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Sandro Staiano (Università Federico II di Napoli): «Riforma che spacca i territori. Solo il M5S dialoga»

Articolo di Patrizio Mannu pubblicato mercoledì 31 luglio 2019 dal Corriere della Sera.

«Riforma che spacca i territori. Solo il M5S dialoga»

Staiano, a capo dell’Osservatorio sul regionalismo della Federico II

Si comincia con un’autocritica onesta. «C’è stata anche da parte di noi studiosi una sottovalutazione del regionalismo differenziato. Della sua portata, del suo impianto dirompente». E si arriva alla contromisura. «Per questo a Napoli, in seno alla Federico II, nasce l’Osservatorio sul regionalismo differenziato. Sede di discussione e analisi». A parlare così è Sandro Staiano, costituzionalista dell’ateneo federiciano e coordinatore dell’Osservatorio. «Ho scelto di essere coordinatore piuttosto che presidente», ironizza.

Professor Staiano, cosa farà l’Osservatorio?

«Offrirà proposte e analisi, spiegando non solo cosa e giusto o meno fare, ma soprattutto “come” farlo. Indicheremo al legislatore soluzioni ragionevoli ed efficienti».

Da chi è composto?

«Sono presenti i 25 dipartimenti della Federico II ma anche università del Nord. Le faccio qualche nome: Massimo Villone, costituzionalista, gli economisti Floriana Cerniglia dell’Università Cattolica di Milano, Adriano Giannola della Federico II, Gianfranco Viesti dell’Università di Bari, Anna Poggi dell’ateneo di Torino. E siamo aperti a tutti».

Per la fondazione, il 29 luglio, c’era anche Di Maio.

«Di Maio è l’unico politico che ha dimostrato apertura al dialogo. Ha anche promesso di inserire nell’Osservatorio tutti i capi degli uffici legislativi dei ministeri. È una cosa di rilievo visto che tali uffici sono in possesso dei dati reali che a noi servono per le analisi».

Cosa non piace del regionalismo a lei e ai suoi colleghi dell’Osservatorio?

«Tale riforma crea una sperequazione e mina quello che noi studiosi chiamiamo la forma di Stato, crea una frattura fra territori e quindi incrina la libertà di un Paese».

Quando sarete pronti con una prima analisi?

«Credo già dai primi giorni di settembre».

Lei dice che l’Osservatorio è aperto a tutti. Ha pensato a invitare il presidente del Veneto Zaia, almeno per un confronto?

«Guardi a proposito dell’Osservatorio, Zaia ha detto che “se i napoletani vogliono studiare l’autonomia, facciano pure tanto si sa come va a finire”. Un tantino sprezzante. Noi non siamo “napoletani”, siamo studiosi. Siamo la Federico II, cioè 800 anni di storia. Noi 800 anni fa studiavamo in maniera scientifica la Legge. Non so cosa facessero gli antenati di Zaia ottocento anni fa».

No Autonomia, Di Maio si schiera con i docenti. Forum alla Federico II

Articolo di Conchita Sannino pubblicato lunedì 29 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

No Autonomia Di Maio si schiera con i docenti

Forum alla Federico II

Si chiama Osservatorio. Si legge: argomentato e duro dissenso, firmato dagli accademici del sud. Dopo il manifesto reso pubblico già a giugno, oggi comincia ufficialmente la “rivolta” dei professori dell’Università Federico II contro quel regionalismo differenziato che direttori di Dipartimento e presidenti delle Scuole condannano perché «in irrimediabile contrasto con il quadro costituzionale». Anzi: un progetto politico che è figlio di «una pulsione cieca che rende egoisti». La novità, non troppo scontata fino a poco fa, è che il relatore d’eccezione – stamane, al convegno di presentazione, Aula Pessina nella sede centrale del corso Umberto, ore 9.30 – sarà il vicepremier Luigi Di Maio.
Il due volte ministro e leader del Movimento 5S, dopo l’impegno stilato nel “contratto” con la Lega a portare a casa quell’Autonomia peraltro ipotizzata dal via al referendum del precedente governo Pd – dopo aver rivisto il dossier e valutato i rischi di secessione (oltre che la caduta di consensi), ha cambiato approccio. «Se qualcuno sta giocando a spaccare l’Italia, questo non lo permetteremo», è l’ultima linea di Di Maio, ripetuta anche in video, una settimana fa. Più netta e datata l’opposizione del presidente della Camera, Roberto Fico, che aveva già da mesi segnalato la incostituzionalità della proposta di Lombardia e Veneto, in particolare ribadendo che nessuna intesa sarebbe passata «se non attraverso un esame rigoroso, completo, da fare in Parlamento».
Ma la linea tracciata dai professori della Federico II va molto oltre queste diffidenze. La mattinata sarà aperta dal rettore Gaetano Manfredi. Introduce il professore Sandro Staiano, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza (e tra i promotori dell’Osservatorio), intervengono Massimo Villone emerito di Diritto costituzionale; Giuseppe Tesauro, presidente emerito della Corte Costituzionale; Adriano Giannola, presidente Svimez; Floriana Cerniglia, ordinario di Economia politica all’Università del Sacro Cuore di Milano; Gianfranco Viesti ordinario di Economia applicata a Bari.
«Un’autonomia chiesta e applicata nei termini in cui vorrebbero Lombardia e Veneto? Ma è pura follia, oltre ad essere profondamente incostituzionale», sottolinea con Repubblica il professore Tesauro, peraltro “corteggiato” dal Movimento 5S anche alla vigilia dell’ingresso dei pentastellati a Palazzo Chigi. «Tutti coloro che ritengono valida questa assurda intesa si appigliano al fatto che ci sia stato un referendum. E allora? Qui si parla del destino della coesione nazionale. Si tratta di livelli sideralmente distanti», ribadisce il presidente emerito della Corte costituzionale.
La Federico II – con i suoi 795 anni di storia – sul piede di guerra, avendo «contribuito a formare le migliori classi dirigenti italiane», come ricordano i docenti nel loro appello di giugno. Tre pagine per ricordare e mettere in guardia «dalla crescita delle asimmetrie lungo la linea di frattura Nord-Sud», in particolare nelle «misure di “differenziazione” che già riguardano il sistema universitario e dell’istruzione in genere».
E per i dati relativi «alla garanzia del diritto allo studio, con la Campania agli ultimi posti, insieme a Calabria e Sicilia, per percentuali di aventi diritto che accede alle borse di studio (fonte: Corte dei Conti)». Con l’Autonomia, anche l’Università – con il resto del territorio, e dei giovani in particolare – conterebbe gravi danni. «In maniera irreversibile e – chiosano i professori – in termini drammatici per le sorti dell’intero Paese».

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Gianfranco Viesti (Università di Bari) – Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Articolo pubblicato dalla rivista Il Mulino (n. 3 del 2019).

Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Il nostro è un Paese giovane, ma con un futuro denso di incertezze. Un Paese segnato sin dalla sua nascita da una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra le sue regioni; e che nel suo processo di sviluppo ha visto consolidarsi forti disuguaglianze economiche territoriali. Un Paese con una significativa debolezza dei suoi apparati centrali di governo – nella loro efficienza, nella capacità di garantire ai cittadini servizi pubblici e diritti di cittadinanza comparabili –, dove c’è voluto un secolo per raggiungere nel Mezzogiorno livelli di istruzione elementare simili a quelli del resto d’Italia. Anche per tutto questo, un Paese con lunghe e alterne vicende di contrapposizioni di interessi territoriali.

Nel secondo dopoguerra l’Italia ha provato a unificarsi davvero. Ha puntato a rafforzare l’economia delle sue regioni più deboli, a vantaggio della crescita dell’intero Paese, e a garantire maggiore uniformità fra i suoi cittadini nella fruizione dei grandi servizi, a partire da istruzione e salute. È stato, pur con tutte le sue contraddizioni, il periodo migliore della nostra storia economica: la maggiore coesione sociale e territoriale è andata di pari passo con tassi di crescita mai raggiunti, e che non saranno mai più raggiunti. Certo, quella crescita è stata collegata a condizioni abilitanti storicamente determinate e irripetibili. Tuttavia, non si sfugge: quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva. La stessa identica logica dell’integrazione europea.

Con gli anni Settanta, il «miracolo» è scomparso. E questo ha portato con sé il rinascere di conflitti distributivi: la spinta e i danari per lo sviluppo si sono spostati dall’industrializzazione del Sud alla riconversione del Nord; ma al Mezzogiorno sono stati garantiti trasferimenti compensativi: spesso distorsivi, in un intreccio sempre più negativo fra classi dirigenti politiche nazionali e locali. Con gli anni Novanta, la grande crisi fiscale e la stretta sulla tassazione hanno provocato per la prima volta la nascita di un movimento politico a esplicita base territoriale, fortemente antimeridionale. La Lega ha condizionato le scelte politiche a cavallo del secolo: la sua minaccia politica è stata ad esempio importante per spingere nel 2001 i governi di centrosinistra a una riforma del Titolo V della Costituzione certamente affrettata, e con diversi elementi problematici. E ha contribuito al diffondersi di un pericoloso veleno, una sottocultura in base alla quale l’impiego delle risorse pubbliche è sempre, per definizione, a somma zero: più a te significa sempre meno a me. In questo anche favorita dal progressivo venir meno dei partiti politici nazionali, sedi per propria natura deputate alla composizione di differenti interessi territoriali, e alla loro mediazione in scelte di interesse collettivo. Ancora fino alla fine del primo decennio di questo secolo gli effetti concreti di questo veleno sono stati parziali: certo, con l’esplodere della «questione settentrionale» lo sviluppo del Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica. Ma le stesse richieste di «autonomia regionale differenziata» di Lombardia e Veneto sono state bellamente ignorate dai governi Berlusconi 2008-11. Ma con la grande crisi, la situazione è cambiata: le derive già presenti si sono accelerate. Sono mutati gli scenari europei. Si è affievolita la condivisione del grande progetto di integrazione. Si sono rafforzati sovranismi di varia natura e intensità: egoismi e isolazionismi nazionali, come quelli di alcune giovani e incomplete democrazie dell’Est; egoismi regionali, come quelli che hanno segnato lo scenario spagnolo degli ultimi anni. Il voto sulla Brexit sembra uno spartiacque: l’offerta politica di un presunto ritorno alla sovranità, della ricostruzione di confini e barriere, si è rivelata vincente.

Ed è profondamente mutato il quadro nazionale. La crisi è stata cattiva, profonda, persistente, assai più di quanto si riuscisse a vedere nel corso del suo dipanarsi; e ha prodotto un terremoto elettorale che è sotto gli occhi di tutti. Le scelte di politica economica, in parte necessarie per la pessima condizione dei conti pubblici, in parte obbligate in tempistica e dimensione da nuove regole europee assai discutibili, hanno compresso i redditi, ridotto il benessere, accresciuto la pressione fiscale e tagliato i servizi, ricentralizzando le grandi scelte di bilancio e spostando a livello regionale e locale molti sacrifici. L’Italia è entrata in un’era di aspettative fortemente decrescenti; ha visto aumentare disillusioni e timori, egoismi e rancori. La ricerca di capri espiatori, ovviamente diversi da sé. Fossero essi le regole e le istituzioni europee (pur non esenti da evidenti criticità), i flussi migratori (pur assai problematici nella loro dimensione e dinamica), le élite, la «casta» dei privilegiati (pur sovente sorde all’ascolto delle difficoltà diffuse). E, naturalmente, i meridionali; in realtà sempre più spesso i centro-meridionali, con uno spostamento d’ufficio di Roma («ladrona») nel Mezzogiorno. La parte parassita del Paese, che gode di elevati servizi e prestazioni senza meritarli grazie a lavoro, reddito e sforzo fiscale; che vive alle spalle dell’Italia che produce.

L’Italia di oggi sembra segnata da una crescente sfiducia nel futuro e dal conseguente prevalere, in molti cittadini, dell’interesse per le proprie sorti, individuali o di piccolo gruppo. E quindi da una scarsa attenzione per i grandi servizi collettivi: gli italiani sembrano assistere piuttosto passivamente alla progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale, alla compressione selettiva e cumulativa dell’università, al declino della scuola. Infine, da una domanda di politiche di breve termine; non a caso la maggioranza dei cittadini pare approvare le scelte della coalizione di governo, orientate verso il soddisfacimento di interessi individuali o di piccoli gruppi. Molti italiani non hanno più fiducia nella capacità delle politiche pubbliche di cambiare in meglio il Paese, di migliorare il loro futuro.

Ad esito di tutto questo, l’Italia di oggi è teatro di una lotta sorda e sotterranea per spartirsi i residui delle risorse pubbliche. In questo pienamente leghistizzata. Convinta cioè che «più a te» significhi automaticamente «meno a me», senza fiducia nelle logiche dell’integrazione, nell’investimento nel futuro, negli effetti positivi del recupero di disuguaglianze e disparità.

È in questo clima che matura, a partire dal 2017, il progetto della «secessione dei ricchi». Non giunge inatteso. È preannunciato dalle vicende del federalismo comunale: nel 2009, con la legge 42, si è provato a modificare il finanziamento degli enti locali, ancorandolo a criteri oggettivi; ma poi in sede di attuazione, in presenza di risorse decrescenti, la loro definizione è diventata teatro della guerra, largamente vittoriosa, dei comuni più ricchi a quelli più poveri. Dalle vicende del finanziamento delle università, in cui una girandola di norme e di indicatori quasi sempre costruiti ad hoc ha ripartito risorse totali fortemente decrescenti in modo assai asimmetrico, a danno del sistema degli atenei del Centro Sud e del Nord periferico. Da modifiche dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, che stanno contribuendo ad accelerare – invece di contrastare – le migrazioni sanitarie di pazienti da una regione all’altra. Tutte vicende segnate dal ruolo cruciale ma nascosto di agenzie tecniche pseudo-neutrali, incaricate di produrre numeri tali da far sembrare precise scelte politiche nulla più che esiti di algoritmi; e, soprattutto, dalla totale mancanza di discussione pubblica e dal disinteresse del sistema dell’informazione. Dalla fuga della politica.

Ma che cosa è la secessione dei ricchi? Rimandando il lettore interessato a maggiori dettagli a un volumetto scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore Laterza, si può ricordare sinteticamente che si tratta della richiesta di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ai sensi del III comma dell’articolo 116 della Costituzione (come riformata nel 2001), di ulteriori e particolari forme di autonomia. Alle tre regioni capofila poi sono pronte ad accodarsene altre. In questa richiesta vi sono almeno tre elementi di evidente criticità, tali da giustificare una definizione così forte.

Innanzitutto, non si tratta di specifiche materie, collegate a specifiche condizioni della specifica regione, tali da rendere ragionevoli poteri e competenze non riconosciute alle altre, in un regionalismo «differenziato». Ma della richiesta politica di poter disporre praticamente di tutte le competenze che teoricamente possono essere trasferite in base alla lettera di quel comma. La Lombardia chiede ben 131 nuove funzioni legislative e amministrative. Nessuna evidenza è presentata sulla circostanza che in queste materie la gestione regionale sarebbe più efficace e/o più efficiente di quella nazionale: è un dogma che non occorre dimostrare. È in gioco così gran parte dell’intervento pubblico che si realizza in Italia: dalla regionalizzazione della scuola alla sostanziale cancellazione del Servizio sanitario nazionale, dai beni culturali all’assetto del territorio, dalle infrastrutture all’energia, dal lavoro alla previdenza complementare. Vi sono differenze fra Emilia-Romagna da un lato e Lombardia e Veneto dall’altro su alcuni aspetti cruciali, a partire dalle richieste delle ultime due di regionalizzare il personale della scuola e di acquisire al demanio regionale parti del patrimonio infrastrutturale esistente (dalle autostrade alle ferrovie agli aeroporti) per poterlo mettere a valore; incuranti del fatto che esso è stato realizzato con le risorse della collettività nazionale. Nell’ultimo anno il ministro incaricato del dossier (una leghista veneta) ha cercato di soddisfare in ogni modo queste richieste, ma quanto il governo Conte sia disposto alla fine a concedere è avvolto nelle nebbie: i testi delle parziali intese di merito già raggiunte sono, al maggio 2019, segreti.

In ogni caso, una radicale revisione di come funziona l’Italia. Per i promotori, si tratta di modifiche opportune, che possono migliorare le politiche pubbliche e avvicinarle ai cittadini. Ma, a parte gli evidenti dubbi che questo sia vero su una tale sterminata congerie ed estensione di materie, la questione centrale è che essi la chiedono solo per se stessi. Non propongono, cioè, una modifica dell’articolo 117 della Costituzione, volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese; propongono l’attuazione del 116: cioè un trasferimento solo per se stessi.

Che gli altri si arrangino, in una situazione in cui l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco; un vero e proprio unicum al mondo: con 4 regioni a statuto speciale, due provincie autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna con ambiti un po’ diversi) e poteri centrali con la responsabilità delle politiche e dei servizi nei ritagli di Paese residui.

In secondo luogo, questa richiesta sterminata fa il paio con la volontà di poter acquisire risorse finanziarie assai più ampie di quelle oggi erogate dallo Stato centrale in quei territori per quelle funzioni. Più ampie le competenze, più ampia la differenza nelle disponibilità economiche. Date le condizioni della finanza pubblica, questo non può che avvenire senza incrementare la spesa complessiva: e quindi utilizzando risorse oggi spese in altre regioni. Questo è da sempre stato esplicito nelle richieste venete; il grande obiettivo sbandierato ai cittadini di riprendersi i «propri soldi» (in realtà, della collettività nazionale). Chiaro, anche se pudicamente meno reiterato, in quelle lombarde. Escluso invece in quelle emiliane, anche se senza alcuna obiezione alle posizioni delle prime due.

Richieste santificate dalla pre-intesa raggiunta con le regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più. Di fronte all’enormità di questo patto, persino l’attuale governo sembra pensare ad altre disposizioni finanziarie. Ma nelle ipotesi di intesa (sulla sola parte finanziaria) disponibili sul sito del Dipartimento degli Affari regionali si prova comunque a far rientrare dalla finestra ciò che non entra più dalla porta: si stabiliscono criteri per cui – specie nella scuola – le regioni potrebbero disporre di risorse ben maggiori, sottraendole alle altre; così come un canale privilegiato per la spesa per investimenti pubblici.

Infine, l’idea delle tre regioni è sempre stata ed è quella di concludere l’intesa con il governo (ci si è arrivati ad un passo il 15 febbraio 2019) e di puntare poi ad un rapido ed indolore passaggio parlamentare di mera ratifica. A quel punto il gioco sarebbe fatto. Ciascuna intesa potrebbe essere modificata solo con l’assenso della regione interessata, e non potrebbe essere sottoposta a referendum abrogativo. L’enorme potere attuativo e di definizione di tutti gli aspetti di dettaglio, normativi e finanziari, passerebbe nelle mani di Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte al controllo parlamentare e – se il colpo riuscisse perfettamente – anche a quello della Corte Costituzionale. Il percorso non è ancora definito. L’idea che il Parlamento non debba discutere e poter emendare nulla pare davvero estrema. Ma in queste vicende le ipotesi estreme, neanche immaginabili nell’Italia di qualche anno fa, sono molte.

Una parte delle classi dirigenti di Lombardia, Veneto ed Emilia sta dunque provando a ristrutturare profondamente l’Italia. A farsi quasi Stato nello Stato. La prospettiva dell’indipendentismo veneto (arrivata fino all’indizione di un referendum nel 2014 su «volete voi il Veneto indipendente», poi vietato dalla Corte costituzionale) è al momento abbandonata. Molto più comodamente, si resta parte di un Paese membro dell’Unione europea: con tutti i vantaggi in termini di libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone che ne derivano; con sicurezza, difesa, politica estera comune; con l’enorme debito pubblico che rimane nella responsabilità solidale di tutti gli italiani. Ma con poteri legislativi e amministrativi straordinariamente vasti; e con le relative risorse che «rimangono» nella regione senza essere trasferite alla fiscalità generale, poste così al di fuori da manovre nazionali di austerità o di revisione della spesa in quegli ambiti.

Ci si mette il più possibile al riparo da eventuali crisi di sistema del Paese, purtroppo non impossibili. Lasciando il governo dei conti pubblici a un Tesoro con lo stesso debito ma con un minor gettito fiscale disponibile (una volta detratte le risorse che rimangono nelle regioni) per farvi fronte. Si pongono le basi per una diversa organizzazione della sanità o della scuola; con il potere di operare scelte politiche anche profonde: di rompere i principi di universalismo della sanità pubblica, o di riconoscere e finanziare a piacere le istituzioni private nell’istruzione, di organizzare una previdenza complementare solo per i propri cittadini. Si accrescono enormemente i poteri di gestione e di intermediazione di risorse pubbliche delle classi dirigenti regionali.

Il processo nasce e trova alimento dalla pluridecennale predicazione leghista. Ma il favore intorno ad esso è ben più esteso, profondo. Con interessanti differenze fra le regioni. In Veneto il consenso per «l’autonomia» è assai vasto (testimoniato anche dalla sensibile partecipazione al referendum consultivo del novembre 2017): coinvolge gran parte delle forze economico-sociali e quasi tutte le rappresentanze politiche. Certo, il consenso è, genericamente, «per l’autonomia»: non è chiaro quanto vi sia conoscenza del fatto che i dirigenti e i programmi scolastici verrebbero a dipendere dalla politica regionale, o che quelle della Laguna non sarebbero più acque territoriali italiane. Il Veneto soffre molto della vicinanza alle privilegiate aree a statuto speciale di Friuli-Venezia Giulia e, soprattutto, Trento e Bolzano: si pensi che per ogni studente trentino si spende il 70% in più che per gli altri studenti italiani. Ma invece di intestarsi una proposta volta a ridare razionalità ed equità al sistema delle autonomie, mira esso stesso a divenire «speciale»: e che gli altri, in particolare i meridionali spreconi, si arrangino. Più articolata pare la situazione lombarda: regione assai più legata da interessi e consuetudini alla comunità nazionale; con una Milano freddissima su questo tema, così come evidente dalla assai scarsa partecipazione elettorale al referendum del 2017. La grande sorpresa è però l’Emilia guidata dal Partito democratico. Che chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre: per sé, e non per tutti. Con il 116 e non con il 117: rinunciando quindi a porsi alla testa di qualsiasi progetto di riforma nazionale. Che rivendica i principi dell’unità del Paese e si fa vanto di non richiedere risorse aggiuntive: ma che si allinea in toto alle altre due nel percorso e nella pressione politica; e che sottoscrive senza problemi testi che le darebbero non pochi vantaggi economici. Il tutto nell’assordante silenzio delle comunità culturali e politiche di Lombardia ed Emilia, che non trovano evidentemente necessario o elegante discutere del futuro proprio e degli altri italiani; derubricando forse questa grande prospettiva a questione amministrativa. Silenzio pur rotto dalle forti prese di posizioni contrarie dei due sindaci di Bologna e Milano, dell’ex presidente della Regione Emilia-Romagna, di alcuni intellettuali: ma senza che ne sia scaturita discussione diffusa.

Balbettano, su questo come su altri temi, le altre regioni; con le principali del Sud a zig-zag fra il desiderio di acquisire maggiori poteri di gestione e intermediazione per sé e le preoccupazioni per l’essere i loro cittadini le principali potenziali vittime. Protesta la Toscana, in difesa di una ben diversa concezione di autonomia, ma con un filo di voce. Si accoda nelle richieste la Liguria, che punta, come prospettiva strategica, alla gestione del sistema autostradale e ferroviario e del demanio portuale e aeroportuale e ai relativi incassi da concessioni e traffico; un luminoso futuro, sia detto con un filo di ironia ma anche con preoccupazione, da esattore di transito.

Nella politica nazionale c’è solo la Lega: vociante al Nord, silenziosa e reticente nel resto del Paese dove cerca consenso; ma pronta in qualsiasi momento all’offensiva finale per i propri «veri» territori ed elettori. I 5 Stelle paiono aver preso coscienza solo negli ultimi tempi di quel che essi stessi hanno convenuto nel contratto di governo, e frenano. Silenti gli altri, tranne l’estrema sinistra, contraria. Silenti, nonostante il nome, i fratelli d’Italia e i forza-italiani. Silente il Partito democratico, spaccato fra alcuni dei suoi esponenti che avanzano perplessità e le componenti lombardo-venete, e soprattutto quella – assai più potente – emiliana, che chiedono condivisione e assoluto silenzio in pubblico. Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte, e si prova a non perderle inseguendo anche un po’ la Lega. Partiti incapaci di una discussione aperta e basata sui fatti e di una mediazione politica fra le diverse posizioni; di formulare proposte basate sui propri valori di riferimento e sul complessivo interesse nazionale.

Al momento in cui scrivo, non è affatto chiaro come terminerà questa vicenda. Ma le convinzioni e gli interessi politico-economici da cui nasce e le questioni che essa solleva sono destinati a restare, a incidere ancora a lungo, nell’Italia di oggi e di domani. Forse aggravate da contrapposizioni sempre più sorde fra i cittadini di diverse regioni, di cui purtroppo si vedono le avvisaglie. Con esse, e con il permanere di una politica incapace di proporre e progettare una profezia positiva di un futuro condiviso, il rischio che il nostro giovane Paese progressivamente, passo dopo passo, di fatto si dissolva.

Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Due milioni di veneti non decidono per l’Italia

Articolo pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Due milioni di veneti non decidono per l’Italia

Sull’autonomia il premier Conte notifica ai governatori che non possono avere tutto quello che chiedono. Sulla scuola, il sottosegretario Giuliano (M5S) informa che «tutto il personale e quindi anche il curricolo, quello che si farà a scuola, rimane di competenza nazionale». Zaia, “basito”, afferma: «Noi veneti ne abbiamo le tasche piene di tutta questa storia … è una autentica presa in giro (copyright Bonaccini, NdA) … a nome dei 2 milioni 328 mila veneti che hanno votato per il sì all’autonomia dico che siamo stanchi, stanchissimi. La misura è colma». Fontana segue a ruota con gli insulti sui “cialtroni” al governo.
Dopo il ceffone, Conte scrive (Corriere della sera, 21 luglio) un – troppo – accorato appello ai cittadini lombardo-veneti. L’aggressività degli aspiranti secessionisti testimonia la loro voglia di farsi Stato. Zaia e Fontana schiumano di rabbia perché con la regionalizzazione integrale del personale della scuola, ora cancellata, già pregustavano una succulenta polpetta di governo di decine di migliaia di docenti e 8 o 10 miliardi in più. Ma non è finita. Sopravvive la disposizione che smantella la potestà legislativa statale in materia di “norme generali sull’istruzione”? Se così fosse, l’intesa rimarrebbe inaccettabile.
Oggi segniamo un piccolo punto per l’unità della Repubblica, ma i rischi per il Sud e il paese sono ancora molti e gravi, dalle risorse all’ambiente, alle infrastrutture, al lavoro, alla sanità e altro ancora. Come sempre, le carte sono nascoste da una fitta nebbia e al popolo sovrano non è dato sapere.
Preoccupa, poi, la bellicosa Stefani: «Chi riesce a garantire servizi efficienti riuscendo a risparmiare dovrà gestire come meglio crede queste risorse. … Premiare e stimolare l’efficienza e punire gli incapaci, sono questi gli obiettivi della Lega per far crescere il Paese» (Libero, 20 luglio). Il mondo della Stefani si divide in incapaci al Sud e virtuosi al Nord, secondo i luoghi comuni – ormai smentiti ampiamente – che hanno inquinato il dibattito. Si vuole o no giungere preliminarmente alla definizione di lep e fabbisogni standard, superando la spesa storica che è in danno del Sud? O si punta al privilegio sulle risorse per le tre regioni, certificato da fonti non sospette come pericoloso per la finanza pubblica e la coesione nazionale? Prepari le armi De Luca, senza illudersi di essere un giorno trattato alla pari.
La Stefani dovrebbe vergognarsi. Se gli stracci volano, è colpa sua e della sua segreta e privatissima trattativa con le regioni. Come ministro della Repubblica avrebbe potuto e dovuto aprire la fase preparatoria alle altre regioni, a esperti, studiosi, organi indipendenti, forze sociali, associando per tempo e non a cose fatte i ministri competenti per materia, informando periodicamente le Camere sugli stati di avanzamento, verificando in corso d’opera gli equilibri realizzabili e i limiti costituzionali e finanziari. Invece, ha consentito, o favorito, che in segreto le bozze di intesa gonfiassero a dismisura i pre-accordi Bressa-Gentiloni, andando ben oltre il richiamo nel “contratto” di governo.
L’errore della Stefani va corretto, riconducendo la discussione sull’autonomia su binari di serietà scientifica, di dati affidabili, di rispetto della Costituzione. Per questo, il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Federico II terrà lunedì 29 luglio la prima riunione dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato, il cui obiettivo è seguire con continuità e con analisi ragionate i lavori nelle sedi istituzionali. Introdurrà il direttore Staiano, parteciperanno Giannola, Viesti, Esposito, Cerniglia e io stesso. Interverrà Di Maio, con il quale si cercherà una interlocuzione lontana da qualsiasi tifoseria.
Presidente Zaia, la smetta di marciare su Roma con il mantra che 2.328.000 veneti hanno votato sì all’autonomia. Ci rammenta che circa 45 milioni di altri italiani aventi diritto al voto non hanno mai avuto occasione di parlare. Nessuno ha chiesto a loro – invero, nemmeno ai lombardo-veneti – se si dovesse o potesse regionalizzare la scuola, quel che resta del servizio sanitario nazionale, l’ambiente, le sovrintendenze, beni culturali vanto dell’Italia nel mondo, o ancora infrastrutture – pagate con i soldi di tutti gli italiani e poste a garanzia del debito sovrano – che lei vorrebbe ora trasferite al demanio regionale. Anche quei 45 milioni di italiani sono stanchi, stanchissimi. Anche noi ne abbiamo le tasche piene. Anzi, a esser sinceri, lei, con la sua allieva ed emula Stefani, ce le ha proprio sfondate.

Gianfranco Viesti (Università di Bari) – Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale

Versione digitale in formato ePub con watermark
copia non destinata alla vendita, omaggio dell’Editore – scarica il formato digitale
Edizione: 2019
Collana: Opere varie
ISBN: 9788858136430

Si sente dire che Veneto e Lombardia vogliono l’autonomia regionale differenziata. Ma pochissimi italiani sanno di che cosa si tratta effettivamente: anche perché se ne parla poco, e in modo volutamente molto vago. Questo breve saggio racconta le origini di questo processo, le richieste regionali e le loro possibili implicazioni. Mostra così che non si tratta di una piccola questione amministrativa, che riguarda solo i cittadini di quelle regioni, ma di una grande questione politica, che riguarda tutti gli italiani. Che può portare ad una vera e propria “secessione dei ricchi”; spezzettare la scuola pubblica italiana; creare cittadini con diritti di cittadinanza di serie A e di serie B a seconda della regione in cui vivono.

Scuola, università, sanità, lavoro, beni culturali, ambiente contro l’autonomia differenziata

Comunicato stampa pubblicato venerdì 5 luglio 2019 dal sito di OrizzonteScuola.

Scuola, università, sanità, lavoro, beni culturali, ambiente contro l’autonomia differenziata

Comunicato stampa – Assemblea nazionale, domenica 7 luglio, Aula Magna Liceo “Torquato Tasso”, via Sicilia 168, Roma (ore 10.00 – 16.00)

Non importa che sia arrivata un’estate torrida, che molti insegnanti siano ancora impegnati nello svolgimento degli esami di Stato o negli adempimenti di fine anno scolastico, o che siano stanchi e stremati da un ininterrotto periodo di riforme politiche ostinatamente sorde e cieche, che continuano a devastare la scuola e la sua funzione, destrutturandola e svuotandola di significato.

E’ dal mondo della scuola che è partita infatti la mobilitazione contro l’autonomia differenziata, non solo nell’ambito dell’istruzione ma in ogni settore. Una mobilitazione fatta di vigilanza, studio, impegno, diffusione dell’informazione e lotta contro un progetto di regionalizzazione su base fiscale che configura in realtà una vera e propria secessione del ricco e opulento Nord ai danni del Meridione. Domenica prossima i rappresentanti di 106 associazioni, e il numero aumenta di giorno in giorno, si ritroveranno nell’aula magna del liceo Tasso a Roma in un’assemblea nazionale – promossa e organizzata da ‘Appello per la scuola pubblica’, Assur, Autoconvocati della scuola, Comitato 22 marzo per la difesa della scuola pubblica, LipScuola, Manifesto dei 500 e gruppo No Invalsi – per riflettere sui drammatici scenari che la regionalizzazione aprirebbe e sulle possibili iniziative di contrasto.

Il senso ultimo di questo progetto legislativo lo ha spiegato bene fin dall’inizio Gianfranco Viesti, docente di economia applicata all’Università di Bari, esperto di economia internazionale, industriale, regionale e di politica economica. Nel suo pamphlet intitolato “Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale”, pubblicato con Laterza e messo gratuitamente a disposizione dei lettori in ebook, ci descrive con chiarezza la genesi di questo processo e le sue possibili implicazioni, amministrative, economiche ma soprattutto politiche.

Il mondo della scuola ha colto subito i pericoli insiti in questo “patto scellerato” stipulato a fine mandato dal governo Gentiloni con il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna e poi rinsaldato dall’Intesa firmata lo scorso 15 febbraio tra i governatori delle tre regioni del Nord e il Presidente del consiglio Giuseppe Conte. Le cui rassicurazioni sulla salvaguardia della solidarietà e della coesione nazionale, in piena conformità con l’architettura costituzionale del nostro Paese, e sul coinvolgimento delle camere nell’iter parlamentare, non sono sembrate sufficienti ad arginare i rischi insiti nel rafforzamento delle autonomie regionali, reso possibile dall’assunzione in proprio di potestà legislative fino ad oggi in capo allo Stato.

Se è vero che il processo di attuazione dell’autonomia differenziata è previsto dal novellato articolo 116, terzo comma della Costituzione (riformata dal centrosinistra nel 2001), che consente di attribuire particolari condizioni di autonomia alle Regioni a statuto ordinario che ne fanno richiesta – e se è vero che questa riforma è prevista nel contratto di Governo stipulato tra la Lega e il M5S – è altrettanto vero che l’unità giuridica, economica e politica di un’Italia “una e indivisibile” non può essere calpestata, pena la disintegrazione del nostro Paese. Il mondo della scuola, protagonista del processo di unificazione fin dal Risorgimento, è assolutamente consapevole del rischio che si sta correndo, tanto più grave in un momento come questo, in cui sarebbe opportuno convogliare ogni energia in un processo, diametralmente opposto, di integrazione politica e di democratizzazione delle istituzioni europee, in difesa dell’ambiente, del welfare, del lavoro e dei diritti civili in un orizzonte di solidarietà, rispetto, accoglienza e condivisione.

Per questo, dallo scorso novembre, con l’apertura di un Tavolo unitario contro ogni forma di regionalizzazione, associazioni e movimenti che lo rappresentano hanno cercato un’interlocuzione con le organizzazioni sindacali nell’intento di attivare una capillare campagna di sensibilizzazione e reazione, e non solo tra i docenti. Appelli, scioperi indetti dai sindacati di base, convegni, assemblee, manifestazioni e sit-in promossi da comitati di cittadini, dalle associazioni e dai movimenti hanno scandito gli ultimi mesi, mentre proseguono gli accordi tra Regioni e Governo, se pure tra contrasti e rinvii.

Non possiamo fermarci: la ministra degli Affari regionali Erika Stefani, esponente della Lega, e il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’interno Matteo Salvini premono l’acceleratore, tanto più dopo i trionfanti esiti elettorali delle ultime elezioni europee. Non dimentichiamo che la Lega nord ha come primo punto del suo Statuto “l’indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica Federale indipendente e sovrana”. E’ dunque necessario intensificare la nostra opposizione e allargarne il fronte a tutti i settori, a tutte le 23 materie interessate da una riforma che cambierebbe radicalmente il nostro assetto istituzionale e ci precipiterebbe in una condizione sociale, economica e politica davvero insostenibile. L’incontro di domenica, che sta implicando un enorme sforzo organizzativo e al quale sono tutti invitati a partecipare, mira all’elaborazione di una prospettiva condivisa, nella convinzione che solo una forte e costante mobilitazione dal basso possa costituire il presidio necessario contro ogni iniqua secessione dei ricchi.

Massimo Villone – Autonomia, un addio al Sud

Articolo pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Autonomia, un addio al Sud

Contro l’autonomia differenziata si sono a lungo levate solo voci di studiosi e di società civile. In campo ci siamo trovati inizialmente in pochi: Viesti, Giannola, Esposito, io stesso, associazioni della scuola, organizzazioni di medici, imprenditori. Ma pian piano studi e denunce hanno fatto breccia.
Il sindacato ha parlato con voce chiara a Reggio Calabria. L’università di Napoli Federico II ha approvato un documento di dura critica. Un appunto del Dipartimento affari giuridici e legislativi per il premier Conte ha stroncato il progetto in salsa gialloverde. Diamanti ci informa di una maggioranza di favorevoli per l’autonomia regionale. Ma la rilevazione non coglie il nuovo clima, e probabilmente ancora risente della insufficiente informazione e della pervasiva pubblicità ingannevole di chi sostiene che “andrà meglio per tutti”.
Invece, di fronte all’evidenza si sono finalmente levate voci dai palazzi della politica. Parlamentari come Boccia, Nugnes, Presutto, Amitrano, Ruocco lo hanno ammesso: alla base della pressione leghista c’è una menzogna che rappresenta il Sud come un pozzo senza fondo che divora le ricchezze del Nord virtuoso ed efficiente. È falso, come le cifre – quelle giuste e non taroccate – dimostrano. Cifre mai smentite, e che già avevano trovato qualche eco in parlamento.
Una buona notizia potrebbe essere la nomina di Oddati – di cui abbiamo stima – come responsabile per il Mezzogiorno nella segreteria Pd. Ma il terreno è minato. Zingaretti spera di trovare con lui una copertura credibile alla linea di contrapporre la “buona” autonomia dell’Emilia-Romagna a quella “cattiva” di Lombardia e Veneto. Ma è una linea insostenibile, come ho scritto su queste pagine. Oddati o riesce a farla cambiare, o affonda nella palude con il Pd, che proprio rincorrendo la Lega rischia alla fine di consegnare l’ex regione rossa a Salvini.
Segnaliamo in specie a Oddati che non si può condividere l’idea del sottofinanziamento del Mezzogiorno, e al tempo stesso sostenere che l’Emilia-Romagna è tutt’altra cosa. La prova si trae dal fatto che sul punto cruciale delle risorse la richiesta di Bonaccini & Co. è uguale a quella di Fontana e Zaia (punto 5 della “parte generale concordata” pubblicata sul sito del ministero delle autonomie). Come afferma anche l’appunto al premier Conte del Dipartimento affari giuridici, non c’è modo di evitare l’indebito vantaggio per le tre regioni a danno delle altre.
Secondo le ultime interviste di Fontana e Zaia (Libero, 1 luglio) chi si oppone all’autonomia lo fa per slogan. Al contrario. Ci si oppone con le cifre. È slogan la loro apodittica affermazione che l’autonomia fa bene a tutti. Lo dicano ai bambini di Casoria o di Reggio Calabria, che sono e con la loro autonomia rimarrebbero – senza asilo nido. Lo dicano a chi nella scuola difende l’identità e l’unità nazionale, e rifiuta di barattare la propria dignità con i pochi spiccioli concessi da un potere arrogante. Parlino delle materie non integralmente devolvibili, come le definisce l’appunto del Dipartimento per il premier, e tuttavia oggetto delle loro pretese. Smentiscano con cifre non taroccate lo scippo al Sud. Dimostrino l’efficientamento del paese, fin qui solo presunto. Ci spieghino come conciliare il buon governo e la buona amministrazione tanto decantati con le provate infiltrazioni della criminalità organizzata, il Mose, i governatori ospiti delle patrie galere.
Dicono che bisogna leggere le carte. Giusto. Peccato che le abbia chiuse nel cassetto la Stefani, impegnata a declassare la sua poltrona ministeriale a strapuntino di Zaia. Ma quel che abbiamo nonostante tutto visto, ci basta. Il disegno separatista di abbandonare il Sud per il miraggio di un grande Nord che si distacca e si aggancia all’Europa esiste, e ne ho dato già conto. Da ultimo, ho qui richiamato l’intervista di Cirio, neo-governatore del Piemonte (Il Tempo, 24 giugno). Si aggiunge (Adige, 1 luglio) Dellai, per un ventennio esponente politico di primo piano in Trentino-Alto Adige, che chiede esplicitamente di lavorare per un “asse” del Nord con Bolzano e Innsbruck, “nella prospettiva di una più vasta coalizione alpina”. È un disegno che le baruffe da pollaio in chiave pre-elettorale cui assistiamo certo non aiuteranno a fermare.
Un lettore torinese di Repubblica lamenta (1 luglio) che di sera non c’è un Frecciarossa o Italo da Torino verso Milano. Cosa dovremmo dirgli, che la sera nemmeno da Napoli a Roma? E che però Reggio Calabria non li vede mai? I treni come gli asili. Stia sereno. Nell’essere Sud non ci batte nessuno.

Gianfranco Viesti: «Progetto costruito su indicatori sbilanciati: è in discussione l’unitarietà del sistema universitario italiano»

Articolo di Maddalena Mongiò pubblicato martedì 14 maggio 2019 da Il Nuovo Quotidiano di Puglia.

«Progetto costruito su indicatori sbilanciati: è in discussione l’unitarietà del sistema»

L’analisi del professor Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata all’Università di Bari. Se ne può parlare, ma una misura così importante deve essere discussa e decisa dal Parlamento

«L’obiettivo è di dare maggiori fondi agli Atenei del Nord: la Lega rimane sempre la Lega». La sintesi è di Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata all’Università di Bari, decisamente contrario al progetto di regionalismo differenziato e, di conseguenza, all’impianto previsto nella bozza di decreto sull’università differenziata. Una bozza, per l’appunto, ma tanto circostanziata e con la firma in calce del ministro Marco Bussetti che pare difficile derubricare a una semplice idea da sviluppare.

Professore Viesti, quali sono le insidie contenute nella bozza di decreto sull’università differenziata?

«Come nel caso delle autonomie regionali, anche per le università il progetto è costruito su indicatori palesemente sperequati su base territoriale. A qualcuno viene concesso qualcosa che ad altri non è permesso, sulla base di criteri discutibili. È in discussione l’unitarietà del sistema universitario, non da oggi perché già nella distribuzione del Fondo di finanziamento ordinario ci sono differenze che non tengono conto del contesto in cui operano le università. Il tessuto produttivo del Nord è molto differente da quello del Sud, varia, quindi la possibilità occupazionale che non c’entra nulla con la qualità della formazione dello studente, ma questo è un parametro che viene considerato premiante per gli atenei che possono sperimentare nuovi modelli organizzativi. Fare università dove l’economia è più debole diventa una colpa».

Le differenze di trattamento tra atenei del Nord, rispetto a quelli del Sud, sono cosa già in atto. Qual è l’aggravante alla luce del decreto? 

«Parte da lontano, basta pensare al reclutamento del personale che si basa su criteri non strettamente legati al turnover. Il fatto nuovo è che con la Lega la prospettiva di autonomia ha acquisito maggiore forza, con il disegno di arricchire il Nord. Questo è l’obiettivo che oggi viene orchestrato in sordina per non perdere voti al Sud. La bozza di decreto dà ampi margini di manovra agli atenei considerati virtuosi che avranno possibilità di modificare gli assetti organizzativi rompendo quindi l’unitarietà del sistema universitario italiano».

La sperimentazione di nuovi modelli organizzativi è da censurare tout court o potrebbe essere un’occasione di sviluppo anche per gli atenei del Mezzogiorno? 

«Parliamone. Non dobbiamo avere paura delle novità, ma non è pensabile che si possa fare una cosa di questa portata con un decreto. Una misura così importante deve essere discussa e decisa in Parlamento. È troppo presto per schierarsi a favore o contro un progetto di cui si sa molto poco, ma quello che in ogni caso non va bene è che la possibilità non sia data a tutti, ma ad alcuni in base alla valutazione Anvur e ad alcuni indicatori».

Ci dice che allo stato attuale non ci sono elementi sufficienti per valutare se il progetto può essere indirizzato verso una giusta finalità, ma in linea di principio e se fosse data a tutti gli atenei la possibilità di sperimentazione di nuovi modelli organizzativi, potrebbe rappresentare un qualche vantaggio?

«Ripeto dobbiamo parlarne. Così come è stato concepito, no. Ci sarebbero atenei che potrebbero fare più assunzioni, per citare uno degli aspetti più discriminanti, anche con la chiamata diretta di docenti e ricercatori, che oltretutto in Italia può essere rischiosa».

Nel decreto si lascia intendere che la corsia preferenziale per alcuni atenei sia determinata dalla qualità della ricerca e dalla valutazione positiva di Anvur sull’accreditamento periodico. In un momento di scarsezza di risorse bisogna rassegnarsi e perdere pezzi puntando solo sugli atenei di eccellenza?

«Assolutamente no, bisogna creare le condizioni perché tutti gli atenei siano di qualità. La misurazione delle performances, va bene, ma i dati vanno letti con attenzione perché c’è sempre una discrezionalità politica nelle griglie dei criteri».