, di abolire le tasse universitarie da giorni tiene impegnati esperti e politici, molto più che l’introduzione della flat tax di Berlusconi.
Ma che significa oggi iscrivere un figlio all’università? Se non si parte da questo semplice dato non si capisce perché la questione sia considerata così dirimente in questo scorcio di campagna elettorale.

Recentemente è stata proprio l’Unione degli Universitari a redigere il rapporto “Sulle nostre spalle”, un’inchiesta che mostra come dal 2005 al 2015 si siano registrati rincari fino al 61 percento, pari a 474 euro. Più colpiti gli studenti del mezzogiorno dove le tasse sono aumentate del 90 per cento, contro il 56 per cento del centro e il 43 per cento del nord. Aumenti dovuti sostanzialmente al calo dei trasferimenti statali e al calo delle iscrizioni, con la scomparsa di 240 mila studenti in 8 anni.

“È un cane che si morde la coda – commentano gli studenti – tasse più alte e diritto allo studio non completamente garantito portano meno studenti all’università, e i pochi che ci sono pagano sempre di più”.
Il rapporto bolla come “annus horribilis” del diritto allo studio il 2015/2016 quando le tasse sono aumentate di 87 euro, che arrivano dopo le impennate degli anni precedenti. Un aumento questo dovuto anche all’introduzione dei nuovi criteri di calcolo dell’Isee che hanno mandato molti studenti fuori fascia con l’innalzamento delle tasse.

Uno studio del portale Skuola.Net, già nel 2015, mise a confronto la tassazione applicata dalle università italiane, mettendo in mostra un sistema frammentato di regole che porta gli studenti dall’esborso minimo di 23 euro de L’Aquila (negli anni successivi al sisma del 2009) al Politecnico di Milano dove mediamente si pagano 2.143 euro, ma si può arrivare a 3.800 euro. In questo quadro anche le università si muovono nel campo della concorrenza e ogni anno si contendono le matricole a colpi di sponsorizzazioni e offerte da supermarket. Tra i più attivi sul tema ci sono gli atenei marchigiani.

Ma quanto si paga per andare all’Università?

Ogni Ateneo ha il suo regolamento “Tasse e contributi” dove il calcolo si può basare su algoritmi, fasce di reddito (c’è chi ne ha 3 e chi arriva a 75), mentre alcuni combinano dei sistemi misti di fasce e algoritmi. Con il risultato che per frequentare la stessa facoltà gli studenti italiani pagano importi diversi e per una famiglia con reddito di fascia media la scelta diventa tutt’altro che scontata. Senza considerare che all’interno dello stesso ateneo si pagano importi diversi per facoltà diverse. Ad Ancona fino a qualche tempo fa, per iscriversi a Economia e commercio bastavano 1.500 euro, mentre per Odontoiatria si arrivava a spendere il doppio. “In generale le facoltà di medicina e odontoiatria sono le più care, ma non crediamo sia giusto nell’accesso al diritto allo studio” spiegano gli studenti.

Così anche nella stessa regione si arriva a situazioni paradossali. L’Università di Cassino prevede una prima rata uguale per tutti gli studenti pari a 156 euro, mentre a Roma Tre per la prima rata bisogna sborsare 522 euro. A Cassino poi le fasce per il calcolo della seconda rata sono tre, si viene considerati ricchi con un reddito Isee superiore a 41 mila euro, mentre a Roma Tre le fasce sono 75 e si è ricchi superato il reddito di 86.600 euro. Con il risultato che a Cassino come a Roma chi è più ricco arriva a sborsare circa 2mila euro l’anno. Con la differenza che a Cassino bastano la metà delle risorse per essere considerati ricchi. Così a Trieste la tassazione massima arriva a 2450 euro, al Politecnico di Torino a 2530 euro, a Cagliari a 2709,36 e Perugia 1747,53 euro, solo per fare degli esempi.

In passato alcune università sono state condannate al risarcimento degli studenti per aver imposto tassazioni troppo alte. È il caso di Pavia, dove il Consiglio di Stato nel marzo 2016, ha sancito il rimborso agli studenti di 1 milione e 700mila euro più interessi. La riforma del sistema di contribuzione studentesca approvata nel 2010 dall’Università di Pavia, secondo i giudici, portava allo sforamento del tetto previsto dalla legge. La ricerca UDU di quei tempi denunciava che gli atenei pubblici fuorilegge, come quello di Pavia, erano ben 35 su 62. Dopo questa sentenza il Governo Monti cambiò la normativa, nei fatti liberalizzando la contribuzione studentesca di questo Paese, portando l’Italia ad essere il terzo paese europeo per maggiore tassazione universitaria.
Ed ecco perché molti oggi sono favorevoli alla proposta di Grasso, anche se a sentire gli studenti le tasse non sono l’unico problema.

“Fin dalla sua introduzione lo scorso anno, abbiamo chiesto che la no tax area fosse innalzata consistentemente in modo da rendere il beneficio realmente efficace. Inoltre crediamo necessaria una rivisitazione generale del sistema di contribuzione, in un’ottica di armonizzazione e di maggiore equità – spiega Elisa Marchetti coordinatrice nazionale dell’Unione degli Universitari – ma questo non basta. Alle borse di studio spesso non seguono i servizi”. Un esempio? “Uno studente che riceve il contributo per la mensa a pranzo e cena, spesso non riesce a raggiungere la mensa dove cenare perché magari non ci sono i mezzi di trasporto a disposizione. Oppure la gran parte dei borsisti fuori sede non riceve un alloggio negli studentati perché non ce ne sono a sufficienza, pertanto si trova costretta ad affittare stanze da privati, molto spesso a prezzi decisamente alti. Sono paradossi tutti italiani”.

Come è un paradosso che a due mesi delle elezioni si parli di abolire le tasse universitarie, ma in cinque anni di legislatura non si sia trovata una soluzione legislativa per far votare 400mila fuorisede senza costringerli ad un esborso di denaro per raggiungere i rispettivi luoghi di residenza.

Università, gli studenti italiani sono i più insoddisfatti al mondo

Articolo di Emanuela Di Pasqua pubblicato lunedì 22 gennaio 2018 dal sito di Il Corriere della Sera.

Università, gli studenti italiani sono i più insoddisfatti al mondo

Studio firmato Sodexo. L’Italia è il fanalino di coda, quantomeno tra le tante e differenti nazioni prese in esame, in termini di appagamento degli studenti universitari

Studenti insoddisfatti

Si dibattono nel dubbio di aver fatto la scelta sbagliata, non sono motivati, si preoccupano per i debiti accumulati negli anni di studio, patiscono la scarsa emancipazione economica e spesso hanno nostalgia di casa se studiano fuori: questo è il ritratto dei giovani universitari italiani su cui vale la pena interrogarsi, a partire dal fatto che l’orientamento non può essere solo informativo ma deve essere anche formativo, per chiedersi poi cosa vogliano i ragazzi e se si è in grado di accontentarli.

Un Bel Paese dunque dove però gli studenti universitari sono infelici, anzi i più infelici. E’ il triste bilancio che riguarda l’Italia e che viene proposto da un sondaggio internazionale condotto da Sodexo su oltre 4mila universitari. Lo studio ha svelato che i giovani italiani sono i più insoddisfatti della propria vita in termini assoluti e che la nostra nazione è nel drappello dei più scontenti anche in termini relativi.

Percorso sbagliato

Se nel Bel Paese il livello di soddisfazione tocca il 62 per cento, in India (82 per cento), Cina (76 per cento) e Regno Unito (75 per cento), Stati Uniti (73%) e Spagna (70%) ovvero nelle altre nazioni prese in esame, gli studenti rivelano un maggiore benessere. La percentuale di infelici tra gli italiani scende addirittura al 54 per cento in relazione agli studi, a dimostrazione del fatto che nonostante gli sforzi i ragazzi non vengono guidati adeguatamente nel conoscere le proposte formative e nel capire se stessi e le proprie vocazioni. Nel nostro Paese quattro studenti su dieci infatti si dichiarano insoddisfatti della propria vita e quasi uno su due non è per nulla convinto del proprio iter accademico, mentre più di uno su tre ha pensato seriamente di dire addio all’università.

Le cause

I motivi dell’insoddisfazione? Sul podio delle preoccupazioni, l’eccessivo carico di lavoro (51 per cento), la mancanza di equilibrio tra studio, socializzazione e lavoro (44 per cento) e la possibilità di trovare lavoro dopo la laurea (43 per cento). Tra i principali timori dunque c’è una qualità di vita ritenuta povera, ma anche l’idea che gli sforzi fatti non saranno adeguatamente ricompensati nel futuro a causa delle scarse opportunità lavorative, uno scarso rapporto con i professori, una vita economico-sociale troppo faticosa e poco appagante e una scarsa convinzione riguardo la scelta del percorso formativo scelto.

Il segreto della felicità

Agli esperti, ai professori, ai politici e ai professionisti del settore non resta che interrogarsi su come rispondere meglio alle richieste studentesche e anche sul come fare orientamento meglio e nei tempi giusti. Per esempio bisogna iniziare presto a formarsi un immaginario dei mestieri che piacciono e non è un esercizio che si possa fare nell’imminenza di una scelta, così come bisognerebbe essere educati a conoscersi gradualmente e nel corso di tutto il percorso di studi. Ma anche il rapporto con i docenti incide molto nell’essere motivati, fermo restando che fa da screen saver una crisi profonda che indubbiamente toglie ai giovani serenità e motivazioni. Fondamentale comunque è interpretare queste risposte nel giusto modo.

I pareri

“Sorprende un poco la scarsa soddisfazione per il rapporto costi-benefici dell’istruzione universitaria. Le università pubbliche italiane, a dispetto di certi luoghi comuni, presentano costi di accesso fortemente contenuti a fronte di una qualità media elevata che ci viene internazionalmente riconosciuta” spiega Paolo Cherubini, Prorettore Vicario dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Mentre Michele Rostan, Delegato al Benessere Studentesco presso l’Università degli Studi di Pavia, spiega che: “I risultati dell’indagine ci segnalano che ciò che facciamo, soprattutto nei primi mesi del percorso universitario degli studenti, non sembra sufficiente per rispondere positivamente alle loro domande”.

Non solo studio

Certo aiuterebbe osservare cosa hanno in più di noi gli studenti più felici, a cominciare da quelli indiani, dichiaratisi molto sereni e fiduciosi. Gli spunti di riflessione sono molti, ma è anche importante pensare che ormai gli studenti cercano tante cose e che, come fa notare Loredana Garlati, Prorettore all’Orientamento e Job Placement dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, “questa analisi, vista dal lato positivo, suggerisce che lo studente non vede più l’università come un “esamificio”, ma come una comunità da cui attendere non solo qualità didattica ma anche supporto nella soluzione dei propri problemi attraverso servizi orientamento, counselling, alloggi, luoghi di aggregazione, sport etc., oltre a servizi efficienti, ma su questo le università italiane hanno ancora molto da fare”. Forse troppe cose? Forse gli studenti indiani e cinesi hanno meno aspettative? In tutti i casi per migliorare l’Italia bisogna partire da quell’infelicità e da quella scarsa convinzione dei ragazzi universitari. E cercare di fare meglio.

Guardando ai più felici

“Per attrarre le menti più brillanti e continuare a stimolarle, le università non devono solo fornire istruzione, ma devono anche rivolgere la loro attenzione alla qualità della vita degli studenti e di tutti coloro che lavorano all’interno dei campus – spiega Franco Bruschi, Head of Schools & Universities Segment Med Region di Sodexo –. Grazie ai nostri 50 anni d’esperienza e al feedback continuo da parte degli studenti in più di 1.600 campus in 32 Paesi, siamo in grado di realizzare servizi che migliorano la qualità della vita all’interno delle Università.

 

Università, l’algoritmo che manda l’87% dei soldi agli atenei del Nord

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato domenica 14 gennaio 2018 da il Fatto Quotidiano.

Università, l’algoritmo che manda l’87% dei soldi agli atenei del Nord

A Chieti c’è la miglior ricerca in fisica. Ma non esiste neanche il corso
Un esito profetizzato: nei giorni scorsi sono stati assegnati 271 milioni di euro a 180 dipartimenti universitari definiti d’eccellenza. Fondi distribuiti in base alla valutazione della qualità della ricerca e dei progetti presentati da 350 dipartimenti (su circa 800 totali) inseriti in un elenco stilato dall’Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e della Ricerca (Anvur) sulla base di un indicatore individuato dalla stessa agenzia. Risultato: in 106 casi su 180 i fondi sono andati al nord, in 49 al centro, 25 al sud.
LA PROFEZIA. La disparità era già stata prevista, a maggio, dal blog specializzato Roars (Return on Academic Research): “I dipartimenti del centro e del nord – si legge – si aggiudicheranno l’87% delle risorse pari a quasi 1,2 miliardi in cinque anni. Al Sud ed Isole resterà il 13%”. Ed è andata proprio così: la percentuale è dell’86,67%. Tanto che la Fedeli ha rassicurato: “Ora proseguiremo (…) con la programmazione di interventi che rafforzino il reclutamento di giovani ricercatori nelle università meridionali”.
IL PROBLEMA. Alla base c’è il metodo. Il ruolo di giudice è affidato all’Anvur che, periodicamente, effettua una valutazione nazionale di tutti gli atenei e degli enti di ricerca pubblici. In base ai risultati, vengono distribuiti i finanziamenti alle università legati alla cosiddetta “quota premiale” del Ffo, il Fondo di Finanziamento Ordinario (la quota base tiene conto invece di altri parametri, come lo storico dell’ateneo, dei suoi numeri e del costo standard). “Abbiamo dimostrato – spiega Giuseppe De Nicolao, ordinario di ingegneria all’Università di Pavia – che con questo tipo di valutazione la variazione nell’assegnazione della quota premiale è minima rispetto a una distribuzione basata sul numero dei docenti. Il problema nasce quando la Vqr (ovvero la Valutazione della qualità della ricerca, ndr) dopo essere già stata usata per dividere i fondi tra tutte le università, viene usata una seconda volta per indire un torneo con pochi vincitori come per i dipartimenti d’eccellenza”. Con l’inevitabile accentuazione delle differenze Nord-Sud.
IL DIVARIO. Pesa la differenza tra le due parti del Paese. “Inutile aspettarsi una gara alla pari – spiega De Nicolao – a pagare le conseguenze della diminuzione dei finanziamenti sono state soprattutto le università del Sud. Le regioni in cui la crisi ha colpito più duramente le famiglie e le imprese sono quelle in cui è più difficile supplire a ciò che non arriva dal governo autofinanziandosi con le tasse universitarie e contratti con le imprese”. Gli atenei del sud, che rappresentano il 31% del corpo docente, sono state penalizzate anche nella gestione del turn over con percentuali inferiori alla media nazionale. “Riduzione di organico significa chiusura dei corsi, meno studenti e meno tasse in entrata. Darwinismo accademico”.
CHI VINCE E CHI PERDE. L’idea di indire una gara tra i vari dipartimenti è stata inserita nella legge di stabilità del 2017: “271 milioni di euro sulla apposita sezione del Ffo (“Fondo per il finanziamento dei Dipartimenti universitari di eccellenza”). Lo stanziamento, invece, incide sul Ffo del 2018 (che dovrebbe ammontare a 7,3 miliardi rispetto ai 6,958 del 2017). Il ministero parla di una quota a parte. “Maggiori finanziamenti in passato riservati alla quota premiale e ora ai cosiddetti ‘Dipartimenti di eccellenza’ …” , ha detto in un intervento il capo dipartimento del Miur, Marco Mancini.
IL PROBLEMA FORMALE. C’è poi un errore di valutazione. I risultati della ricerca nelle diverse aree disciplinari non sono direttamente comparabili: fisica ha una procedura di valutazione diversa rispetto a filosofia, mentre nell’area scientifica certe discipline danno più peso ad alcuni parametri che ad altri. La stessa Anvur sottolinea che c’è bisogno dell’utilizzo di “differenti metodologie di standardizzazione”. Si riferisce a una formula che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rendere comparabili dipartimenti che hanno aree di ricerca miste e che, invece, è riuscita a premiare la ricerca in alcuni ambiti più che in altri. Esempio: due articoli, giudicati entrambi eccellenti, hanno un punteggio diverso a seconda del loro ambito scientifico.
IL PARADOSSO DI CHIETI. Così, come raccontato dal blogger del Fatto Quotidiano e docente universitario, Marco Bella, accade che tra le eccellenze nell’ambito della Fisica spicchi il dipartimento di Chieti – Pescara. Dove però non c’è un corso di laurea in Fisica. “Singoli dipartimenti – spiega De Nicolao – avevano ricevuto più di un voto, uno per ciascuno dei diversi settori di ricerca che li compongono. La formula doveva servire a renderle omogenee e invece fa il contrario”. In certe aree mediche, ad esempio, come dimostrato dal professore Lucio Bartoli-Bersotti, docente universitario di Statistica, un articolo giudicato eccellente può valere 2.7 punti mentre in alcuni settori della fisica un articolo giudicato ugualmente eccellente ne può valere solo 0.44. E proprio questi calcoli, incomprensibili ai più, hanno decretato il 70 per cento del punteggio.

Solo Regno Unito e Olanda più care dell’Italia ma il vero nodo è la qualità della formazione

Articolo di Francesco Pacifico pubblicato lunedì 8 gennaio 2018 da Il Mattino Napoli.

Solo Regno Unito e Olanda più care dell’Italia ma il vero nodo è la qualità della formazione

Sulla carta studiare in Italia è costosissimo. A maggior ragione se si guarda alla difficoltà di strappare una borsa di studio (la prende uno studente su cinque) o ai servizi e alle strutture negli atenei della Penisola. L’Ocse ha calcolato che nel Belpaese studenti e famiglie pagano per seguire i corsi e fare gli esami l’equivalente di 1.600 euro all’anno. Conti più salati soltanto per i loro omologhi in Regno Unito (9.019) e Olanda (2.300). In seconda fascia ci sono Svizzera, Belgio, Francia e Austria le rette oscillano tra i 400 e i mille euro. Totalmente gratuito, sempre secondo l’organismo di Parigi, l’accesso nelle università di Norvegia, Danimarca, Finlandia, Svezia, Turchia, Repubblica Slovacca, Slovenia, Estonia e Ungheria. Proprio come ieri ha proposto il leader di Liberi e Uguali, Pietro Grasso.

Questo sulla carta, perché in teoria un terzo degli studenti italiani – circa 550mila – rientra nello «Student act» entrato in vigore dall’anno accademico in corso: l’esonero totale sulle tasse per chi presenta un reddito Isee di 13mila euro, e che dal secondo anno va mantenuto in base alla media degli esami. Non mancano poi sconti per le fasce di reddito superiori (ma il tetto annuo non può superare il 7 per cento della quota Isee eccedente i 13mila euro), legati alla frequenza e al merito. Senza contare che in nome della progressività l’università di Firenze ha inserito 73 scaglioni di reddito per calcolare le tasse, il Politecnico di Torino 75, l’università di Catania 40, quello senese ben 90.

Lo Student act ha invertito molto i costi nel sistema accademico italiano. La Sapienza, per esempio, ha reso noto di «aver tagliato le tasse universitarie per 42.000 studenti», con una «manovra da più di due milioni di euro che favorisce i redditi più bassi e premia il merito». Infatti l’Udu (l’Unione degli universitari) ha calcolato che nell’ultimo decennio le matricole hanno pagato 500 euro in più di quanto accadeva negli anni precedenti alla crisi. «Nelle sole università statali il gettito complessivo della contribuzione a livello nazionale è passato da circa 1 miliardo e 200 milioni a 1 miliardo e 600 milioni: 400 milioni in più, spillati agli studenti per coprire la progressiva diminuzione dei finanziamenti statali per le università».

Tra i corsi più cari – come ha calcolato il Sole24Ore – ci sono medicina a Pavia, odontoiatria a Bologna, scienze della formazione a Milano-Bicocca, tutti quanti con rette intorno ai 4mila euro. Sul lato opposto della classifica spiccano per convenienza la Gabriele D’Annunzio di Chieti, con una retta da 1.050 euro all’anno, l’Orientale di Napoli con i suoi 1.105 euro annui e i corsi di area storico-sociale di Lecce. Accanto alla retta vanno considerate le tasse regionali e i bolli, che in media non costano mai sotto i 300 o i 400 euro.

Secondo Francesco Sylos Labini, «se si volessero azzerare in un colpo solo le tasse universitarie, sarebbero necessari almeno 1,8 miliardi di euro pur di mantenere il finanziamento del sistema ai livelli attuali». L’astrofisico e uno degli animatori del Roars (la rete dei ricercatori italiani) è stato suo malgrado uno degli ispiratori della proposta lanciata da Pietro Grasso di azzerare le tasse universitarie. Quelli di Liberi e Uguali si sono rifatti alle sue proposte scritte per l’assemblea del Brancaccio. Nelle quali, però, si chiedeva più progressività sulle rette per venire incontro agli studenti più poveri. «Perché l’Italia, dopo Olanda e Gran Bretagna – ci spiega Sylos Labini è il Paese in Europa con le tasse più alte. Il tutto in un sistema che, con i 6 miliardi complessivi di risorse, vale la metà di quello francese e un terzo di quello tedesco. E non dimentichiamo che dall’introduzione della legge 133 del 2008 c’è stata una riduzione del 20% dei finanziamenti». In quest’ottica l’idea del presidente del Senato sembra irrealizzabile. «A meno che – conclude l’astrofisico – un governo non abbia una decina di miliardi per l’università. In quel caso le cose cambiano».

Rette salate per una formazione non sempre di qualità, se si guarda al fatto che soltanto due atenei italiani sono entrati presenti tra le duecento migliori realtà catalogate dalla World University Rankings, la classifica della rivista inglese Times Higher Education. Cioè parliamo di eccellenza come il Sant’Anna e la Scuola Normale di Pisa, ma rispettivamente ferme alla 155esima e alla 184esima posizione. E senza dimenticare un livello di laureati molto più basso rispetto alla media europea (24,5% contro 37%) e le difficoltà di accesso al mondo del lavoro da parte di chi ha concluso il suo corso di studi.

Eppoi c’è da scontare il gap negli strumenti messi a disposizione dei propri iscritti da parte degli atenei. L’Italia è fanalino di coda per borse di studio, quasi totalmente sconosciute nel Meridione. In un suo ultimo rapporto l’agenzia Anvur ha denunciato che soltanto uno studente su cinque ne usufruisce. Più in generale «circa l’80% degli iscritti non riceve alcun finanziamento o sostegno per le tasse universitarie». E la cosa colpisce non poco i 600mila fuorisede italiani. Federconsumatori ha calcolato che tra rette, affitti di una stanza, le utenze e i libri le famiglie italiane spendono tra i 7.944 euro annui (se i figli dormono in una doppia) e i 9.415 euro (nel caso di una singola). Chi invece ha i figli che studiano a casa, investe per questa voce del bilancio familiare tra 1.425 e i 1.669 euro.

Dario Braga (Università di Bologna) – Tutte le sfaccettature dell’eccellenza

Articolo pubblicato giovedì 28 dicembre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Tutte le sfaccettature dell’eccellenza

Il fenomeno dei Collegi e delle Scuole Superiori

Nel corso degli ultimi venti anni molte università italiane hanno costituto Collegi o Scuole Superiori destinate a studenti particolarmente motivati e capaci, selezionati annualmente sulla base esclusiva del merito.

Un buon numero di queste iniziative sono nate sul finire degli anni 90 a seguito di accordi di programma con il ministero – all’epoca retto da Luigi Berlinguer – finalizzati alla «sperimentazione di percorsi formativi avanzati e di alta qualificazione diretti a integrare l’attuale offerta di studi universitari nella fase pre- e post-laurea». Scuole d’eccellenza furono così costituite in diverse università (Lecce, Catania, Pavia, tra le altre). Il Collegio Superiore di Bologna fu invece costituito autonomamente dall’Università di Bologna nel ’99 con finanziamenti iniziali della Fondazione Cassa di Risparmio. In anni successivi scuole e collegi analoghi, anche con accordi con la Scuola Normale di Pisa, sono nati a Padova, Roma, Torino, Venezia, Udine e in altre sedi ancora.

Sicuramente ne dimentico qualcuno anche perché si tratta, nel complesso, di esperienze molto diversificate. Diverse sono le modalità di ammissione degli studenti (tutte per concorso), i requisiti di permanenza e i “benefit” concessi agli ammessi (residenzialità, borse di studio e via dicendo), come diverse sono le modalità di accertamento del profitto, l’organizzazione dei corsi integrativi e il modo di costituire il corpo docente. Questa grande diversità – che riflette la autonomia dei singoli atenei nella conduzione di queste importanti sperimentazioni – è forse anche una delle ragioni per cui le procedure di accreditamento ministeriale avviate con il Dm 338 del 2013 del ministro Profumo stentano a decollare. In fondo, l’idea stessa di individuare criteri comuni che consentano il riconoscimento ministeriale di queste iniziative è, in un certo qual modo, in contraddizione con il concetto di sperimentazione. Una sperimentazione formativa, per essere tale, deve riflettere le “condizioni al contorno” nelle quali viene implementata (dimensioni degli atenei, aree disciplinari, obiettivi strategici, presenza o meno di sponsor sul territori ecc.) e deve essere coerente con gli obiettivi strategici dell’Ateneo. La diversità organizzativa è, in questo caso, un valore e va salvaguardata.

Alcune scuole hanno adottato in questa sperimentazione un modello che richiama quello della Scuola Normale Superiore di Pisa. Il modello “normalista” prevede che lo studente sia selezionato nell’ambito di una classe (scienze umane, sociali ecc.) e sia portato ad approfondire la preparazione con corsi aggiuntivi che possono anche avere carattere interdisciplinare, ma che sostanzialmente tendono a rafforzare la formazione specialistica.

Il modello alternativo, adottato per esempio all’Università di Bologna, è invece basato su un paradigma fortemente multidisciplinare. Il reclutamento degli studenti non avviene su base disciplinare e tutta la programmazione didattica è basata sulla “convergenza formativa”: scelto un argomento, docenti di aree diverse concorrono a svilupparlo in lezioni rivolte a studenti di tutte le discipline. Si tratta di lezioni che si aggiungono a quelle curriculari e che si svolgono per lo più in orario serale e che prevedono esami, voti alti e tempi regolari come per i corsi normali. L’idea è quella di “costringere” lo studente a rimanere in contatto con temi anche molto lontani da quelli curriculari con l’obiettivo di mantenere vivo il ragionamento laterale e rafforzare la capacità di cogliere l’inatteso e generare nuove idee.

Questo tipo di scuola è quindi una sorta di laboratorio R&D della formazione dove l’università può assemblare “pacchetti formativi” innovativi, sperimentarli su un gruppo di studenti particolarmente bravi e motivati e, quando utile, estenderli a tutto l’ateneo.

Quale che sia il modello adottato – le differenze sono esse stesse un valore ed esistono anche soluzioni intermedie – scuole e collegi superiori non sperimentano solo nuove forme didattiche ma anche nuove forme di interazione tra studenti e studenti e tra studenti e docenti e anche tra docenti e docenti. Sono luoghi dove docenti di aree anche lontane, incontrandosi, mantengono vivo quel linguaggio comune che rischia di perdersi nell’isolamento disciplinare che affligge le nostre università. Anche per questo è importante che scuole e collegi siano in osmosi con i dipartimenti e coinvolgano ampiamente il corpo docente dell’Ateneo.

In questi tempi difficili per la formazione, sperimentano una “università a tendere”.

Le graduatorie dell’Anvur. La strana classifica dove l’ateneo privato batte le grandi facoltà

Articolo di Anna Maria Liguori pubblicato sabato 6 gennaio 2018 da la Repubblica.

La strana classifica dove l’ateneo privato batte le grandi facoltà

I dubbi sull’agenzia chiamata a stabilire la meritocrazia nella ricerca. Fuori dai fondi ministeriali scienziati da Nobel e istituti di eccellenza. Criteri discutibili e risultati paradossali

Sconfiggere i baroni, far crescere l’eccellenza negli atenei, stabilire criteri meritocratici. L’Anvur, Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca, nasce così, sull’onda delle campagne di stampa contro i prof pigliatutto e i concorsi truccati. Nel 2010, mentre i ricercatori salgono sui tetti e gli studenti manifestano in strada, viene varata la Riforma Gelmini che assegna ampi poteri all’Agenzia istituita nel 2006. In particolare un potere assoluto sulla valutazione della ricerca, per poi decidere a chi vanno i finanziamenti, e quello dei “criteri e parametri”, con cui mettere fine all’arbitrio e agli interessi pilotati nelle procedure di reclutamento e promozione dei docenti. «Una valutazione accurata, rigorosa e imparziale della ricerca svolta nelle università» afferma Sergio Benedetto, responsabile della Valutazione di qualità 2011-2014, pubblicata a febbraio 2017, «basata su dati attendibili e affidabili».

Eppure nelle classifiche Anvur, anche agli occhi dei meno esperti, non tutto torna. Come mai i due Politecnici del Nord vengono superati dall’ateneo telematico UniCusano (e anche da Messina) in un’area come l’ingegneria industriale e dell’informazione? Come mai non viene premiato nemmeno un ateneo o un dipartimento che ha raggiunto risultati unici? E come vengono distribuiti i fondi statali per gli atenei migliori che ammontano quasi a un miliardo e mezzo in 5 anni? Perché l’Anvur conferisce la corona d’alloro a questa o a quella università, non valutando l’istituzione nel suo complesso ma decidendo in base alla qualità delle pubblicazioni dei docenti. Il metodo è semplice: si fa la media delle votazioni avute dai ricercatori, date dallo stesso Anvur. Due lavori a testa. Così, una facoltà con un docente di spicco e due che non hanno pubblicato niente di rilevante risulta inferiore rispetto a quella che ha tre docenti con valutazione totale media. Risultato: l’eccellenza scompare e viene fuori una strampalata classifica lontana dalla realtà. Giuseppe De Nicolao, professore dell’Università di Pavia e redattore del blog Roars spiega questo meccanismo paradossale: «Nella classifica Anvur del febbraio 2017, Area 9 – Ingegneria industriale e dell’informazione, all’università privata Roma UniCusano viene assegnato il “voto medio normalizzato” 1,21; al Politecnico di Milano 1,04 e al Politecnico di Torino 1. Ed ecco i posti nella graduatoria: Roma UniCusano al 6° posto, Politecnico di Milano al 24°, Politecnico di Torino al 30°». Ancora: con i criteri Anvur è prima in classifica per la Fisica la Kore, università privata di Enna, che non ha però la facoltà di Fisica. Ma ha soli tre docenti, la cui media ha elevato il punteggio della facoltà fino a portarla in cima. All’opposto invece c’è il dipartimento di Fisica della Sapienza di Roma con il laboratorio di ottica quantistica in cui si studiano le proprietà dei fotoni: ci lavora Giorgio Parisi che nel 2011 ha vinto la medaglia Planck, il più importante riconoscimento per la fisica dopo il Nobel. Alla Sapienza l’Anvur non ha assegnato fondi per i più meritevoli, il super laboratorio è finanziato solo dai fondi europei. In aiuto dei fisici italiani c’è tutta la comunità scientifica internazionale che “sconsiglia” questa metodologia di valutazione: la Fondazione Nobel, la Physician European Society, l’Agenzia di valutazione inglese, e tre premi Nobel per la Fisica Takaaki Kajita, Kip S. Thorne e Rainer Weiss che hanno scritto alla ministra Valeria Fedeli denunciando un paradosso: gli scienziati italiani a capo della missione Lisa dell’agenzia spaziale italiana, gli stessi che hanno reso possibile la rilevazione delle onde gravitazionali – una scoperta che è alla base del Nobel per la Fisica 2017 – per l’Anvur non sono da prendere in considerazione.

«L’Agenzia conosce il problema di alcuni settori della Fisica, e li ha già segnalati più di un anno fa. Si stanno cercando delle soluzioni» ammette il presidente uscente Andrea Graziosi (lunedì 8 gennaio si insedierà Paolo Miccoli, sotto accusa per aver fatto copia-incolla nel suo report di presentazione del programma). «Altro è la pubblicazione della valutazione di soli tre ricercatori come accade a volte. Questo non è opportuno perché si creano graduatorie irreali. Bisognerebbe cambiare la norma».

Ma non è solo la fisica sotto accusa. Uno dei casi più clamorosi è quello del dipartimento di Scienze della Vita dell’Università di Modena e Reggio Emilia: il professor Michele De Luca dirige il Centre for Regenerative Medicine Stefano Ferrari e, insieme a Graziella Pellegrini, ha usato le sue staminali per guarire un “bimbo farfalla” malato di epidermolisi bollosa. Nell’elenco dell’Agenzia questo dipartimento è “mediocre” visto che galleggia a metà classifica. Michele De Luca non ci sta: «L’Anvur deve spiegare perché il nostro gruppo, punto di riferimento mondiale per la medicina rigenerativa con le staminali epiteliali, è considerato mediocre. Ma lo so già. Perché usa valutazioni completamente inappropriate. La ministra Fedeli si è congratulata con me. Dall’Anvur niente». Un’altra nota dolente sono i docenti in pensione a cui è preclusa la possibilità di far conoscere il proprio lavoro scientifico. È il caso di Maria Salanitro, ricercatrice di Letteratura latina in pensione, grande esperta di Petronio: «Mi sono vista bocciare due lavori, hanno avuto una valutazione assurda dall’Anvur. In più non hanno letto le parti in greco, visto che chi mi stava giudicando ha ammesso di non conoscerlo».