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Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi (Università di Ferrara) – Dove ci guadagnano le tre regioni in cerca di autonomia

Articolo pubblicato martedì 23 luglio 2019 dal sito di lavoce.info.

Dove ci guadagnano le tre regioni in cerca di autonomia

Il negoziato sulla maggiore autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna rischia di bloccarsi sull’istruzione. Ma anche escludendola, il passaggio potrebbe risultare molto conveniente per le tre regioni se i fabbisogni standard non fossero adottati

Quanto vale l’istruzione

Tra le materie su cui Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna chiedono più autonomia dallo stato centrale, la funzione che ha il rilievo finanziario maggiore è quella dell’istruzione scolastica e universitaria. Per questo, in un nostro precedente articolo su lavoce.info avevamo ipotizzato un sistema di compartecipazioni per distribuire le risorse necessarie a decentralizzarla. Ora però pare che il vertice a Palazzo Chigi di venerdì 19 luglio abbia cancellato dal possibile accordo la regionalizzazione dell’istruzione, che avrebbe implicato contratti e stipendi su base regionali e programmi scolastici diversi. La decisione non sembra comunque ancora definitiva, visto che i governatori di Veneto e Lombardia hanno dichiarato di non voler firmare un’intesa che stralci questa materia. Tuttavia, la battaglia potrebbe essere fatta sulle risorse a disposizione delle regioni.

Facciamo un passo indietro e vediamo quali sono le funzioni regionalizzabili in base alle intese sul federalismo differenziato del 25 febbraio 2019 siglate dal presidente del Consiglio e dai presidenti delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Oltre all’istruzione scolastica e universitaria, quelle non meramente amministrative, che implicano cioè un trasferimento di spesa, sono sviluppo sostenibile e tutela del territorio, politiche per il lavoro, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, diritto alla mobilità e sistemi di trasporto (per Emilia Romagna si escludono porti e aeroporti civili), competitività e sviluppo delle imprese, energia (non per l’Emilia Romagna), protezione civile, comunicazioni (non per l’Emilia Romagna), commercio con l’estero.

Secondo i dati predisposti dalla Ragioneria generale nel 2017 il totale della spesa da decentrare alle regioni che hanno chiesto l’autonomia è di 16,2 miliardi di euro, di cui 11,4 miliardi circa sono spesa per istruzione. Questa sarebbe la distribuzione di risorse se seguissimo il criterio della spesa storica. Quindi se viene rimossa la spesa per istruzione, la torta si ridimensionerebbe molto: 4,8 miliardi di euro.

Dai fabbisogni standard alla spesa pro capite

Ciò su cui si insiste molto, tuttavia, è l’autonomia finanziaria, ovvero lasciare alle regioni il gettito tributario necessario a finanziare le funzioni decentrate. L’articolo 5 delle intese definisce il modo in cui devono essere attribuite le risorse finanziarie. In particolare, nel caso in cui non venissero adottati i fabbisogni standard, vi è una clausola di salvaguardia secondo la quale, dopo tre anni dall’approvazione dei decreti, l’assegnazione non può essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale.

Quindi, se non fossero utilizzati i fabbisogni standard, come conferma anche il recente intervento della Corte dei conti: “le risorse finanziarie che lo stato dovrebbe trasferire alle regioni ad autonomia differenziata potrebbero risultare superiori a quelle attualmente spese in quei territori”.

Tabella 1 – Spesa regionalizzata pro capite delle regioni a statuto ordinario

Fonte: rielaborazioni su dati della Ragioneria generale dello stato, anno 2017

La tabella 1 mostra (all’ultima riga) come la media pro capite nazionale della spesa regionalizzata per tutte le funzioni richieste equivale a 976 euro pro capite. L’Emilia Romagna avrebbe una spesa di 871 euro pro capite, il Veneto di 901 e la Lombardia di 789. La differenza da colmare rispetto alla media nazionale è di 105 euro pro capite per l’Emilia Romagna, 187 per La Lombardia e 75 per il Veneto. Il totale corrisponde a 2,7 miliardi di euro. Quindi da 16,2 miliardi di spesa storica si passerebbe a 18,9 miliardi. La spesa in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna aumenterebbe del 17 per cento.

Nel caso in cui non si regionalizzi l’istruzione, la spesa media pro capite nazionale rimanente sarebbe di 316 euro pro capite e anche in questo caso le tre regioni avrebbero una spesa inferiore alla media nazionale. La Lombardia avrebbe una spesa di 228 euro pro capite, l’Emilia Romagna di 230 e il Veneto di 307. Quindi la differenza da colmare sarebbe 88 euro pro-capite per la prima e 86 euro pro-capite per la seconda. Per quanto riguarda il Veneto la cifra sarebbe più modesta. Comunque, le differenze implicano un aumento aggregato di spesa per le tre regioni del Nord di 1,3 miliardi, ovvero il 21 per cento dell’attuale spesa storica, che passerebbe da 4,8 a 6,1 miliardi di euro.

Poiché i decreti legge collegati al regionalismo differenziato non potranno produrre nuovi oneri per il bilancio dello stato, sia nel primo caso (decentramento inclusa istruzione) che nel secondo (esclusa istruzione), l’unico modo per avere le risorse aggiuntive sarà trasferirle dalle altre regioni che, per ora, non hanno avanzato richieste di regionalismo differenziato.

Guardando questi numeri si capisce come, anche escludendo l’istruzione, il passaggio all’autonomia per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna potrebbe comunque essere molto conveniente se i fabbisogni standard non fossero applicati. Molto verosimilmente, infatti, implicherebbero una spesa pro-capite inferiore alla media nazionale.

Autonomia, così il Nord guadagna 1,3 miliardi

Articolo di Luca Cifoni pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da Il Mattino di Napoli.

Autonomia, così il Nord guadagna 1,3 miliardi

Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna favorite anche senza i poteri sulla scuola

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Un impatto finanziario più limitato, ma comunque significativo: se come pare ormai assodato l’istruzione non sarà tra le competenze trasferite alle Regioni, il conto finale a vantaggio di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna resterà comunque del tutto vantaggioso. Nell’ipotesi di assegnazione delle risorse in base al valore medio nazionale pro capite le tre Regioni che hanno richiesto il trasferimento delle funzioni avrebbero un surplus di 1,3 miliardi, mentre a perderci sarebbe soprattutto il Lazio, con una perdita teorica di olre 1,6 miliardi. Proprio il criterio di attribuzione delle risorse sarà uno dei nodi da sciogliere nelle riunioni dei prossimi giorni; ma l’orientamento è quello di far saltare la clausola di salvaguardia prevista dall’articolo 5 delle intese, che rimanda appunto al valore medio nazionale in caso di mancato accordo tra Stato e Regioni sull’adozione dei fabbisogni standard. Si tratta di criterio quanto mai rozzo, che porrebbe il Paese di fronte ad un dilemma: o sottrarre alle Regioni sopra la media i fondi da assegnare a quelle che invece sono sotto, rispettando in questo modo il principio di invarianza finanziaria della riforma, oppure prelevare risorse aggiuntive dal bilancio dello Stato (con nuove tasse o tagli di spesa) per compensare la differenza. Se alla fine il riferimento alla clausola sarà effettivamente abbandonato, il dossier dell’autonomia si trasformerà in una mini-riforma destinata probabilmente ad essere giudicata inutile da chi a suo tempo l’aveva proposta.
Un’analisi dettagliata delle conseguenze dell’approccio basato sul costo medio (che scatterebbe dopo tre anni di mancato accordo sui fabbisogni standard) è stata fatta da Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi dell’Università di Ferrara in un articolo uscito ieri sul sito lavoce.info. Nel testo vengono prese in considerazione le due ipotesi: regionalizzazione di tutte le funzioni richieste dalle Regioni, oppure stralcio dell’istruzione scolastica e universitaria. Nel primo caso, ci sarebbe in ballo (in base ai numeri della Ragioneria generale dello Stato) un importo complessivo di 16,2 miliardi, che diventerebbero 4,8 sottraendo gli 11,4 di scuola e università, che dunque valgono oltre i due terzi del totale.
In entrambe le situazioni, ciascuna Regione dovrebbe confrontare la propria spesa regionalizzata pro capite con quella media nazionale: lo sbilancio moltiplicato per il numero di abitanti dà l’ordine di grandezza delle risorse in eccesso o in difetto. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna avrebbero diritto a 2,7 miliardi in più e nel complesso vedrebbero incrementarsi del 17 per cento la spesa. La somma scende a 1,3 miliardi (con un aumento del 21 per cento) se si esclude l’istruzione come suggeriscono gli ultimi sviluppi della trattativa politica.

LA RINUNCIA
La rinuncia al trasferimento dei docenti e del restante personale nei ruoli regionali avrebbe un effetto positivo per alcune Regioni del Sud, che sono al di sopra della media per quanto riguarda l’istruzione ma non per le altre funzioni. Mentre l’esito resterebbe comunque disastroso per il Lazio, il cui scostamento complessivo dipende in larga parte proprio dalle funzioni diverse da scuola e università: un conto da 1,6 miliardi, solo di poco inferiore a quello che si avrebbe con la cessione di tutte le funzioni istruzione compresa.
Sulla questione il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ieri ha posto un limite chiaro alle autonomie: «Non devono diventare nuovi centralismi», ha detto. «Il rischio – ha aggiunto – è che al centralismo nazionale se ne aggiungano altri 20 regionali, che invece di semplificare complicano le cose».

Giorgio Zauli (Rettore Università di Ferrara) – Il modello di Medicina in Romagna

Lettera pubblicata martedì 23 luglio 2019 da Il Resto del Carlino ed. Forlì.

Il modello di Medicina

Faccio seguito al mio intervento sul Carlino del 9 luglio e delineo quella che dovrebbe essere, a mio avviso, la strategia per una maggiore integrazione fra le nostre quattro prestigiose Università pubbliche (Bologna, Ferrara, Modena-Reggio Emilia, Parma) e il sistema sanitario regionale pubblico e privato, con particolare riferimento al possibile ruolo delle Università di Bologna e di Ferrara nella nostra Romagna. La doverosa premessa è che cinque corsi di laurea in Medicina e Chirurgia costituiscano una ricchezza. La presenza dell’Università si accompagna sempre a innovazione con ricadute positive anche per il sistema sanitario. Il modello di maggiore integrazione in Italia è rappresentato dalla Lombardia, dove tanto i numerosi istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) quanto i corsi di laurea di Medicina sono stati valorizzati con un’efficace integrazione pubblico-privato, cooperazione-competizione sana e paritetica fra gli atenei lombardi e piena libertà di tutti i professori di potersi convenzionare con le strutture pubbliche o private accreditate della Regione Lombardia.

A Ferrara, l’ottima collaborazione fra l’Università e l’Azienda ospedaliero-universitaria rappresenta un esempio virtuoso di integrazione fra componente ospedaliera e universitaria: cinque primari ospedalieri con curriculum di elevata qualificazione scientifica sono stati chiamati come docenti straordinari a tempo determinato, affiancando i professori di ruolo dell’Università di Ferrara, che operano in regime di convenzione con l’Azienda di riferimento. Ritengo che una condizione indispensabile per un’operazione di successo e duratura, che esiti nel possibile avvio di uno o più corsi di laurea in Medicina e Chirurgia in Romagna, sia rappresentato dalla imprescindibile valorizzazione delle professionalità che già sono presenti negli ospedali di Forlì, Cesena, Ravenna, Rimini e negli Irccs di Meldola e in prospettiva di Cotignola. L’idea è quella di valorizzare al massimo le professionalità già presenti e operanti nelle strutture sanitarie della Romagna, avendo come unico riferimento la qualità scientifica dei potenziali professori universitari. L’Università di Ferrara c’è, è propositiva ed è pronta a sinergie con le altre Università della Regione e in particolare con Bologna.

Giorgio Zauli (Rettore Università Ferrara) – Medicina, in Romagna Ferrara c’è

Lettera pubblicata martedì 9 luglio 2019 da Il Resto del Carlino ed. Forlì.

Medicina, Ferrara c’è

Da forlivese amante della propria terra, seguo il dibattito sulle prospettive di Medicina in Romagna. Intendo quindi fornire alcuni dati essenziali per inquadrare la situazione. Primo: l’Università di Ferrara copre oggi circa il 70% della rete formativa dei medici in formazione specialistica per l’intera Romagna e l’Università di Bologna il restante 30%. Ciò ha profonde ricadute di tipo assistenziale ancor prima che formativo. Secondo: in Romagna presso strutture pubbliche e private lavorano già oggi stabilmente 3 prof associati dell’Università di Bologna (precedentemente tutti convenzionati con il Sant’Orsola) e 7 docenti di Ferrara (tutti assunti durante il mio mandato e convenzionati da subito con strutture sanitarie in Romagna). Fra questi, 2 prof ordinari di livello internazionale: Massimo Busin, direttore della Scuola di Specializzazione di Oftalmologia, e Giovanni Paganelli, direttore della Scuola di Specializzazione di Medicina Nucleare. Lo sforzo profuso da Ferrara meriterebbe ben più apprezzamento dagli attori istituzionali romagnoli e dalla Regione, essendo il ruolo centrale del nostro ateneo in Romagna in ambito Medicina misconosciuto quando non negletto.

Abbiamo quindi tutte le credenziali per poter avanzare un progetto di ampio respiro, inclusivo se possibile di tutte le università regionali, e in particolare di Bologna, per l’ulteriore sviluppo delle attività formative e di ricerca clinica in Romagna. È prematuro delinearne ora i contorni, in quanto se ne dovrà parlare nei luoghi deputati, in primis nel Comitato regionale di coordinamento dei rettori dell’Emilia Romagna. Posso solo anticipare che tanto l’eventuale istituzione di un nuovo corso di laurea di Medicina e Chirurgia, quanto l’attivazione di una o più sedi distaccate di corsi di laurea già esistenti richiedono una serie di passaggi tecnici regionali e nazionali né banali né scontate, anche in considerazione del fatto che in Regione sono già presenti cinque corsi di laurea in Medicina e Chirurgia (1 Parma, 1 Modena, 2 Bologna, 1 Ferrara). Nel vicino e più popoloso Veneto solo tre (2 Padova e 1 Verona). Realisticamente, solo un progetto forte e condiviso da tutti i rettori dell’Emilia Romagna potrà avere qualche chances di successo ed è bene che ciò sia chiaro ai decisori istituzionali romagnoli al netto di facili suggestioni foriere di successive disillusioni.

Medicina, un anno di test per il ‘modello Zauli’

Articolo di Federico Di Bisceglie pubblicato venerdì 5 luglio 2019 da Il Resto del Carlino ed. Ferrara.

Medicina, un anno di test per il ‘modello Zauli

Dall’anno accademico 2020-2021 sparirà la prova d’ammissione per i 602 aspiranti camici bianchi iscritti a Ferrara

La ‘pre sperimentazione’ della proposta del rettore di Unife, Giorgio Zauli è ai blocchi di partenza. I 602 posti concessi dal Ministero per le nuove immatricolazioni alla facoltà di medicina (al posto delle 183 attuali) fanno dell’ateneo ferrarese il secondo in Italia, dopo il policlinico ‘La Sapienza’ per disponibilità. Un risultato che il rettore, ieri, durante l’illustrazione del nuovo piano di indirizzo per la facoltà, ha definito «storico». «Tutto nasce da una scampagnata a Roma – dice – un anno fa quando, assieme all’allora consigliere regionale Alan Fabbri (seduto accanto a lui al tavolo dei relatori), illustrammo la proposta di superamento del numero chiuso per accedere a Medicina al presidente della commissione per la pubblica istruzione in Senato, Mario Pittoni il quale, da subito, sembrò apprezzare la nostra idea. Tanto che, dopo l’audizione parlamentare, coinvolgendo anche il ministro Marco Bussetti e il ministro Giulia Grillo, ci ha permesso di arrivare a questo punto di svolta». Svolta sotto tanti punti di vista, a partire dalla modalità con la quale gli studenti dovranno affrontare gli esami che, da prove orali, passeranno ad essere scritte. Tra i criteri che gli studenti dovranno rispettare ci sarà quello del profitto: dall’anno accademico 2020/21 (e da quest’anno in via sperimentale), per poter continuare nel corso di laurea gli studenti dovranno raggiungere i 40 crediti formativi entro gennaio e superare tutti gli esami del primo semestre del primo anno con una media uguale o superiore a 27 trentesimi. Ad ogni modo per l’anno accademico 2019, per accedere a Medicina gli studenti dovranno affrontare il test nazionale. L’unico nodo da sciogliere è quello relativo alla discriminante per l’ingresso tra i 600 posti di sperimentazione. Pare che si affacci l’ipotesi del ‘click day’: chi più rapido sarà ad iscriversi, più chance avrà di entrare. Tornando ai numeri, c’è un dato che Zauli reputa significativo e che ha carattere nazionale. «L’intento dei ministri – incalza – era quello di aumentare i posti disponibili alle facoltà di medicina del 20%. Con i decreti di assegnazione di posti del Miur ai diversi atenei siamo arrivati ad un incremento del 18%. Unife rappresenta, in questo senso, un quarto dell’incremento su scala nazionale».

Anche il sindaco, Alan Fabbri plaude all’iniziativa. «Si tratta di una grande sfida per questa città – incalza il sindaco -. Una sfida e un arricchimento dal punto di vista culturale, sociale ed economico». Memore del grande boom di iscritti che provocò non pochi disagi due anni fa, a seguito dell’apertura del corso di biotecnologie, Fabbri annuncia le prime mosse dell’amministrazione in tema di gestione degli alloggi. «Abbiamo già preso contatti con i mediatori per gli affitti anche a livello provinciale per evitare l’impasse del 2017 – illustra il leghista -; in più ci stiamo attivando per corroborare la rete dei trasporti e dei collegamenti con i quartieri anche della prima periferia della città». Peraltro, il sindaco confida che ci sarebbero già «molti imprenditori privati interessati ad investire nel comparto edilizio». Al di là peraltro degli spazi già predisposti negli studentati. Non ultime ‘Le Corti di Medoro’.

I doveri di UniFe e del rettore Zauli, scienziato

Articolo di Daniele Oppo pubblicato giovedì 4 luglio 2019 sul suo blog.

I doveri di UniFe e del rettore Zauli, scienziato

Background

Quando nell’aprile 2019 chiamai al telefono il rettore dell’Università di Ferrara, Giorgio Zauli, per conoscere da lui – unico a poterlo svelare – l’esito dell’indagine della Commissione Etica di UniFe nei suoi confronti, mi liquidò con un netto “non ho tempo da perdere”, chiudendo poi la comunicazione. A tre mesi di distanza, piccato dall’azione di quel gran ficcanaso del prof Lucio Picci, docente a UniBo, ha rivelato, con uno scritto terribile (in cui cita male niente di meno che Joseph Goebbels) che

“Dopo oltre sei mesi di approfondimenti la Commissione Etica ha archiviato il caso non essendo emersi a mio carico né elementi dolosi né di colpa grave”

Me ne congratulo personalmente, lo sapeva solo da gennaio e come lui gli organi interni a UniFe:

Dell’esito dei lavori della Commissione Etica sono stati puntualmente informati il Senato Accademico ed il Consiglio di Amministrazione nel mese di gennaio 2019.

Chissà che fatica gli sarebbe costata dirmelo direttamente quel giorno d’aprile, dopo avermi bypassato per lungo tempo (il suo ex portavoce, Andrea Maggi, forse ricorderà le mie chiamate con cadenza quasi settimanale e come mi rimbalzava spiegandomi che il rettore – nel frattempo disponibile per varie interviste su altri temi – era molto impegnato. Non ce l’ho con Maggi, faceva il suo lavoro [?]).

Chissà per quale motivo, dopo avergli chiesto pubblicamente un atto di trasparenza, ha deciso d’ignorare completamente il mio invito (a parte il fatto che sono un signor nessuno che non conta un tubo, s’intende, ma insomma, scrivo per un quotidiano che nella ‘sua’ Ferrara un peso lo ha, eccome).

Stando a quanto scrive, il motivo andrebbe ricercato nel fatto che

 l’Università non è in alcun modo obbligata a rendere pubblicamente conto agli organi di stampa dello svolgimento e/o degli esiti dei procedimenti interni o esterni condotti nei confronti di qualsiasi membro della comunità accademica.

Il che, per carità, sarà anche formalmente vero.

Ma Zauli, volontariamente o meno, non considera una cosa: è stato accusato di aver pubblicato delle ricerche scientifiche contenenti dati e immagini manipolate. Non è un fatto esclusivamente interno all’Università di Ferrara: non è stato accusato di aver adottato pratiche amministrative discriminatorie, è stato accusato di aver pubblicato (dunque reso pubbliche, per tutti e non per la sola UniFe) delle ricerche scientifiche problematiche dal punto di vista dell’integrità dei dati. La ricerca scientifica è per sua stessa essenza pubblica. Il ricorso alla Commissione Etica, peraltro e come da lui stesso ammesso, non è una sua iniziativa diretta ma è la sua risposta al ricorso presentato per primo da Leonid Schneider (giornalista e blogger tedesco che per primo ha rilevato le tante segnalazioni apparse su PubPeer) e respinto perché privo di legittimazione ad agire essendo esterno all’Ateneo. La stessa Commissione Etica ha affermato di aver preso in considerazione il caso partendo dalle istanze difensive del rettore e considerandole come autonoma richiesta di valutazione. Una risposta che è arrivata dopo che sia Sylvie Coyaud che io su Estense.com (e in misura minore anche la Nuova Ferrara, che poi ha abbandonato) abbiamo ripreso la questione a livello nazionale e locale, per lungo tempo inascoltati.

Lo stimolo è esterno, non interno. E la richiesta del rettore nasce per rispondere ad esso.

La risposta odierna di Zauli non permette di capire se quelle ricerche – pur senza il concorso di un suo dolo o di una sua colpa grave – siano o meno inficiate nella loro validità. Perché la domanda che da (ex?) giurista mi pongo è: se l’esito della valutazione della commissione è che non sono stati ritenuti presenti dolo o colpa grave in Zauli, c’è una qualche condotta sbagliata in quelle ricerche? C’è una colpa comunque, seppure non grave? Chi riguarda? Altri membri dei team di ricerca? C’è davvero una ‘manipolazione’ – per quanto involontaria o non controllabile da Zauli – dei dati e delle immagini?  È necessario saperlo, perché sono ricerche finanziate probabilmente con denaro pubblico o raccolto tra il pubblico, svolte all’interno di Università e laboratori di ricerca pubblici.

Sapere se sono da considerarsi difettose è interesse pubblico e per questo il rettore o gli altri organi accademici di UniFe che sono a conoscenza della situazione avrebbero l’obbligo morale ed etico (anche se il richiamo agli obblighi etici non sembra essere molto gradito a Zauli in un strano accostamento con la minaccia di stato etico dal quale lui rifugge, come il sottoscritto) di renderlo noto e non per puntare per forza il dito contro qualcuno, ma per preservare la qualità e la credibilità della ricerca accademica e scientifica, in un campo così sensibile come è la ricerca biomedica, che ha a che fare con la salute e la vita umana.

Conoscere l’esito completo e il percorso decisionale adottato dalla Commissione Etica permetterebbe di capire se quelle ricerche hanno ancora un valore e quale sia, permetterebbe alle riviste scientifiche che le hanno pubblicate di valutare, eventualmente, una ritrattazione o chiedere delle correzioni. Permetterebbe, insomma, al processo scientifico di compiere appieno il suo corso, di azionare i meccanismi di autocorrezione che lo hanno reso così efficace nella storia del pensiero e dell’azione umana e che non si esauriscono nella revisione tra pari, ma continuano, come è naturale che sia, anche dopo la pubblicazione.

Essere completamente trasparente in questa vicenda forse non è un dovere che gli compete in quanto rettore, gli compete però in quanto scienziato.

Lucio Picci (Università di Bologna) – Da Ferrara mi scrivono

Articolo pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 dal blog “ci penserò sopra”.

Da Ferrara mi scrivono

Il Rettore dell’Università di Ferrara, Prof. Zauli, mi dedica una lettera personale in risposta a quanto ho scritto.

Mi pare che in essa vi siano due questioni da sottolineare. Per primo, il Rettore Zauli dichiara, a proposito delle conclusioni della Commissione etica del suo ateneo circa le accuse di un noto whistleblower tedesco:

“Dopo oltre sei mesi di approfondimenti la Commissione Etica ha archiviato il caso non essendo emersi a mio carico né elementi dolosi né di colpa grave.”

Me ne rallegro; ma ci voleva così tanto a farlo sapere? E’ vero (purtroppo, aggiungo) che, come scrive il Prof. Zauli, “l’Università non è in alcun modo obbligata a rendere pubblicamente conto agli organi di stampa […] degli esiti [di tali] procedimenti […]”. Ma questo può applicarsi anche al Rettore, considerato il costo reputazionale per l’istituzione? E’ vero che l’Università di Ferrara “non è tenuta”, ma chi venga scagionato, mi pare, senz’altro “può” render pubblici gli atti. E secondo me, in un tal caso, dovrebbe – per responsabilità e per senso dell’istituzione.

E inoltre: chi avrebbe formulato delle accuse false (se ben capisco, e ovviamente non avendo letto le conclusioni raggiunte dalla Commissione etica, essendo esse segrete) è stato informato? Lo chiedo, dato che a distanza di mesi, quei documenti sono ancora pubblici.

E a fronte di un tale scagionamento di cui gli organi collegiali dell’Università di Ferrara sono edotti: scrivevo che a mio avviso sarebbe stata doverosa (da parte dei docenti) “solidarietà, e difesa della propria Università ingiustamente insultata”. Sino ad ora tale solidarietà non si è registrata, ma ora che tutti sono informati, magari si rimedierà. Nel qual caso, la mia critica a quei colleghi ad oggi silenti perderà ragione d’essere, e con loro anzi mi scuserò pubblicamente – per quanto penso che non sia sfuggito il carattere retorico della mia posizione.

Seconda questione, il Rettore scrive: “Intendo quindi applicare lo stesso rigore che ho applicato a me stesso a tutti coloro che per protagonismo o forse per ragioni non dichiarate si permettono attacchi gratuiti e diffamatori. È mia ferma intenzione salvaguardare la reputazione mia personale e dell’Ateneo in tutte le opportune sedi.”

E’ un po’ triste che la si butti sull’attacco personale e che si facciano insinuazioni, francamente offensive. Quali “ragioni non dichiarate”? Perché voler screditare personalmente l’interlocutore? E’ chieder molto, a una figura pubblica, serenità, e ragionamenti sul merito delle questioni?

A far domande e ad esprimere opinioni sull’agire delle nostre istituzioni non si diffama nessuno. E nel caso che le parole del Rettore dell’Università di Ferrara annuncino una prossima azione legale nei miei confronti: bene, si andrà sino in fondo. Amo le questioni di principio: la libertà di espressione e di rivolgere critiche a un’istituzione pubblica sono sacri diritti. Difenderli – in qualunque sede, appunto – sarà sicuramente degno di una buona battaglia: soprattutto in un’epoca in cui, forse, è giunta l’ora di spendersi in nome di qualche principio a noi caro. Considerando inoltre la protezione che la Costituzione offre al diritto di espressione e di critica (soprattutto, nella giurisprudenza, verso le personalità pubbliche o che comunque esercitano una funzione pubblica) senz’altro eventualmente contemplando la possibilità di andare oltre a una mera difesa.

Riservandomi, per ultimo, di chiarire le diramazioni e le implicazioni del parallelo proposto con Joseph Goebbels (due “B”) che, credo, richiederebbe se non altro una scusa pubblica da parte del Magnifico Rettore dell’Università di Ferrara: certi confronti feriscono molto. Non fanno onore all’Università e alla città di Ferrara, la cui storia forse il Rettore Zauli non conosce abbastanza bene.

Proviamo però a vederci qualcosa di positivo in questa vicenda: penso che si possa dire che, se non avessi scritto quel che pensavo, il Rettore dell’Università di Ferrara non avrebbe chiarito pubblicamente i fatti. E togliendomi l’abito professorale, e indossando quello di cittadino, un po’ scorato mi chiedo: ma perché in Italia, per avere un po’ di trasparenza dalle nostre istituzioni, si deve sempre “piantare un casino”?

Risposta del Rettore Giorgio Zauli (Università di Ferrara) al Prof. Lucio Picci di Unibo

Intervento pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 sul portale dell’Università di Ferrara.

Risposta del Rettore al Prof. Lucio Picci di Unibo

Ho atteso fino ad oggi prima di emanare questo comunicato, attendendo che il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della Trasparenza dell’Ateneo rispondesse alla e-mail ricevuta dal prof. Picci di Unibo a dir poco irrituale e offensiva nei confronti miei personali, del Senato Accademico così come di tutto il corpo docente.

Contravvenendo Goebels, il quale affermava che una bugia ripetuta 100 volte diventa una verità, cerchiamo di ristabilire la verità dei fatti, riassumendo questa vicenda i cui contorni strumentali e volutamente diffamatori saranno affrontati nelle opportune sedi legali.

Nel maggio 2018, a seguito della segnalazione di un blogger tedesco alla nostra Commissione Etica circa presunte irregolarità in immagini pubblicate in alcune mie pubblicazioni scientifiche, la Commissione Etica aveva ritenuto di non procedere in quanto l’istanza era stata dichiarata inammissibile per carenza di legittimazione ad agire da parte del blogger ai sensi del Codice Etico dell’Università.

Viceversa, di mia iniziativa, ho presentato istanza affinché “il caso” dinnanzi alla Commissione Etica fosse incardinato e si potesse sviluppare il procedimento nei miei confronti non avendo nulla da nascondere. In questo modo il procedimento si è regolarmente svolto fino all’epilogo finale. Ho messo a disposizione una relazione sui fatti contestati, che era nella disponibilità non solo della Commissione Etica ma anche di tutto il personale docente e non docente d’Ateneo.

Per evitare qualsiasi tipo di condizionamento nei confronti della Commissione Etica ho ritenuto imprescindibile non tenere alcun rapporto con la suddetta Commissione, interfacciandomi con la stessa solo nel momento della mia audizione a difesa.

Dopo oltre sei mesi di approfondimenti la Commissione Etica ha archiviato il caso non essendo emersi a mio carico né elementi dolosi né di colpa grave. Il Presidente della Commissione Etica, concluso il procedimento mi ha dato atto a più riprese di non avere interferito in alcun modo con i lavori della medesima Commissione.

Dell’esito dei lavori della Commissione Etica sono stati puntualmente informati il Senato Accademico ed il Consiglio di Amministrazione nel mese di gennaio 2019.

Ricordo che l’Università non è in alcun modo obbligata a rendere pubblicamente conto agli organi di stampa dello svolgimento e/o degli esiti dei procedimenti interni o esterni condotti nei confronti di qualsiasi membro della comunità accademica.

Spiace quindi che a distanza di molti mesi un professore di altro Ateneo si permetta senza avere alcun elemento conoscitivo su questa vicenda non solo di sollevare dubbi pesanti sulla mia personale integrità scientifica, ma addirittura si spinga di fatto a tacciare di inerzia e acquiescenza il corpo docente del nostro Ateneo.

In un assurdo capovolgimento dei ruoli, la mia condotta assolutamente specchiata viene tacciata di opacità e vengono di fatto insultati i professori dell’Ateneo.

Intendo quindi applicare lo stesso rigore che ho applicato a me stesso a tutti coloro che per protagonismo o forse per ragioni non dichiarate si permettono attacchi gratuiti e diffamatori. È mia ferma intenzione salvaguardare la reputazione mia personale e dell’Ateneo in tutte le opportune sedi.

Il Rettore Giorgio Zauli

Giorgio Zauli (Rettore Università di Ferrara): «I bandi di concorso sono aperti a tutti: da noi ampio spazio ai giovani»

Articolo pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 da Il Resto del Carlino ed. Ferrara.

«I bandi di concorso sono aperti a tutti: da noi ampio spazio ai giovani»

Come noto a tutti, il bando di qualsiasi concorso pubblico (assegno di ricerca incluso), è per definizione aperto a tutti senza poter operare discriminazioni in termini di età, sesso, religione. È un principio costituzionale sacro, che pertanto non dovrebbe sfuggire a un insigne costituzionalista. Purtroppo, proprio nell’ambito delle attività del centro e-learning d’Ateneo, abbiamo da anni altri esempi di assegnisti ultra-cinquantenni, sui quali stranamente il professor Bin non ha nulla da obiettare. Forse perché, a differenza del dottor Andrea Maggi, non hanno deciso di esercitare i propri diritti politici anch’essi garantiti dalla Costituzione? L’unico limite per il mantenimento dell’assegno di ricerca è dato dalla legge 240/2010: non possono essere svolti assegni di ricerca per un periodo superiore ai 6 anni complessivi (12 anni includendo il percorso di Rtd-A e Rtd-B).

Mentre il professor Bin lamenta giustamente il poco spazio che gli Atenei italiani riservano ai giovani, omette di ricordare, (forse non ne era a conoscenza), il fatto che con il proprio pensionamento anticipato il dottor Maggi ha consentito di liberare un posto per giovani precari del personale tecnico amministrativo. L’Ateneo ferrarese è l’unico che ha stabilizzato tutti i precari che potevano usufruire del comma 1 della legge Madia e si accinge a stabilizzarne altri sfruttando il comma 2 della legge Madia. È facile dimostrare che sotto il mio rettorato il numero di giovani ricercatori è incrementato in maniera notevolissima rispetto al rettorato precedente preso a riferimento. È altresì facile dimostrare che mi sono comportato in maniera esattamente opposta alla pretesa autocrazia, attribuitami dal professor Bin. Al contrario, tutte le istanze di autotutela di qualsivoglia candidato a concorso sono state pienamente considerate per tutelare i diritti di tutti. L’Ateneo di Ferrara è stato recentemente premiato per la sua amministrazione trasparente. Infine, stupisce che il professor Bin non abbia ritenuto di dimostrare fattualmente la sua spiccata sensibilità per le nuove generazioni, andando in pensione a quasi 71 anni, e non anticipatamente come generosamente fatto da altri colleghi proprio per dare una possibilità ai più giovani di entrare stabilmente in Università mediante le apposite procedure concorsuali.

Quando poi si passa da considerazioni giuridiche a considerazione etiche, il terreno diventa estremamente scivoloso. A me personalmente piace lo Stato liberale come immaginato da Luigi Einaudi e ho l’orrore degli Stati etici.

Università di Ferrara, un assegno di ricerca al pensionato Maggi

Articolo di Federico Malavasi pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 da il Resto del Carlino ed. Ferrara.

«Un assegno di ricerca al pensionato Maggi»

L’esposto presentato da docente Unife alla Corte dei conti. Sotto la lente il curriculum dell’ex portavoce del rettore e neo assessore: «Ipotesi danno erariale»

Un assegno di ricerca Unife conferito all’ex portavoce del rettore e neo assessore ai lavori pubblici Andrea Maggi nonostante quest’ultimo fosse già in pensione. Un fatto finito di recente al centro di un esposto depositato alla procura della Corte dei conti dell’Emilia Romagna e che il denunciante, il docente di diritto costituzionale Roberto Bin, non esita a definire «contra legem». La vicenda è approdata all’attenzione della magistratura contabile il 10 di giugno, cioè il giorno successivo al ballottaggio che ha decretato la vittoria della coalizione di centrodestra di cui Maggi è un elemento di spicco. Questo, spiega Bin, «è perché non volevo sembrasse un gesto politico». La ragione della segnalazione del costituzionalista sta tutta nell’oggetto del documento: «Utilizzo improprio dei fondi universitari per la ricerca e i giovani ricercatori dell’Università».

L’esposto del docente scava nel passato del neo assessore, partendo proprio dall’oggetto dello ‘scandalo’, cioè l’ultimo incarico in Ateneo. All’ex portavoce del rettore e addetto stampa di Unife, «cessato dal servizio per pensionamento», è stato conferito un «assegno di ricerca presso il dipartimento di Morfologia, chirurgia e medicina sperimentale». Insomma, puntualizza il giurista, il «dipartimento di appartenenza del rettore Giorgio Zauli». Il verbale di assegnazione è datato 23 novembre 2016. Per sostenere la sua tesi, Bin confronta l’oggetto dell’assegnazione con i precedenti lavori di Maggi. Ed ecco che nel curriculum dell’assessore compare un incarico di insegnamento di Tecniche delle pubbliche relazioni nel corso di laurea in Comunicazione pubblica, della cultura e delle arti. Una docenza che, incalza Bin, «nulla c’entra con l’area disciplinare del dipartimento» relativo all’assegno di ricerca. E che, sempre secondo il costituzionalista, rappresenta un’anomalia. «Nelle sue pubblicazioni, tutte conformi alla sua attività di giornalista di Ateneo – si legge nel testo arrivato all’attenzione della Corte dei conti -, nulla indica qualche interesse per il mondo della medicina». Non solo. Per il denunciante, il tema di ricerca messo a concorso (‘Tecniche informatiche multimediali nei processi di internazionalizzazione e di divulgazione delle attività di ricerca in ambito scientifico e medico’) sarebbe quanto di più lontano dalle competenze e dai trascorsi professionali di Maggi. Sull’argomento, recita ancora l’esposto, «il suo curriculum non porta precedenti» e l’attività «non sembra avere generato alcuna ricerca, neanche a livello di progetto».

Da qui l’affondo finale. «È evidente – attacca Bin – che l’assegno è una forma indebita per contrattualizzare il proseguimento delle attività precedentemente svolte nel ruolo universitario». Il tutto, ragiona il giurista, «a scapito di tanti bravi ragazzi che non hanno sbocchi e vengono lasciati lì senza stipendi a causa di assegni sempre più centellinati. Ritengo che la condotta descritta nell’esposto configuri un danno erariale, oltre ad essere una situazione inaccettabile. Ferrara non è ricchissima. Così la si affossa».