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Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Massimo Villone – Autonomia, un addio al Sud

Articolo pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Autonomia, un addio al Sud

Contro l’autonomia differenziata si sono a lungo levate solo voci di studiosi e di società civile. In campo ci siamo trovati inizialmente in pochi: Viesti, Giannola, Esposito, io stesso, associazioni della scuola, organizzazioni di medici, imprenditori. Ma pian piano studi e denunce hanno fatto breccia.
Il sindacato ha parlato con voce chiara a Reggio Calabria. L’università di Napoli Federico II ha approvato un documento di dura critica. Un appunto del Dipartimento affari giuridici e legislativi per il premier Conte ha stroncato il progetto in salsa gialloverde. Diamanti ci informa di una maggioranza di favorevoli per l’autonomia regionale. Ma la rilevazione non coglie il nuovo clima, e probabilmente ancora risente della insufficiente informazione e della pervasiva pubblicità ingannevole di chi sostiene che “andrà meglio per tutti”.
Invece, di fronte all’evidenza si sono finalmente levate voci dai palazzi della politica. Parlamentari come Boccia, Nugnes, Presutto, Amitrano, Ruocco lo hanno ammesso: alla base della pressione leghista c’è una menzogna che rappresenta il Sud come un pozzo senza fondo che divora le ricchezze del Nord virtuoso ed efficiente. È falso, come le cifre – quelle giuste e non taroccate – dimostrano. Cifre mai smentite, e che già avevano trovato qualche eco in parlamento.
Una buona notizia potrebbe essere la nomina di Oddati – di cui abbiamo stima – come responsabile per il Mezzogiorno nella segreteria Pd. Ma il terreno è minato. Zingaretti spera di trovare con lui una copertura credibile alla linea di contrapporre la “buona” autonomia dell’Emilia-Romagna a quella “cattiva” di Lombardia e Veneto. Ma è una linea insostenibile, come ho scritto su queste pagine. Oddati o riesce a farla cambiare, o affonda nella palude con il Pd, che proprio rincorrendo la Lega rischia alla fine di consegnare l’ex regione rossa a Salvini.
Segnaliamo in specie a Oddati che non si può condividere l’idea del sottofinanziamento del Mezzogiorno, e al tempo stesso sostenere che l’Emilia-Romagna è tutt’altra cosa. La prova si trae dal fatto che sul punto cruciale delle risorse la richiesta di Bonaccini & Co. è uguale a quella di Fontana e Zaia (punto 5 della “parte generale concordata” pubblicata sul sito del ministero delle autonomie). Come afferma anche l’appunto al premier Conte del Dipartimento affari giuridici, non c’è modo di evitare l’indebito vantaggio per le tre regioni a danno delle altre.
Secondo le ultime interviste di Fontana e Zaia (Libero, 1 luglio) chi si oppone all’autonomia lo fa per slogan. Al contrario. Ci si oppone con le cifre. È slogan la loro apodittica affermazione che l’autonomia fa bene a tutti. Lo dicano ai bambini di Casoria o di Reggio Calabria, che sono e con la loro autonomia rimarrebbero – senza asilo nido. Lo dicano a chi nella scuola difende l’identità e l’unità nazionale, e rifiuta di barattare la propria dignità con i pochi spiccioli concessi da un potere arrogante. Parlino delle materie non integralmente devolvibili, come le definisce l’appunto del Dipartimento per il premier, e tuttavia oggetto delle loro pretese. Smentiscano con cifre non taroccate lo scippo al Sud. Dimostrino l’efficientamento del paese, fin qui solo presunto. Ci spieghino come conciliare il buon governo e la buona amministrazione tanto decantati con le provate infiltrazioni della criminalità organizzata, il Mose, i governatori ospiti delle patrie galere.
Dicono che bisogna leggere le carte. Giusto. Peccato che le abbia chiuse nel cassetto la Stefani, impegnata a declassare la sua poltrona ministeriale a strapuntino di Zaia. Ma quel che abbiamo nonostante tutto visto, ci basta. Il disegno separatista di abbandonare il Sud per il miraggio di un grande Nord che si distacca e si aggancia all’Europa esiste, e ne ho dato già conto. Da ultimo, ho qui richiamato l’intervista di Cirio, neo-governatore del Piemonte (Il Tempo, 24 giugno). Si aggiunge (Adige, 1 luglio) Dellai, per un ventennio esponente politico di primo piano in Trentino-Alto Adige, che chiede esplicitamente di lavorare per un “asse” del Nord con Bolzano e Innsbruck, “nella prospettiva di una più vasta coalizione alpina”. È un disegno che le baruffe da pollaio in chiave pre-elettorale cui assistiamo certo non aiuteranno a fermare.
Un lettore torinese di Repubblica lamenta (1 luglio) che di sera non c’è un Frecciarossa o Italo da Torino verso Milano. Cosa dovremmo dirgli, che la sera nemmeno da Napoli a Roma? E che però Reggio Calabria non li vede mai? I treni come gli asili. Stia sereno. Nell’essere Sud non ci batte nessuno.

Ilvo Diamanti (Università di Urbino) – Salviamo l’autonomia delle scuole di Alta Formazione

Appello pubblicato domenica 19 novembre 2017 da la Repubblica.

Salviamo l’autonomia delle scuole di Alta Formazione

Fra le diverse attività che svolgo ce n’è una meno nota, ma, a mio avviso, non meno importante delle altre. Al contrario. Sono presidente dell’ISIA di Urbino. Letteralmente: Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. È una scuola di Alta Formazione nel campo della grafica e della comunicazione. La sua specificità sta nel mix di competenze che impiega, “reclutandole” in ambienti diversi: scientifici, culturali e — spesso — professionali. Così gli studenti possono sviluppare abilità e relazioni che ne favoriscono l’inserimento e la carriera in diversi settori. Per quel che mi riguarda, sto cercando di promuovere l’indirizzo “editoriale”. Attraverso lezioni e seminari orientati a “disegnare il giornale”. Affidati a professionisti che (di)mostrano come impostare la grafica di un giornale significhi “fare il giornale”. A nobilitare la scuola c’è, inoltre, la sede: il Monastero di Santa Chiara. Una meraviglia. In Italia vi sono altri ISIA, anche se non molti. Ciascuno di essi “disegna” il programma e le attività con attenzione al proprio territorio. E delinea, quindi, orizzonti specifici. Così ha sorpreso (me, almeno) scoprire che il sen. Martini, insieme ad altri senatori, intenda ridisegnare questo polo didattico. Centralizzandone l’organizzazione e la direzione in contesti (politecnici) più ampi. Ma riducendone, così, l’autonomia.

Io non sono un esperto d’arte e di grafica. Ho accettato questo incarico per il prestigio di questa scuola e per riconoscenza verso Urbino. Dove vado e vengo da quasi trent’anni. Mi costa fatica, ma ne vale la pena. Ho già reagito pubblicamente in passato, quando l’Università dove insegno ha rischiato la chiusura, a causa dei ritardi nel processo di statizzazione. Lo faccio anche ora. Perché vanificare l’autonomia di questi Istituti, nel mio caso, dell’ISIA di Urbino, significa impedire loro di operare come è avvenuto fino ad oggi. Significa spingere al declino esperienze che attirano centinaia di studenti da tutta Italia. E da altri Paesi.

Significa, inoltre, cedere alla logica della centralizzazione, dopo che due referendum, poche settimane fa, hanno affermato la volontà dei cittadini di garantire maggiore autonomia regionale. E altre regioni hanno avviato il medesimo percorso, senza ricorrere ai referendum. Facendo riferimento a quanto previsto dalla stessa Costituzione. Per questo ammetto il mio sconcerto. Perché non capisco i motivi che spingono a imporre — e al tempo stesso a negare — confini a esperienze didattiche e formative che proprio nell’autonomia e nel rapporto con il territorio hanno la loro ragione di vita. E di successo.

Ci saranno, certamente, delle buone ragioni. Ma, sinceramente, mi sfuggono. Io, almeno, non le comprendo. Di certo non aiutano il territorio. Di certo non promuovono consenso politico, in tempi di campagna elettorale. Semmai è vero il contrario: sollevano dissenso. Il mio sicuramente. E non mancherò di esprimerlo ancora. Come dicevano gli studenti francesi — e non solo — nel ‘68: “ce n’est qu’un début…”

Ilvo Diamanti – Ragazzi, non tornate

Articolo pubblicato lunedì 4 settembre 2017 da la Repubblica.

 

Ragazzi, non tornate

I giovani, in Italia, sono un’emergenza grave. Che non accenna a diminuire. L’ha riconosciuto, con realismo e onestà, il premier, Paolo Gentiloni, al tradizionale Forum Ambrosetti di Cernobbio. D’altronde, i dati più recenti dell’Istat rilevano che la disoccupazione giovanile è oltre il 33%. Secondo talune stime, anche più elevata. Insomma, oltre 1 giovane su 3 è senza lavoro.
Secondo i dati Eurostat: il doppio rispetto alla zona Euro. Solo la Grecia e la Spagna starebbero peggio di noi. Naturalmente, occorre aggiungere che i giovani, in Italia, sono ormai una specie rara, in via di estinzione. Ma questa constatazione a me suscita pena ulteriore. Che ha origini lontane e misure crescenti. È, infatti, dagli anni 70 che siamo in declino demografico. Ma, negli ultimi anni, il declino è divenuto un crollo. Perché si associa all’invecchiamento della popolazione. Gli italiani, infatti, invecchiano e non fanno più figli. Perfino gli stranieri, quando si stabilizzano, smettono di “riprodursi”. Ma la popolazione italiana invecchia anche perché i giovani, appena possono, se ne vanno. Verso Nord. Come gli immigrati che, secondo la retorica della paura, ci “invadono”. I nostri giovani, invece, “evadono”. Per ragioni, ovviamente, diverse. Circa 2 italiani su 3, infatti, come abbiamo scritto altre volte (commentando le indagini di Demos-Coop), sostengono che “per i giovani che vogliano fare carriera, l’unica speranza è andarsene”. Fuori dall’Italia. Ed è ciò che fanno, ormai da anni. In generale, emigrano dall’Italia oltre 100 mila italiani, ogni anno. Per capirci, negli anni 90 il flusso annuale era intorno a 30 mila. A differenza del passato, però, oggi non se ne va la “forza lavoro”. Se ne vanno i giovani. Soprattutto i più istruiti. I più qualificati. Circa 3 su 4, in possesso di un titolo di studio. Secondo il Censis, quasi 9 su 10 di essi sono laureati. Si dirigono prevalentemente in Europa. Soprattutto in Germania e nel Regno Unito. Ma anche in Francia, Austria, Svizzera. Insomma: altrove. Perché “altrove” trovano occasioni di impiego migliori rispetto a qui. Carolina Brandi, ricercatrice Irpps-Cnr, al proposito, parla di brain drain, drenaggio dei cervelli, causato da una evidente condizione di overeducation. Sottoccupazione. Così i nostri “dottori”, dopo essersi “formati” in Italia, se ne vanno a fare ricerca altrove. Dove trovano opportunità e soluzioni. Migliori e più adeguate. In altri termini: sono richiesti da più soggetti scientifici, da più istituzioni, da più imprese. D’altronde, in Italia (dati Eurostat) l’investimento e la produzione del sistema formativo restano limitati. Il nostro Paese, infatti, si colloca all’ultimo posto in Europa per il numero di persone che hanno concluso un percorso di istruzione terziaria (24,9%), mentre la media Ue è del 38,5%. Sotto la media Ue (17,6%) risulta anche il numero di laureati in ingegneria e discipline scientifiche (12,5%). Infatti, se, negli ultimi anni, la spesa pubblica in Italia ha continuato a crescere, gli investimenti in ricerca, università e scuola sono, invece, diminuiti. Più in generale, come ha sostenuto ieri Ferdinando Giugliano su queste pagine, «il principale aumento delle disuguaglianze, in Italia, negli ultimi vent’anni, è stato quello fra giovani e anziani». Non per caso. Metà degli iscritti ai sindacati confederali, infatti, sono pensionati. Mentre la maggioranza degli elettori dei partiti di governo (in particolare di centro- sinistra) è composta da persone anziane. Comunque, (molto) adulte. È difficile immaginare che le politiche sociali possano privilegiare i giovani piuttosto che gli anziani. Tutelare i nuovi lavori e lavoratori piuttosto che i pensionati. E i lavoratori già occupati. Che ambiscono (comprensibilmente) ad andare in pensione prima. Mentre, secondo oltre 8 italiani su 10 (Demos-Coop, aprile 2017), “i giovani d’oggi avranno pensioni con cui sarà difficile vivere”.
Tuttavia, il sistema scolastico superiore e le Università, in Italia, dispongono di un credito molto elevato, fra i cittadini e gli studenti. Ma anche presso le istituzioni europee. I dati dell’Ocse, infatti, rilevano che la scuola italiana è ancora uno strumento di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale”. Per altro verso, i nostri laureati e i nostri ricercatori trovano spazio e vengono valorizzati, altrove. Mentre in Italia si devono rassegnare a condizioni di sotto-occupazione. Con prevedibili e inevitabili conseguenze di de-qualificazione. Così, per noi si tratta di una perdita “economica”. Di un investimento in-utilizzato. Peggio: sfruttato da altri Paesi. Perché, come osserva la Fondazione Migrantes, “la mobilità è una risorsa, ma diventa dannosa se è a senso unico”. Come avviene in Italia. Che forma ed “esporta” molti talenti. Ma non è capace di attrarne altri, da altri Paesi. Peggio, non è neppure in grado di fare rientrare i propri. Se, un tempo, gli italiani che partivano pensavano — e sognavano — di tornare, oggi avviene raramente. Le figure più qualificate, i nostri “dottori”: partono e non ritornano. Perché, per loro, avrebbe poco senso, tornare in Italia. Non troverebbero spazi e occupazione. Adeguati. Certo, mantengono forti legami con l’Italia. In particolare, stretti e frequenti rapporti con le famiglie di origine. Le quali costituiscono, per loro, riferimenti certi. Essenziali, quando si affrontano percorsi e destini incerti. In tempi incerti.
Per queste ragioni, i nostri giovani continuano a partire, sempre più numerosi. I nostri (miei) figli, i nostri (miei) studenti. E per queste ragioni è forte la tentazione, da parte mia, di rivolgere loro un invito neppure troppo provocatorio. Ragazzi: non tornate. Restate altrove. Fuori dal nostro, vostro Paese. Almeno fino a quando il nostro, vostro, Paese non si accorgerà di voi. E deciderà di investire sui giovani invece che sugli anziani. Sulla scuola. Sui nuovi lavori. Invece che sulle rendite, sulle pensioni, sui privilegi. Ma finché questo Paese che invecchia continuerà ad aggrapparsi al presente — e al passato. Incapace di guardare al futuro. Al destino dei — propri — giovani. Almeno fino ad allora: ragazzi, non tornate!