Archivi tag: il Mulino

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Federico Condello (Università di Bologna) – Un malumore dal gusto insipido contro l’istruzione umanistica

Articolo pubblicato mercoledì 27 dicembre 2017 da il manifesto.

Un malumore dal gusto insipido contro l’istruzione umanistica

«E se non fosse la buona battaglia?», di Claudio Giunta per Il Mulino

Può sembrare un libro superfluo, l’ultimo di Claudio Giunta (E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica, il Mulino, pp. 312, euro 16). Titolo paolino, sottotitolo apocalittico, verve abituale dell’autore ed enfasi pubblicitaria dell’editore fanno pregustare un pamphlet coi fiocchi: urtante, magari, ma lucido; acido, magari, ma organico e informato; alla peggio, «qualcosa di scelto e prelibato» diceva Adorno – «per affermarsi, col monopolio della rarità, contro il monopolio dell’ufficio». E invece niente di tutto questo.

Non che il libro manchi di tesi: anzi. Ma occorre avvisare che per estorcere qualche tesi non volatile o qualche diagnosi non umorale a questa congerie di saggi – quasi tutti estemporanei e già editi – tocca farsi strada, per trecento pagine, fra polemiche un po’ troppo facili e banalità un po’ troppo futili, fra aneddoti personali di dubbio interesse e conseguenti generalizzazioni di dubbio fondamento. Dati concreti, mai; analisi storiche o sociologiche nemmeno. E nemmeno opinioni politiche: solo qualche bonario buffetto alla Buona Scuola, perché è scritta maluccio; e qualche scappellotto a D’Alema, perché vuole esibire il suo latino, ma sbaglia gli accenti.

In compenso, Giunta ci rivela che il mondo è cambiato, che l’istruzione umanistica è in crisi, che tre o quattro amici suoi non iscriverebbero mai i loro figli a Lettere; che «un’aula scolastica o universitaria di oggi assomiglia ben poco a un’aula scolastica o universitaria di mezzo secolo fa»; che la letteratura è «piacevole», mentre i manuali di storia letteraria sono schematici e nozionistici (a parte quello scritto da Giunta, che Giunta trova assai buono). Scopriamo poi che le matricole universitarie sono spesso impreparate e non sanno nemmeno redazionare una tesina in Word (con «gli accapo opportuni, i rientri opportuni, i margini giustificati»: e qui si sente il professore universitario seccato di dover insegnare cose banali e banausiche). Scopriamo anche che i diplomati al tecnico sono meno preparati dei diplomati al classico, che il reclutamento dei docenti è un problema, che i pedagogisti vendono «fuffa»; e che la burocrazia è brutta, i baroni cattivi, i politici italiani più ignoranti dei politici inglesi («basta confrontare cinque minuti di dibattito parlamentare britannico con cinque minuti di dibattito parlamentare italiano», argomenta l’autore). E così via. Sicché, verso pagina 240, si rischia di trovare provocatorio il consiglio indirizzato «ai giovani studiosi»: «meglio essere sintetici che effusi».

Purtroppo, buona parte del libro è una summa, piuttosto effusa, di malumori generici, quali si possono cogliere al volo in qualsiasi corridoio di scuola o d’università.

Eppure le tesi, come si diceva, non mancano, e nemmeno le proposte: basta saperle estrarre dalla caotica congerie. Ed eccole in breve, onde evitare ad altri la fatica di cercarle: l’istruzione umanistica deve tornare altamente selettiva, a ogni suo grado; all’Università servono urgentemente numeri programmati, e a Lettere deve iscriversi chi sa, non chi sceglie a casaccio e non ha i prerequisiti né l’«attitudine» (e qui a Giunta sfugge un termine che piaceva a Gentile); anche perché i corsi umanistici non sono e non devono essere «professionalizzanti»: i laureati in Lettere «non saranno dei professionisti ma degli intellettuali»; e ne bastano pochi: «molti di meno, e di livello molto superiore». Quanto alle scuole secondarie, non è affatto un male se il liceo classico è in crisi: questo vecchio simbolo di status può così diventare «un liceo come gli altri, ma calibrato su quei giovani che vogliono imparare molte cose sul passato e leggere molti libri che non hanno alcuna evidente utilità pratica»; pochi giovani, si capisce: e di eletta schiatta. Quanto ai dottorati umanistici, è ovvio che vadano ridotti, e magari riuniti in scuole d’eccellenza, «un po’ come la Normale»; scuole riservate, va da sé, «alle grandi città con grandi biblioteche»; così recupereremo la distinzione fra teaching university (per molti, ma non troppi) e research university (per pochi, pochissimi). Ce n’è anche per gli «studenti part-time», cioè per quelli «che non frequentano»: per loro si potrebbe pensare a tasse d’iscrizione differenziate, concede generosamente Giunta; ma anche a opportune differenze «nel titolo di studio rilasciato».

C’è anche altro, ma fermiamoci qui: si sarà capito perfettamente il senso delle tesi e delle proposte, non proprio tenere, non proprio nuove. «Sfollare i licei», «sfollare le Università»: era un refrain della tradizione liberale pre-gentiliana, quando il rischio della scuola di massa si intravedeva appena. E oggi, tutto sommato, si rimpiange la franchezza brutale di chi allora se la prendeva con «i traditori della zappa e della cazzuola» (parole di Augusto Monti), cioè con i piccolo-borghesi infestanti le scuole d’élite. Oggi vige invece un gentilismo gentile, strisciante, snobistico; certe cose si preferisce dirle a mezza voce, e borbottando: e ciò è sintomatico. Ma si torna a dirle, ed è sintomatico anche questo. Ecco perché il libro di Giunta, nonostante tutto, non è superfluo come pare sulle prime e ha una sua utilità: vale appunto da sintomo.

Certo, chi vuole un pamphlet amaro e severo, ostile a ogni cliché democratico ma consapevole di una storia politica e ideologica sofferta, può leggere con maggior frutto La scuola che vorrei di Adolfo Scotto di Luzio (2013); chi vuole capire i meccanismi di classe costantemente in opera nella scuola italiana può ricorrere a Tutti i banchi sono uguali di Christian Raimo (pubblicato di recente e recensito sulle pagine di questo giornale da Roberto Ciccarelli, ndr), o, ancor meglio, a Una scuola di classe di Marco Romito (2016), che mostra come si decidano e programmino per tempo le presunte «attitudini».

Ma anche questo libro di Giunta non andrà trascurato: perché spiega meglio di altri, pur involontariamente, come elitismo e classismo possano diventare senso comune, e addirittura assumere, tra sfoghi e chiacchiere, banalità e boutades, le sembianze del buon senso.

 

Se licei e università difendono (e uccidono) gli studi umanistici

Articolo di Pietro Sisto pubblicato sabato 11 novembre 2017 da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Se licei e università difendono (e uccidono) gli studi umanistici

 Il futuro oltre i rituali e gli «esperti», un libro di Giunta

Non capita spesso di leggere libri stimolanti e intelligenti come E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica (il Mulino ed., pp. 300, euro 16,00) di Claudio Giunta, docente di Letteratura italiana nell’Università di Trento. Filologo, esperto soprattutto di poesia medievale (ha curato per i Meridiani della Mondadori le Rime di Dante), saggista e narratore capace di cimentarsi con l’attualità e la postmodernità (si pensi tra gli altri a Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo oppure a Essere #Matteorenzi), in questo volume lo studioso si occupa del ruolo e del destino delle discipline umanistiche nella scuola e nell’università italiane, con una buona dose di autoironia e con l’intento di combattere i più diffusi e banali luoghi comuni.

Il pregio maggiore dell’opera consiste proprio nella capacità di guardare con competenza e con il giusto distacco all’insegnamento delle discipline umanistiche e letterarie sia nella scuola superiore sia nell’Università, in due mondi diversi che difficilmente possono essere esaminati da uno stesso osservatore perché spesso chi conosce molto bene la prima non ha idea di che cosa sia la seconda e viceversa. Invece l’autore, che oltre ad insegnare nell’Università ha anche pubblicato una antologia per il triennio delle scuole superiori (Cuori intelligenti: mille anni di letteratura, Garzanti 2016), evidenzia con un duplice, convincente sguardo, luci e soprattutto ombre, pregi e soprattutto difetti di un intero sistema di istruzione e formazione che non riesce a soddisfare le aspettative, i sogni e i bisogni di studenti e insegnanti.

Per quanto riguarda la scuola, Giunta insiste innanzitutto sull’astrattezza, se non addirittura sull’inutilità di un confuso, continuo dibattito animato quasi sempre da docenti universitari che «vivono per lo più nel mondo della luna» e tecnici della pedagogia lontani dalla realtà delle classi scolastiche: ai margini e sullo sfondo del dibattito rimangono, invece, gli «unici veramente esperti dei quali sarebbe interessante ascoltare il parere» ovvero gli insegnanti. Il risultato? Programmi a dir poco inattuali e inattuabili con un numero eccessivo di autori e opere, mentre sarebbe molto più utile fare una intelligente selezione, abituando gli alunni a superare tanto la vecchia devozione alle figure retoriche quanto la più recente idea laboratoriale, alchemica della letteratura: entrambe, infatti, finiscono per allontanare lo scopo più importante della lettura che deve essere quello di trovare nei testi la bellezza e la verità. E poi ancora: lo scarso peso dato al teatro, alla storia dell’arte, alla musica e soprattutto alla conoscenza dell’inglese che oggi rappresenta «la vera linea di separazione tra i colti e gli incolti, cioè fra i futuri ricchi e i futuri poveri»; per non parlare anche della tendenza a sostituire i «discorsi sui testi» ai testi, le etichette ai contenuti, a leggere per esempio i Canti di Leopardi parlando sempre, comunque e ancora di «pessimismo individuale, storico e cosmico».

Per quanto riguarda invece l’Università, le cose non vanno affatto meglio se è vero che i docenti, quando non si occupano di altro, sono spesso costretti, almeno per le tesi triennali, a fare i conti con un italiano stentato se non addirittura scorretto, con un numero eccessivo di studenti da seguire, senza di fatto effettuare una vera e propria selezione sia in ingresso sia soprattutto in itinere in quanto le disposizioni ministeriali premiano gli atenei che hanno meno studenti fuoricorso. E qualcosa – aggiunge Giunta – non funziona neanche nei corsi attivati per la formazione dei dottori di ricerca che non solo non riescono a proseguire la carriera universitaria, ma neanche ad inserirsi subito nel mondo della scuola. Così come a dir poco discutibili e tutt’altro che selettivi sono i corsi che le stesse Università organizzano per l’abilitazione all’insegnamento o i concorsi a cattedra. Se poi a tutto questo si aggiunge un mondo accademico afflitto dalle circolari e dalle tabelle ministeriali, ossessionato dal calcolo dei crediti formativi delle discipline, irretito e irritato dalle griglie e dalle formule della valutazione della ricerca, i risultati non possono essere lusinghieri.

In realtà, e questo l’autore lo ribadisce soprattutto nelle pagine conclusive del volume, è molto difficile guardare con ottimismo alle humanities nella scuola, nell’Università e nella vita, nonostante migliaia e migliaia di persone nei corridoi, nelle aule e nei cortili degli istituti scolastici e degli atenei «combattano ogni giorno la loro battaglia, convinti che sia buona». Unica via d’uscita è forse quella di una istruzione umanistica più orientata sul presente, capace di superare la nozione di cultura classica come «qualcosa che nobilita grazie al semplice contatto, come la mano del sovrano nelle superstizioni medievali». Insomma, parole che non mitizzano il passato, che non inorridiscono di fronte al presente e che lasciano qualche speranza per il futuro.