Archivi tag: Emilia-Romagna

Al Sud è vietato il Politecnico

Articolo di Domenico Cacopardo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da ItaliaOggi.

Al Sud è vietato il Politecnico

Per legge, non si possono aprire succursali che sono ostacolate dalle pesanti baronie locali

Che la questione autonomia allargata non sia un capriccio politico o non soltanto un passo per la dissoluzione dello Stato unitario, me l’hanno mostrato le numerose e-mail ricevute dopo l’articolo di ieri, nel quale, tra l’altro, evocavo il disastro dell’istituzione delle regioni, l’invenzione dei tecnici democristiani e comunisti per assicurarsi nel 1947 una sorta d’insediamento permanente nella società e nell’architettura costituzionale del nostro Paese. C’è, quindi, un disagio diffuso al quale lo Stato nazionale deve dare qualche risposta, in coerenza con le norme della Costituzione modificate su input del centro-sinistra, con le mani di Franco Bassanini. Cercherò di percorrere una strada più esemplificatrice del passato, facendo parlare i fatti, non i pregiudizi o l’ideologia. Partiamo dagli esami di maturità che definiscono lo stato di preparazione degli studenti che hanno completato gli studi medi superiori (high school). Il ministero della pubblica istruzione comunica che il maggior numero dei 100 e dei 100 e lode si è verificato al Sud, a partire dalla Puglia, regione che detiene il record. Questo dato va confrontato con i punteggi conseguiti nelle prove Invalsi, l’unico metodo stabilizzato internazionale che definisce con una metodologia universalmente (o quasi) accettata, il livello della preparazione degli studenti (e indirettamente la capacità degli insegnanti, che, almeno nel bel Paese pour cause si sono sempre opposti all’applicazione del metodo). Ebbene, per l’Invalsi la situazione è opposta: proprio le regioni del 100 e del 100 e lode sono quelle nelle quali i coefficienti Invalsi sono i più bassi, denunciando soprattutto una grave insufficienza nelle prove di italiano. In Calabria e in Campania il 60% dei ragazzi non ha mostrato le conoscenze minime richieste dal test. Se avete dimestichezza con qualche professore universitario potrete avere diretta conferma del fatto che la preparazione degli studenti provenienti dal Sud è in genere più scarsa di quella di coloro che vengono dal Nord e che ciò si riflette sulla comprensione dei testi di studio e delle lezioni. Tra parentesi, se pensiamo all’atavico gap del Sud e delle isole, prima di decidere interventi finanziari ed economici, occorrerebbe immaginare un intervento organico sulla scuola e sulle università: una strada che comporterebbe qualche decina di anni di cure speciali, ma che è l’unica per far entrare in Europa un pezzo di Italia che, al di là della retorica, ne è rimasta fuori. Soprattutto nelle università: c’è solo una ragione corporativa e un’inaccettabile chiusura mentale e morale, per rifiutare, com’è stato rifiutato, che, per esempio, il Politecnico di Milano aprisse una scuola in Sicilia. Addirittura è la legge che proibisce al Politecnico meneghino, a quello torinese, alla Bocconi e via dicendo, di entrare nell’enclave clientelare e baronale costituita dal sistema universitario di Sud e isole. Se si vuol fare qualcosa, basterebbe un decretino (non uno dei decretoni cui ci ha abituato Conte) di un solo articolo: «È abrogato il divieto ecc. ecc.» Un altro tema caldo che non può essere dimenticato riguarda il livello e la qualità della spesa pubblica. Anni fa, regnante (con difficoltà e l’ostilità di Silvio Berlusconi) al Tesoro quel personaggio spesso sottovalutato, a torto, che si chiama Giulio Tremonti e al Lavoro Maurizio Sacconi, l’unico politico e ministro che avesse studiato la materia, si cercò di porre all’odg del Paese la questione dei costi standard. Detta in parole povere: qualcuno, alla Ragioneria dello Stato aveva scoperto (numeri solo dimostrativi) che l’ago da puntura fornita agli ospedali del Sud e delle isole costava alcuni multipli in più di quanto non costasse al Centro (così così) e al Nord. Insomma, come nella scuola, una sorta di inversione dei dati di base: dove i costi della sanità sono minori, l’efficienza è maggiore (e sappiamo tutti che c’è un biblico correre al Nord del malati del Sud, Napoli compresa); dove i costi sono maggiori, minori i risultati. L’extra-costo concentrato al Sud e isole è il prezzo di corruzione, criminalità e clientelismo. L’approccio, quindi, alle finanziarie, immaginato da Tremonti e Sacconi avrebbe comportato un avvicinamento dei conferimenti al Sud e isole ai costi standard definiti sulla media nazionale dei costi. Chiaro? Ovviamente l’ostilità all’iniziativa ha vinto confinandola ai margini delle manovre finanziarie dello Stato. Allora, dunque, che fare? Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pretendono un’autonomia allargata che non faccia pagare loro il prezzo delle dissipazioni, del clientelismo, della criminalità del Sud e delle isole. Fattori tutti che sono incistati nella politica regionale e comunale e che sono rimuovibili soltanto con tagli degli apporti finanziari. Il punto è che molti dissentono sulla strada intrapresa: un nuovo equilibrio economico e istituzionale a favore del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) può non essere un adeguato incentivo al miglioramento della qualità della spesa nelle altre regioni. Anzi, è possibile che aggravi gli squilibri e accentui le tendenze centrifughe. Tuttavia, la guerra mossa dai 5Stelle (con motivazioni light, niente di serio e approfondito che ci potrebbe e dovrebbe essere), all’ipotesi di autonomia allargata è sospetta: i grillini non sono espressione del Sud e delle isole che vogliono migliorare e accorciare le distanza dal Nord e dall’Europa, ma del Sud e delle isole parassitarie abituate ai sussidi e agli impieghi pubblici (non ai lavori). La partita in corso non vedrà, almeno per ora, una soluzione convincente. E, alla fine risulterà decisiva nella sopravvivenza della formula di governo. Ma solo per tifoserie, non per problemi reali, come quello di cogliere l’occasione per riqualificare la spesa al Sud e nelle isole. Una riqualificazione che provocherebbe una crisi del clientelismo e del mal governo che da quelle parti dominano da oltre un secolo.

Cesare Mirabelli – L’Autonomia tradisce la Costituzione. Ecco perché

Articolo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da Il Messaggero.

L’Autonomia tradisce la Costituzione. Ecco perché

La richiesta della Lombardia e del Veneto, oltre che dell’Emilia-Romagna, di ottenere «forme e condizioni particolari di autonomia», differenziate rispetto alle altre Regioni a statuto ordinario, anima le polemiche politiche di questi giorni e manifesta, nella attuazione del principio autonomistico, una insidia.
La Costituzione afferma che la Repubblica «riconosce e promuove» le autonomie territoriali, dando corpo al principio di sussidiarietà tra le istituzioni, per il quale i poteri connessi alla rappresentanza politica e alla pubblica amministrazione devono essere esercitati al livello di maggiore efficienza, vicinanza e controllabilità da parte dei cittadini. Allo stesso tempo la Costituzione stabilisce che la Repubblica, della quale Stato e Regioni sono componenti, è «una e indivisibile», affermando un principio che la Corte costituzionale ha considerato uno dei «principi supremi dell’ordinamento costituzionale», sottratto anche alla revisione della costituzione.

L’unità e indivisibilità non ha solamente carattere territoriale, vietando la secessione. Unità e indivisibilità sono elementi essenziali della comunità nazionale, nella quale si esprime, come dovere inderogabile dei cittadini e obiettivo delle istituzioni, la solidarietà politica, economica e sociale.
Questi principi trovano espressione anche nel disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e Regioni, e devono costituire le fondamentali linee guida per la attribuzione di una particolare autonomia alle Regioni che ne fanno richiesta.

La Costituzione pone specifici limiti e vincoli di carattere formale e di sostanza. La legge che attribuisce le forme e condizioni particolari di autonomia deve essere approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di una intesa tra il Governo e i rappresentanti della Regione interessata. La specifica determinazione di queste “forme e condizioni” di autonomia non può essere rimessa, con delega al Governo, a successivi decreti legislativi, sui quali non si esprimerebbe un voto delle Camere di approvazione ed una maggioranza qualificata.
L’autonomia differenziata è inoltre circoscritta nelle materie indicate dall’articolo 116 della Costituzione, che non possono essere integrate con il ricorso a questa procedura. In altri termini, la legge ordinaria non può ampliare le materie determinate dalla Costituzione, come invece si riscontra per le cinque Regioni a statuto speciale, il cui statuto è adottato con legge costituzionale.

Altrettanto chiari sono i vincoli che la Costituzione pone dal punto di vista sostanziale. L’attribuzione dell’autonomia differenziata ad alcune Regioni deve rispettare i principi, espressamente richiamati dall’articolo 116 della Costituzione, del cosiddetto federalismo fiscale, stabiliti nell’articolo 119. Le Regioni, come gli altri enti territoriali, devono avere tributi propri e disporre di compartecipazione al gettito dei tributi statali riferibili al loro territorio.
Ma questo non significa che ogni Regione deve ricevere e tenere per sé tutto quello che è prodotto nel suo territorio. Un “fondo perequativo” istituito dallo Stato deve riequilibrare la attribuzione delle risorse per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Non basta che il fondo esista, deve essere dotato delle risorse necessarie per finanziare in tutte le Regioni, e negli enti territoriali, le funzioni pubbliche loro attribuite.

È evidente, per esemplificare, che su Roma gravano gli oneri connessi all’essere capitale, funzione questa svolta nell’interesse dello Stato, e il cui finanziamento non può essere posto a carico della comunità cittadina. Inoltre lo Stato deve destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali per rimuovere gli squilibri esistenti e promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale. Ancora una volta, per rispettare quanto la Costituzione prescrive, le risorse aggiuntive devono essere adeguate in relazione al fine da perseguire.
Questo quadro rende evidente che l’autonomia differenziata è questione nazionale e non di interesse esclusivo delle Regioni che ne hanno fatto richiesta. È compito dello Stato, e per esso del Governo che costituisce il centro di imputazione unico e unificante delle trattative per le intese con le singole Regioni, avere una propria visione ed assicurare la compatibilità e la coerenza tra unità e autonomie. È un percorso stretto, che richiede un forte esercizio di ragionevolezza.

Il rischio è che l’autonomia differenziata costituisca uno strumento che consolida la divaricazione esistente o determina una nuova frattura nelle condizioni economiche e sociali del Paese. La frammentazione delle discipline e il permanere di Regioni svantaggiate si ripercuoterebbe anche sulla crescita di quelle più sviluppate.
Esiste anche una opportunità: procedendo con il rispetto delle forme, per gli obiettivi di valorizzazione delle autonomie e di garanzia della solidarietà che la Costituzione prevede, si potrebbe delineare, senza forzature nei modi, nei tempi e nei contenuti, una riforma non destinata, come è già accaduto in passato, a determinare nuovi conflitti e ad essere giudicata nel tempo negativamente anche da chi la ha promossa.

Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi (Università di Ferrara) – Dove ci guadagnano le tre regioni in cerca di autonomia

Articolo pubblicato martedì 23 luglio 2019 dal sito di lavoce.info.

Dove ci guadagnano le tre regioni in cerca di autonomia

Il negoziato sulla maggiore autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna rischia di bloccarsi sull’istruzione. Ma anche escludendola, il passaggio potrebbe risultare molto conveniente per le tre regioni se i fabbisogni standard non fossero adottati

Quanto vale l’istruzione

Tra le materie su cui Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna chiedono più autonomia dallo stato centrale, la funzione che ha il rilievo finanziario maggiore è quella dell’istruzione scolastica e universitaria. Per questo, in un nostro precedente articolo su lavoce.info avevamo ipotizzato un sistema di compartecipazioni per distribuire le risorse necessarie a decentralizzarla. Ora però pare che il vertice a Palazzo Chigi di venerdì 19 luglio abbia cancellato dal possibile accordo la regionalizzazione dell’istruzione, che avrebbe implicato contratti e stipendi su base regionali e programmi scolastici diversi. La decisione non sembra comunque ancora definitiva, visto che i governatori di Veneto e Lombardia hanno dichiarato di non voler firmare un’intesa che stralci questa materia. Tuttavia, la battaglia potrebbe essere fatta sulle risorse a disposizione delle regioni.

Facciamo un passo indietro e vediamo quali sono le funzioni regionalizzabili in base alle intese sul federalismo differenziato del 25 febbraio 2019 siglate dal presidente del Consiglio e dai presidenti delle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.

Oltre all’istruzione scolastica e universitaria, quelle non meramente amministrative, che implicano cioè un trasferimento di spesa, sono sviluppo sostenibile e tutela del territorio, politiche per il lavoro, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, diritto alla mobilità e sistemi di trasporto (per Emilia Romagna si escludono porti e aeroporti civili), competitività e sviluppo delle imprese, energia (non per l’Emilia Romagna), protezione civile, comunicazioni (non per l’Emilia Romagna), commercio con l’estero.

Secondo i dati predisposti dalla Ragioneria generale nel 2017 il totale della spesa da decentrare alle regioni che hanno chiesto l’autonomia è di 16,2 miliardi di euro, di cui 11,4 miliardi circa sono spesa per istruzione. Questa sarebbe la distribuzione di risorse se seguissimo il criterio della spesa storica. Quindi se viene rimossa la spesa per istruzione, la torta si ridimensionerebbe molto: 4,8 miliardi di euro.

Dai fabbisogni standard alla spesa pro capite

Ciò su cui si insiste molto, tuttavia, è l’autonomia finanziaria, ovvero lasciare alle regioni il gettito tributario necessario a finanziare le funzioni decentrate. L’articolo 5 delle intese definisce il modo in cui devono essere attribuite le risorse finanziarie. In particolare, nel caso in cui non venissero adottati i fabbisogni standard, vi è una clausola di salvaguardia secondo la quale, dopo tre anni dall’approvazione dei decreti, l’assegnazione non può essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale.

Quindi, se non fossero utilizzati i fabbisogni standard, come conferma anche il recente intervento della Corte dei conti: “le risorse finanziarie che lo stato dovrebbe trasferire alle regioni ad autonomia differenziata potrebbero risultare superiori a quelle attualmente spese in quei territori”.

Tabella 1 – Spesa regionalizzata pro capite delle regioni a statuto ordinario

Fonte: rielaborazioni su dati della Ragioneria generale dello stato, anno 2017

La tabella 1 mostra (all’ultima riga) come la media pro capite nazionale della spesa regionalizzata per tutte le funzioni richieste equivale a 976 euro pro capite. L’Emilia Romagna avrebbe una spesa di 871 euro pro capite, il Veneto di 901 e la Lombardia di 789. La differenza da colmare rispetto alla media nazionale è di 105 euro pro capite per l’Emilia Romagna, 187 per La Lombardia e 75 per il Veneto. Il totale corrisponde a 2,7 miliardi di euro. Quindi da 16,2 miliardi di spesa storica si passerebbe a 18,9 miliardi. La spesa in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna aumenterebbe del 17 per cento.

Nel caso in cui non si regionalizzi l’istruzione, la spesa media pro capite nazionale rimanente sarebbe di 316 euro pro capite e anche in questo caso le tre regioni avrebbero una spesa inferiore alla media nazionale. La Lombardia avrebbe una spesa di 228 euro pro capite, l’Emilia Romagna di 230 e il Veneto di 307. Quindi la differenza da colmare sarebbe 88 euro pro-capite per la prima e 86 euro pro-capite per la seconda. Per quanto riguarda il Veneto la cifra sarebbe più modesta. Comunque, le differenze implicano un aumento aggregato di spesa per le tre regioni del Nord di 1,3 miliardi, ovvero il 21 per cento dell’attuale spesa storica, che passerebbe da 4,8 a 6,1 miliardi di euro.

Poiché i decreti legge collegati al regionalismo differenziato non potranno produrre nuovi oneri per il bilancio dello stato, sia nel primo caso (decentramento inclusa istruzione) che nel secondo (esclusa istruzione), l’unico modo per avere le risorse aggiuntive sarà trasferirle dalle altre regioni che, per ora, non hanno avanzato richieste di regionalismo differenziato.

Guardando questi numeri si capisce come, anche escludendo l’istruzione, il passaggio all’autonomia per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna potrebbe comunque essere molto conveniente se i fabbisogni standard non fossero applicati. Molto verosimilmente, infatti, implicherebbero una spesa pro-capite inferiore alla media nazionale.

Autonomia, così il Nord guadagna 1,3 miliardi

Articolo di Luca Cifoni pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da Il Mattino di Napoli.

Autonomia, così il Nord guadagna 1,3 miliardi

Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna favorite anche senza i poteri sulla scuola

Il Mattino_240719

Un impatto finanziario più limitato, ma comunque significativo: se come pare ormai assodato l’istruzione non sarà tra le competenze trasferite alle Regioni, il conto finale a vantaggio di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna resterà comunque del tutto vantaggioso. Nell’ipotesi di assegnazione delle risorse in base al valore medio nazionale pro capite le tre Regioni che hanno richiesto il trasferimento delle funzioni avrebbero un surplus di 1,3 miliardi, mentre a perderci sarebbe soprattutto il Lazio, con una perdita teorica di olre 1,6 miliardi. Proprio il criterio di attribuzione delle risorse sarà uno dei nodi da sciogliere nelle riunioni dei prossimi giorni; ma l’orientamento è quello di far saltare la clausola di salvaguardia prevista dall’articolo 5 delle intese, che rimanda appunto al valore medio nazionale in caso di mancato accordo tra Stato e Regioni sull’adozione dei fabbisogni standard. Si tratta di criterio quanto mai rozzo, che porrebbe il Paese di fronte ad un dilemma: o sottrarre alle Regioni sopra la media i fondi da assegnare a quelle che invece sono sotto, rispettando in questo modo il principio di invarianza finanziaria della riforma, oppure prelevare risorse aggiuntive dal bilancio dello Stato (con nuove tasse o tagli di spesa) per compensare la differenza. Se alla fine il riferimento alla clausola sarà effettivamente abbandonato, il dossier dell’autonomia si trasformerà in una mini-riforma destinata probabilmente ad essere giudicata inutile da chi a suo tempo l’aveva proposta.
Un’analisi dettagliata delle conseguenze dell’approccio basato sul costo medio (che scatterebbe dopo tre anni di mancato accordo sui fabbisogni standard) è stata fatta da Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi dell’Università di Ferrara in un articolo uscito ieri sul sito lavoce.info. Nel testo vengono prese in considerazione le due ipotesi: regionalizzazione di tutte le funzioni richieste dalle Regioni, oppure stralcio dell’istruzione scolastica e universitaria. Nel primo caso, ci sarebbe in ballo (in base ai numeri della Ragioneria generale dello Stato) un importo complessivo di 16,2 miliardi, che diventerebbero 4,8 sottraendo gli 11,4 di scuola e università, che dunque valgono oltre i due terzi del totale.
In entrambe le situazioni, ciascuna Regione dovrebbe confrontare la propria spesa regionalizzata pro capite con quella media nazionale: lo sbilancio moltiplicato per il numero di abitanti dà l’ordine di grandezza delle risorse in eccesso o in difetto. Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna avrebbero diritto a 2,7 miliardi in più e nel complesso vedrebbero incrementarsi del 17 per cento la spesa. La somma scende a 1,3 miliardi (con un aumento del 21 per cento) se si esclude l’istruzione come suggeriscono gli ultimi sviluppi della trattativa politica.

LA RINUNCIA
La rinuncia al trasferimento dei docenti e del restante personale nei ruoli regionali avrebbe un effetto positivo per alcune Regioni del Sud, che sono al di sopra della media per quanto riguarda l’istruzione ma non per le altre funzioni. Mentre l’esito resterebbe comunque disastroso per il Lazio, il cui scostamento complessivo dipende in larga parte proprio dalle funzioni diverse da scuola e università: un conto da 1,6 miliardi, solo di poco inferiore a quello che si avrebbe con la cessione di tutte le funzioni istruzione compresa.
Sulla questione il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ieri ha posto un limite chiaro alle autonomie: «Non devono diventare nuovi centralismi», ha detto. «Il rischio – ha aggiunto – è che al centralismo nazionale se ne aggiungano altri 20 regionali, che invece di semplificare complicano le cose».

A Lombardia, Emilia e Veneto quasi tre miliardi in più. Ma il conto lo pagano gli altri

Articolo di Marco Ruffolo pubblicato sabato 20 luglio 2019 da la Repubblica.

A Lombardia, Emilia e Veneto quasi tre miliardi in più. Ma il conto lo pagano gli altri

Se l’articolo sulle risorse finanziarie restasse quello contenuto nei progetti in discussione, i costi sarebbero a carico delle altre regioni d’Italia

Dopo aver accettato di cancellare la regionalizzazione della scuola, la Lega fissa ora la sua nuova linea del Piave su cui non accetta ulteriori cedimenti: il mantenimento del generoso sistema di finanziamento delle nuove competenze che verrebbero riconosciute a Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Capitolo sul quale non c’è ancora l’accordo con i Cinque Stelle e su cui resta più di un dubbio da parte del Tesoro. Ed ecco la sorpresa; se l’articolo sulle risorse finanziarie restasse quello contenuto nei progetti di autonomia che abbiamo letto finora sul sito del Dipartimento per gli affari regionali, le tre Regioni potrebbero avere in prospettiva 2,7 miliardi in più all’anno. E di questi miliardi, 1,4 sarebbero disponibili proprio per l’istruzione. anche se, dopo l’accordo di ieri, le competenze regionali rimaste per questo capitolo di spesa potrebbero limitarsi all’edilizia scolastica e all’alternanza scuola-lavoro. Ora, siccome tutta questa operazione non dovrà produrre nuovi oneri per il bilancio dello Stato, e non potrà comportare nuove tasse, ci sarà un solo modo per avere quelle risorse aggiuntive: sottrarle alle altre regioni.

Il fabbisogno standard

L’articolo su cui la Lega ha costruito il suo muro invalicabile prevede infatti che fra tre anni, se il futuro comitato Stato-Regioni non sarà in grado di fissare i cosiddetti “fabbisogni standard” (ossia le spese da fare in condizioni di efficienza e su cui calibrare le risorse), le tre Regioni potranno spendere per ciascun loro abitante non meno della media pro-capite nazionale. Che, secondo i dati della Ragioneria, è superiore in tutte le materie. A cominciare dall’istruzione. A queste conclusioni arriva sia la Corte dei Conti (che nella sua recentissima audizione bastona in più punti i tre progetti autonomistici), sia alcuni economisti della Voce.info come Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi.

Le competenze

Istruzione a parte – dice la ricerca dei due economisti – se si trasferissero alle tre Regioni tutte le competenze richieste (dalla tutela del territorio alla politica del lavoro, dai beni culturali e paesaggistici ai trasporti, dalle comunicazioni all’energia), Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna dovrebbero avere, per raggiungere la spesa pro-capite nazionale, 1,3 miliardi in più all’anno, con un aumento del 21%. Che diventerebbero 2,7 miliardi se si aggiungesse l’istruzione: più 17% di spese. In queste condizioni. potendo contare su  un sicuro flusso di risorse aggiuntive, non vi sarebbe alcun incentivo per le tre Regioni a introdurre i famosi fabbisogni standard.

L’opposizione dei 5S

Su questo punto i 5S si  oppongono e, avvalendosi dei dubbi dello stesso ministero dell’Economia, cercano di sostituire il criterio della spesa pro-capite nazionale con quello
della spesa storica (che verrà in ogni caso applicato nel primo anno). “La spesa storica – spiega Andrea Filippetti, ricercatore Cnr – è senz’altro più aderente ai fabbisogni reali di quanto lo sia la media nazionale, la quale non tiene conto di diverse esigenze”.

Il fronte del Nord

Ma Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna puntano i piedi per conservare quella norma. Così come cercano in tutti i modi di salvare un altro privilegio finanziario riconosciuto loro sulla base delle ultime bozze di accordi. Il privilegio è questo: se il gettito fiscale raccolto in quelle regioni sale oltre il “fabbisogno di spesa”, l’eccedenza resta a disposizione delle stesse tre regioni. Se invece scende, sarà lo Stato a metterci le risorse mancanti. Come? Non certo imponendo nuove tasse, e neppure appesantendo  la finanza pubblica nel suo complesso. Anche in questo caso, a farne le spese sarebbero tutte le altre regioni. “Su di loro – dice la Corte dei Conti – potrebbe ricadere l’onere di un finanziamento non equilibrato. Eventualità tanto più probabile in quanto i “livelli essenziali di prestazione” che potrebbero garantire un minimo di spese irrinunciabili su tutto il territorio nazionale. non esistono ancora, nonostante li preveda una legge che da dieci anni è lettera morta. Insomma, sulla base dell’attuale articolo sulle risorse finanziarie, la torta complessiva resterà la stessa, ma saranno Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna a potersi ritagliare una fetta maggiore, a scapito del resto d’Italia.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Gianfranco Viesti (Università di Bari) – Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Articolo pubblicato dalla rivista Il Mulino (n. 3 del 2019).

Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Il nostro è un Paese giovane, ma con un futuro denso di incertezze. Un Paese segnato sin dalla sua nascita da una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra le sue regioni; e che nel suo processo di sviluppo ha visto consolidarsi forti disuguaglianze economiche territoriali. Un Paese con una significativa debolezza dei suoi apparati centrali di governo – nella loro efficienza, nella capacità di garantire ai cittadini servizi pubblici e diritti di cittadinanza comparabili –, dove c’è voluto un secolo per raggiungere nel Mezzogiorno livelli di istruzione elementare simili a quelli del resto d’Italia. Anche per tutto questo, un Paese con lunghe e alterne vicende di contrapposizioni di interessi territoriali.

Nel secondo dopoguerra l’Italia ha provato a unificarsi davvero. Ha puntato a rafforzare l’economia delle sue regioni più deboli, a vantaggio della crescita dell’intero Paese, e a garantire maggiore uniformità fra i suoi cittadini nella fruizione dei grandi servizi, a partire da istruzione e salute. È stato, pur con tutte le sue contraddizioni, il periodo migliore della nostra storia economica: la maggiore coesione sociale e territoriale è andata di pari passo con tassi di crescita mai raggiunti, e che non saranno mai più raggiunti. Certo, quella crescita è stata collegata a condizioni abilitanti storicamente determinate e irripetibili. Tuttavia, non si sfugge: quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva. La stessa identica logica dell’integrazione europea.

Con gli anni Settanta, il «miracolo» è scomparso. E questo ha portato con sé il rinascere di conflitti distributivi: la spinta e i danari per lo sviluppo si sono spostati dall’industrializzazione del Sud alla riconversione del Nord; ma al Mezzogiorno sono stati garantiti trasferimenti compensativi: spesso distorsivi, in un intreccio sempre più negativo fra classi dirigenti politiche nazionali e locali. Con gli anni Novanta, la grande crisi fiscale e la stretta sulla tassazione hanno provocato per la prima volta la nascita di un movimento politico a esplicita base territoriale, fortemente antimeridionale. La Lega ha condizionato le scelte politiche a cavallo del secolo: la sua minaccia politica è stata ad esempio importante per spingere nel 2001 i governi di centrosinistra a una riforma del Titolo V della Costituzione certamente affrettata, e con diversi elementi problematici. E ha contribuito al diffondersi di un pericoloso veleno, una sottocultura in base alla quale l’impiego delle risorse pubbliche è sempre, per definizione, a somma zero: più a te significa sempre meno a me. In questo anche favorita dal progressivo venir meno dei partiti politici nazionali, sedi per propria natura deputate alla composizione di differenti interessi territoriali, e alla loro mediazione in scelte di interesse collettivo. Ancora fino alla fine del primo decennio di questo secolo gli effetti concreti di questo veleno sono stati parziali: certo, con l’esplodere della «questione settentrionale» lo sviluppo del Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica. Ma le stesse richieste di «autonomia regionale differenziata» di Lombardia e Veneto sono state bellamente ignorate dai governi Berlusconi 2008-11. Ma con la grande crisi, la situazione è cambiata: le derive già presenti si sono accelerate. Sono mutati gli scenari europei. Si è affievolita la condivisione del grande progetto di integrazione. Si sono rafforzati sovranismi di varia natura e intensità: egoismi e isolazionismi nazionali, come quelli di alcune giovani e incomplete democrazie dell’Est; egoismi regionali, come quelli che hanno segnato lo scenario spagnolo degli ultimi anni. Il voto sulla Brexit sembra uno spartiacque: l’offerta politica di un presunto ritorno alla sovranità, della ricostruzione di confini e barriere, si è rivelata vincente.

Ed è profondamente mutato il quadro nazionale. La crisi è stata cattiva, profonda, persistente, assai più di quanto si riuscisse a vedere nel corso del suo dipanarsi; e ha prodotto un terremoto elettorale che è sotto gli occhi di tutti. Le scelte di politica economica, in parte necessarie per la pessima condizione dei conti pubblici, in parte obbligate in tempistica e dimensione da nuove regole europee assai discutibili, hanno compresso i redditi, ridotto il benessere, accresciuto la pressione fiscale e tagliato i servizi, ricentralizzando le grandi scelte di bilancio e spostando a livello regionale e locale molti sacrifici. L’Italia è entrata in un’era di aspettative fortemente decrescenti; ha visto aumentare disillusioni e timori, egoismi e rancori. La ricerca di capri espiatori, ovviamente diversi da sé. Fossero essi le regole e le istituzioni europee (pur non esenti da evidenti criticità), i flussi migratori (pur assai problematici nella loro dimensione e dinamica), le élite, la «casta» dei privilegiati (pur sovente sorde all’ascolto delle difficoltà diffuse). E, naturalmente, i meridionali; in realtà sempre più spesso i centro-meridionali, con uno spostamento d’ufficio di Roma («ladrona») nel Mezzogiorno. La parte parassita del Paese, che gode di elevati servizi e prestazioni senza meritarli grazie a lavoro, reddito e sforzo fiscale; che vive alle spalle dell’Italia che produce.

L’Italia di oggi sembra segnata da una crescente sfiducia nel futuro e dal conseguente prevalere, in molti cittadini, dell’interesse per le proprie sorti, individuali o di piccolo gruppo. E quindi da una scarsa attenzione per i grandi servizi collettivi: gli italiani sembrano assistere piuttosto passivamente alla progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale, alla compressione selettiva e cumulativa dell’università, al declino della scuola. Infine, da una domanda di politiche di breve termine; non a caso la maggioranza dei cittadini pare approvare le scelte della coalizione di governo, orientate verso il soddisfacimento di interessi individuali o di piccoli gruppi. Molti italiani non hanno più fiducia nella capacità delle politiche pubbliche di cambiare in meglio il Paese, di migliorare il loro futuro.

Ad esito di tutto questo, l’Italia di oggi è teatro di una lotta sorda e sotterranea per spartirsi i residui delle risorse pubbliche. In questo pienamente leghistizzata. Convinta cioè che «più a te» significhi automaticamente «meno a me», senza fiducia nelle logiche dell’integrazione, nell’investimento nel futuro, negli effetti positivi del recupero di disuguaglianze e disparità.

È in questo clima che matura, a partire dal 2017, il progetto della «secessione dei ricchi». Non giunge inatteso. È preannunciato dalle vicende del federalismo comunale: nel 2009, con la legge 42, si è provato a modificare il finanziamento degli enti locali, ancorandolo a criteri oggettivi; ma poi in sede di attuazione, in presenza di risorse decrescenti, la loro definizione è diventata teatro della guerra, largamente vittoriosa, dei comuni più ricchi a quelli più poveri. Dalle vicende del finanziamento delle università, in cui una girandola di norme e di indicatori quasi sempre costruiti ad hoc ha ripartito risorse totali fortemente decrescenti in modo assai asimmetrico, a danno del sistema degli atenei del Centro Sud e del Nord periferico. Da modifiche dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, che stanno contribuendo ad accelerare – invece di contrastare – le migrazioni sanitarie di pazienti da una regione all’altra. Tutte vicende segnate dal ruolo cruciale ma nascosto di agenzie tecniche pseudo-neutrali, incaricate di produrre numeri tali da far sembrare precise scelte politiche nulla più che esiti di algoritmi; e, soprattutto, dalla totale mancanza di discussione pubblica e dal disinteresse del sistema dell’informazione. Dalla fuga della politica.

Ma che cosa è la secessione dei ricchi? Rimandando il lettore interessato a maggiori dettagli a un volumetto scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore Laterza, si può ricordare sinteticamente che si tratta della richiesta di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ai sensi del III comma dell’articolo 116 della Costituzione (come riformata nel 2001), di ulteriori e particolari forme di autonomia. Alle tre regioni capofila poi sono pronte ad accodarsene altre. In questa richiesta vi sono almeno tre elementi di evidente criticità, tali da giustificare una definizione così forte.

Innanzitutto, non si tratta di specifiche materie, collegate a specifiche condizioni della specifica regione, tali da rendere ragionevoli poteri e competenze non riconosciute alle altre, in un regionalismo «differenziato». Ma della richiesta politica di poter disporre praticamente di tutte le competenze che teoricamente possono essere trasferite in base alla lettera di quel comma. La Lombardia chiede ben 131 nuove funzioni legislative e amministrative. Nessuna evidenza è presentata sulla circostanza che in queste materie la gestione regionale sarebbe più efficace e/o più efficiente di quella nazionale: è un dogma che non occorre dimostrare. È in gioco così gran parte dell’intervento pubblico che si realizza in Italia: dalla regionalizzazione della scuola alla sostanziale cancellazione del Servizio sanitario nazionale, dai beni culturali all’assetto del territorio, dalle infrastrutture all’energia, dal lavoro alla previdenza complementare. Vi sono differenze fra Emilia-Romagna da un lato e Lombardia e Veneto dall’altro su alcuni aspetti cruciali, a partire dalle richieste delle ultime due di regionalizzare il personale della scuola e di acquisire al demanio regionale parti del patrimonio infrastrutturale esistente (dalle autostrade alle ferrovie agli aeroporti) per poterlo mettere a valore; incuranti del fatto che esso è stato realizzato con le risorse della collettività nazionale. Nell’ultimo anno il ministro incaricato del dossier (una leghista veneta) ha cercato di soddisfare in ogni modo queste richieste, ma quanto il governo Conte sia disposto alla fine a concedere è avvolto nelle nebbie: i testi delle parziali intese di merito già raggiunte sono, al maggio 2019, segreti.

In ogni caso, una radicale revisione di come funziona l’Italia. Per i promotori, si tratta di modifiche opportune, che possono migliorare le politiche pubbliche e avvicinarle ai cittadini. Ma, a parte gli evidenti dubbi che questo sia vero su una tale sterminata congerie ed estensione di materie, la questione centrale è che essi la chiedono solo per se stessi. Non propongono, cioè, una modifica dell’articolo 117 della Costituzione, volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese; propongono l’attuazione del 116: cioè un trasferimento solo per se stessi.

Che gli altri si arrangino, in una situazione in cui l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco; un vero e proprio unicum al mondo: con 4 regioni a statuto speciale, due provincie autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna con ambiti un po’ diversi) e poteri centrali con la responsabilità delle politiche e dei servizi nei ritagli di Paese residui.

In secondo luogo, questa richiesta sterminata fa il paio con la volontà di poter acquisire risorse finanziarie assai più ampie di quelle oggi erogate dallo Stato centrale in quei territori per quelle funzioni. Più ampie le competenze, più ampia la differenza nelle disponibilità economiche. Date le condizioni della finanza pubblica, questo non può che avvenire senza incrementare la spesa complessiva: e quindi utilizzando risorse oggi spese in altre regioni. Questo è da sempre stato esplicito nelle richieste venete; il grande obiettivo sbandierato ai cittadini di riprendersi i «propri soldi» (in realtà, della collettività nazionale). Chiaro, anche se pudicamente meno reiterato, in quelle lombarde. Escluso invece in quelle emiliane, anche se senza alcuna obiezione alle posizioni delle prime due.

Richieste santificate dalla pre-intesa raggiunta con le regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più. Di fronte all’enormità di questo patto, persino l’attuale governo sembra pensare ad altre disposizioni finanziarie. Ma nelle ipotesi di intesa (sulla sola parte finanziaria) disponibili sul sito del Dipartimento degli Affari regionali si prova comunque a far rientrare dalla finestra ciò che non entra più dalla porta: si stabiliscono criteri per cui – specie nella scuola – le regioni potrebbero disporre di risorse ben maggiori, sottraendole alle altre; così come un canale privilegiato per la spesa per investimenti pubblici.

Infine, l’idea delle tre regioni è sempre stata ed è quella di concludere l’intesa con il governo (ci si è arrivati ad un passo il 15 febbraio 2019) e di puntare poi ad un rapido ed indolore passaggio parlamentare di mera ratifica. A quel punto il gioco sarebbe fatto. Ciascuna intesa potrebbe essere modificata solo con l’assenso della regione interessata, e non potrebbe essere sottoposta a referendum abrogativo. L’enorme potere attuativo e di definizione di tutti gli aspetti di dettaglio, normativi e finanziari, passerebbe nelle mani di Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte al controllo parlamentare e – se il colpo riuscisse perfettamente – anche a quello della Corte Costituzionale. Il percorso non è ancora definito. L’idea che il Parlamento non debba discutere e poter emendare nulla pare davvero estrema. Ma in queste vicende le ipotesi estreme, neanche immaginabili nell’Italia di qualche anno fa, sono molte.

Una parte delle classi dirigenti di Lombardia, Veneto ed Emilia sta dunque provando a ristrutturare profondamente l’Italia. A farsi quasi Stato nello Stato. La prospettiva dell’indipendentismo veneto (arrivata fino all’indizione di un referendum nel 2014 su «volete voi il Veneto indipendente», poi vietato dalla Corte costituzionale) è al momento abbandonata. Molto più comodamente, si resta parte di un Paese membro dell’Unione europea: con tutti i vantaggi in termini di libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone che ne derivano; con sicurezza, difesa, politica estera comune; con l’enorme debito pubblico che rimane nella responsabilità solidale di tutti gli italiani. Ma con poteri legislativi e amministrativi straordinariamente vasti; e con le relative risorse che «rimangono» nella regione senza essere trasferite alla fiscalità generale, poste così al di fuori da manovre nazionali di austerità o di revisione della spesa in quegli ambiti.

Ci si mette il più possibile al riparo da eventuali crisi di sistema del Paese, purtroppo non impossibili. Lasciando il governo dei conti pubblici a un Tesoro con lo stesso debito ma con un minor gettito fiscale disponibile (una volta detratte le risorse che rimangono nelle regioni) per farvi fronte. Si pongono le basi per una diversa organizzazione della sanità o della scuola; con il potere di operare scelte politiche anche profonde: di rompere i principi di universalismo della sanità pubblica, o di riconoscere e finanziare a piacere le istituzioni private nell’istruzione, di organizzare una previdenza complementare solo per i propri cittadini. Si accrescono enormemente i poteri di gestione e di intermediazione di risorse pubbliche delle classi dirigenti regionali.

Il processo nasce e trova alimento dalla pluridecennale predicazione leghista. Ma il favore intorno ad esso è ben più esteso, profondo. Con interessanti differenze fra le regioni. In Veneto il consenso per «l’autonomia» è assai vasto (testimoniato anche dalla sensibile partecipazione al referendum consultivo del novembre 2017): coinvolge gran parte delle forze economico-sociali e quasi tutte le rappresentanze politiche. Certo, il consenso è, genericamente, «per l’autonomia»: non è chiaro quanto vi sia conoscenza del fatto che i dirigenti e i programmi scolastici verrebbero a dipendere dalla politica regionale, o che quelle della Laguna non sarebbero più acque territoriali italiane. Il Veneto soffre molto della vicinanza alle privilegiate aree a statuto speciale di Friuli-Venezia Giulia e, soprattutto, Trento e Bolzano: si pensi che per ogni studente trentino si spende il 70% in più che per gli altri studenti italiani. Ma invece di intestarsi una proposta volta a ridare razionalità ed equità al sistema delle autonomie, mira esso stesso a divenire «speciale»: e che gli altri, in particolare i meridionali spreconi, si arrangino. Più articolata pare la situazione lombarda: regione assai più legata da interessi e consuetudini alla comunità nazionale; con una Milano freddissima su questo tema, così come evidente dalla assai scarsa partecipazione elettorale al referendum del 2017. La grande sorpresa è però l’Emilia guidata dal Partito democratico. Che chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre: per sé, e non per tutti. Con il 116 e non con il 117: rinunciando quindi a porsi alla testa di qualsiasi progetto di riforma nazionale. Che rivendica i principi dell’unità del Paese e si fa vanto di non richiedere risorse aggiuntive: ma che si allinea in toto alle altre due nel percorso e nella pressione politica; e che sottoscrive senza problemi testi che le darebbero non pochi vantaggi economici. Il tutto nell’assordante silenzio delle comunità culturali e politiche di Lombardia ed Emilia, che non trovano evidentemente necessario o elegante discutere del futuro proprio e degli altri italiani; derubricando forse questa grande prospettiva a questione amministrativa. Silenzio pur rotto dalle forti prese di posizioni contrarie dei due sindaci di Bologna e Milano, dell’ex presidente della Regione Emilia-Romagna, di alcuni intellettuali: ma senza che ne sia scaturita discussione diffusa.

Balbettano, su questo come su altri temi, le altre regioni; con le principali del Sud a zig-zag fra il desiderio di acquisire maggiori poteri di gestione e intermediazione per sé e le preoccupazioni per l’essere i loro cittadini le principali potenziali vittime. Protesta la Toscana, in difesa di una ben diversa concezione di autonomia, ma con un filo di voce. Si accoda nelle richieste la Liguria, che punta, come prospettiva strategica, alla gestione del sistema autostradale e ferroviario e del demanio portuale e aeroportuale e ai relativi incassi da concessioni e traffico; un luminoso futuro, sia detto con un filo di ironia ma anche con preoccupazione, da esattore di transito.

Nella politica nazionale c’è solo la Lega: vociante al Nord, silenziosa e reticente nel resto del Paese dove cerca consenso; ma pronta in qualsiasi momento all’offensiva finale per i propri «veri» territori ed elettori. I 5 Stelle paiono aver preso coscienza solo negli ultimi tempi di quel che essi stessi hanno convenuto nel contratto di governo, e frenano. Silenti gli altri, tranne l’estrema sinistra, contraria. Silenti, nonostante il nome, i fratelli d’Italia e i forza-italiani. Silente il Partito democratico, spaccato fra alcuni dei suoi esponenti che avanzano perplessità e le componenti lombardo-venete, e soprattutto quella – assai più potente – emiliana, che chiedono condivisione e assoluto silenzio in pubblico. Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte, e si prova a non perderle inseguendo anche un po’ la Lega. Partiti incapaci di una discussione aperta e basata sui fatti e di una mediazione politica fra le diverse posizioni; di formulare proposte basate sui propri valori di riferimento e sul complessivo interesse nazionale.

Al momento in cui scrivo, non è affatto chiaro come terminerà questa vicenda. Ma le convinzioni e gli interessi politico-economici da cui nasce e le questioni che essa solleva sono destinati a restare, a incidere ancora a lungo, nell’Italia di oggi e di domani. Forse aggravate da contrapposizioni sempre più sorde fra i cittadini di diverse regioni, di cui purtroppo si vedono le avvisaglie. Con esse, e con il permanere di una politica incapace di proporre e progettare una profezia positiva di un futuro condiviso, il rischio che il nostro giovane Paese progressivamente, passo dopo passo, di fatto si dissolva.

Andrea Gavosto (Fondazione Agnelli) – Così fallisce la Scuola italiana

Articolo pubblicato giovedì 11 luglio 2019 da La Stampa.

Così fallisce la Scuola italiana

Gli esiti delle prove Invalsi – da quest’anno estese al quinto anno delle superiori, quindi al termine del ciclo scolastico – ci parlano di un fallimento della scuola italiana. Può sembrare un’affermazione eccessiva, ma i dati giustificano un allarme estremo. Anche perché non nuovo e finora inascoltato. Dopo 13 anni di studio fra primarie, medie e superiori, gli studenti del Sud hanno accumulato divari impressionanti in italiano, matematica e inglese rispetto ai loro coetanei del Nord e del Centro: soprattutto, più della metà non raggiunge il livello minimo definito dalle indicazioni nazionali per il curricolo, che hanno sostituito i programmi ministeriali. Le conseguenze sono drammatiche e largamente irreversibili: difficile sperare a 19 anni di recuperare il terreno perduto e costruirsi un bagaglio di saperi adeguato al lavoro e alla vita futura. Stiamo dunque rischiando di perdere una generazione, almeno in quelle regioni? Senza trascurare che i confronti internazionali dicono che anche al Nord le cose non vanno benissimo. Il timore è serio. Non a caso, al ritardo dell’Italia nelle competenze scolastiche corrispondono almeno due decenni di crescita zero. Senza una formazione di qualità, non si può aspirare a essere protagonisti nell’economia mondiale. Lo stato del nostro sistema scolastico, a partire dalle medie, deve essere quindi oggetto di una riflessione collettiva e di interventi di emergenza. I test Invalsi, spesso criticati dagli insegnanti, mostrano oggi tutta la loro utilità per la scuola e per l’informazione dell’opinione pubblica. Spiegare divari di apprendimento così importanti non è banale. Il nostro modello di istruzione resta fortemente accentrato, almeno sulla carta, con regole uguali per tutti in materia di selezione e formazione dei docenti, curricoli, valutazione, ecc. Eppure, le differenze territoriali sono forti e crescono man mano che si procede con il percorso di studio. Una responsabilità credo sia delle famiglie: mentre al Nord si è più consapevoli dell’importanza dell’investimento in formazione e si guarda con maggiore attenzione a che cosa i figli imparano davvero, al Sud ci si preoccupa ancora del mero conseguimento del titolo, prescindendo dalla qualità dell’insegnamento. Anche se talvolta avviene in modo troppo aggressivo, è fondamentale che le famiglie si occupino di che cosa capita dentro le aule. E poi bisogna ripartire da insegnanti e dirigenti. Il nostro corpo docente ha perso motivazione, non è più aggiornato e non ha incentivi a farlo, fatica a farsi carico di ragazzi sempre più distanti dal suo modo di insegnare. Occorre cambiare i criteri di selezione, guardando soprattutto alla formazione didattica; attrarre giovani motivati; consentire ai dirigenti di promuovere i docenti migliori a incarichi di responsabilità; creare nelle scuole un clima professionale dove la collaborazione e il controllo fra i pari stimoli tutti a migliorarsi; estendere il tempo di presenza a scuola; dare incentivi di carriera. E trovare il modo di allontanare chi non è proprio in grado di insegnare. Per uno sforzo così grande e urgente, può servire il passaggio dell’istruzione alle Regioni, richiesto da Lombardia, Veneto e, in modo più attenuato, Emilia-Romagna? Personalmente, ne dubito. Certo il sistema centralizzato non ha funzionato; ma, se le Regioni che hanno già i migliori risultati scolastici potranno beneficiare da risorse locali aggiuntive, vi è da chiedersi che cosa potrà succedere a quelle aree del Sud con ritardi così grandi. Il pericolo è che si avvitino definitivamente in una spirale negativa.