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Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Regionalismo, i turbamenti di Zaia e Stefani

Articolo pubblicato mercoledì 31 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Regionalismo i turbamenti di Zaia e Stefani

Intervenendo nel primo incontro dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato del Dipartimento di giurisprudenza dell’università di Napoli Federico II, Luigi Di Maio ha aperto alla possibilità di un ripensamento, nel metodo e nel merito. Ne sono turbati il governatore del Veneto Luca Zaia e il suo clone ministeriale Erika Stefani, che lamenta il silenzio di Di Maio sull’osservatorio «di cui io sento parlare oggi per la prima volta … Dopo un anno di discussioni mi auguro che nessuno voglia rimangiarsi slealmente la parola e l’impegno, di cui il presidente Conte è garante».
Stefani proprio non capisce di essere la causa del problema, e non la soluzione. La tempesta si alza per le cento riunioni che attesta di aver tenuto, ma nel più stretto segreto, e senza dar conto a chicchessia. Per di più giungendo a bozze d’intesa che non trovano preciso riscontro nel contratto di governo e nei pre-accordi Bressa-Gentiloni, rispetto ai quali segnano anzi un’abnorme espansione. In questo segna un punto l’ex ministro Claudio De Vincenti nell’intervista di ieri a Repubblica. Ma dovrebbe anche ammettere che fu comunque un errore, o meglio una precisa scelta, del suo governo firmare i pre-accordi. Che sul punto specifico delle risorse collegavano, in danno del Sud, i fabbisogni al gettito tributario riferibile al territorio.
In questa vicenda non ci sono innocenti.
Certo, è con le bozze Stefani che si vuole regionalizzare la scuola, le sovrintendenze, le autostrade, le strade, i porti, gli aeroporti, le ferrovie e persino la cassa integrazione. O si legalizza il furto trasferendo al demanio regionale infrastrutture strategiche costruite con i proventi delle tasse pagate da tutti gli italiani, e altro ancora. È nelle bozze Stefani che prende maggior forma e sostanza il separatismo del “grande Nord”. Per questo, una slealtà è imputabile proprio a Stefani. Poteva mai condurre in porto una riforma stravolgente per tutto il Paese occultando le carte e chiudendo la porta a qualsiasi interlocutore, o magari aprendola solo agli amici lombardo-veneti e/o leghisti? Se non fosse stata rinviata l’audizione prevista per il 30 luglio nella Commissione per le questioni regionali, sarebbe stato interessante sentire dal ministro Marco Bussetti con quale faccia e perché abbia concordato con Stefani la integrale regionalizzazione della scuola, dopo aver firmato un accordo con i maggiori sindacati che diceva il contrario.
Per Zaia, reca danno al Sud chi blocca l’autonomia. Da sempre, usa due soli argomenti: il referendum veneto, e il cd. “efficientamento”. Abbiamo ripetutamente dimostrato che non valgono un centesimo, e per favore cambi disco.
Nessuno, poi, si è mai impegnato a ridisegnare l’Italia secondo i desideri di Zaia, tanto meno Conte. Anzi, ci pare abbia detto il contrario, e l’incontro di Palazzo Chigi con i sindacati – che, con in testa Maurizio Landini, hanno confermato il loro no all’autonomia differenziata – ne dà conferma.
Tre suggerimenti dall’avvio dell’osservatorio. Il primo a Di Maio, che nell’incontro in Federico II ha profilato un remake del regionalismo differenziato. La nuova proposta sia pubblica, aperta al confronto con tutte le regioni, con studiosi, esperti, organi indipendenti. Si avvii finalmente nel Paese il dibattito che la ministra Stefani ha cercato di impedire. Di Maio non si chiuda in una sua trattativa privata con Salvini, che non sarebbe più commendevole di quella tra Stefani e Zaia. E perché intanto non si rendono pubbliche le carte come a oggi definite? Si sente dire che questo o quel punto già non c’è più. Bene, vediamo. Il secondo suggerimento al premier Conte: nessuno scambio tra fantasmagorici piani Marshall per il Sud e modifiche strutturali dell’assetto del Paese. I piani passano, le riforme restano. Il terzo ai governatori del Sud: dopo che Enrico Rossi per la Toscana ha espresso un fermo no, è urgente una loro posizione comune. Ne prenda la testa Vincenzo De Luca, e non insista nel dire che prima di lui nessuno aveva avvertito il pericolo. È troppo facile dimostrare il contrario.
Non ci faccia ricordare che la colpevole inerzia e la bassa cucina in passato della politica meridionale ha concorso a produrre i guasti di oggi.
Ormai, ci sono due Italie: quella degli egoismi territoriali, bene rappresentata da Stefani e Zaia; e quella degli eguali diritti, cui l’osservatorio della Federico II si candida a dare voce. Ma Stefani e Zaia stiano sereni. La Federico II non dismetterà l’indipendenza di giudizio e non prenderà parte a tifoserie. Nei suoi quasi 800 anni di storia ha conosciuto tempi tanto bui che persino Stefani e Zaia sarebbero sembrati fari di civiltà.

Al Sud è vietato il Politecnico

Articolo di Domenico Cacopardo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da ItaliaOggi.

Al Sud è vietato il Politecnico

Per legge, non si possono aprire succursali che sono ostacolate dalle pesanti baronie locali

Che la questione autonomia allargata non sia un capriccio politico o non soltanto un passo per la dissoluzione dello Stato unitario, me l’hanno mostrato le numerose e-mail ricevute dopo l’articolo di ieri, nel quale, tra l’altro, evocavo il disastro dell’istituzione delle regioni, l’invenzione dei tecnici democristiani e comunisti per assicurarsi nel 1947 una sorta d’insediamento permanente nella società e nell’architettura costituzionale del nostro Paese. C’è, quindi, un disagio diffuso al quale lo Stato nazionale deve dare qualche risposta, in coerenza con le norme della Costituzione modificate su input del centro-sinistra, con le mani di Franco Bassanini. Cercherò di percorrere una strada più esemplificatrice del passato, facendo parlare i fatti, non i pregiudizi o l’ideologia. Partiamo dagli esami di maturità che definiscono lo stato di preparazione degli studenti che hanno completato gli studi medi superiori (high school). Il ministero della pubblica istruzione comunica che il maggior numero dei 100 e dei 100 e lode si è verificato al Sud, a partire dalla Puglia, regione che detiene il record. Questo dato va confrontato con i punteggi conseguiti nelle prove Invalsi, l’unico metodo stabilizzato internazionale che definisce con una metodologia universalmente (o quasi) accettata, il livello della preparazione degli studenti (e indirettamente la capacità degli insegnanti, che, almeno nel bel Paese pour cause si sono sempre opposti all’applicazione del metodo). Ebbene, per l’Invalsi la situazione è opposta: proprio le regioni del 100 e del 100 e lode sono quelle nelle quali i coefficienti Invalsi sono i più bassi, denunciando soprattutto una grave insufficienza nelle prove di italiano. In Calabria e in Campania il 60% dei ragazzi non ha mostrato le conoscenze minime richieste dal test. Se avete dimestichezza con qualche professore universitario potrete avere diretta conferma del fatto che la preparazione degli studenti provenienti dal Sud è in genere più scarsa di quella di coloro che vengono dal Nord e che ciò si riflette sulla comprensione dei testi di studio e delle lezioni. Tra parentesi, se pensiamo all’atavico gap del Sud e delle isole, prima di decidere interventi finanziari ed economici, occorrerebbe immaginare un intervento organico sulla scuola e sulle università: una strada che comporterebbe qualche decina di anni di cure speciali, ma che è l’unica per far entrare in Europa un pezzo di Italia che, al di là della retorica, ne è rimasta fuori. Soprattutto nelle università: c’è solo una ragione corporativa e un’inaccettabile chiusura mentale e morale, per rifiutare, com’è stato rifiutato, che, per esempio, il Politecnico di Milano aprisse una scuola in Sicilia. Addirittura è la legge che proibisce al Politecnico meneghino, a quello torinese, alla Bocconi e via dicendo, di entrare nell’enclave clientelare e baronale costituita dal sistema universitario di Sud e isole. Se si vuol fare qualcosa, basterebbe un decretino (non uno dei decretoni cui ci ha abituato Conte) di un solo articolo: «È abrogato il divieto ecc. ecc.» Un altro tema caldo che non può essere dimenticato riguarda il livello e la qualità della spesa pubblica. Anni fa, regnante (con difficoltà e l’ostilità di Silvio Berlusconi) al Tesoro quel personaggio spesso sottovalutato, a torto, che si chiama Giulio Tremonti e al Lavoro Maurizio Sacconi, l’unico politico e ministro che avesse studiato la materia, si cercò di porre all’odg del Paese la questione dei costi standard. Detta in parole povere: qualcuno, alla Ragioneria dello Stato aveva scoperto (numeri solo dimostrativi) che l’ago da puntura fornita agli ospedali del Sud e delle isole costava alcuni multipli in più di quanto non costasse al Centro (così così) e al Nord. Insomma, come nella scuola, una sorta di inversione dei dati di base: dove i costi della sanità sono minori, l’efficienza è maggiore (e sappiamo tutti che c’è un biblico correre al Nord del malati del Sud, Napoli compresa); dove i costi sono maggiori, minori i risultati. L’extra-costo concentrato al Sud e isole è il prezzo di corruzione, criminalità e clientelismo. L’approccio, quindi, alle finanziarie, immaginato da Tremonti e Sacconi avrebbe comportato un avvicinamento dei conferimenti al Sud e isole ai costi standard definiti sulla media nazionale dei costi. Chiaro? Ovviamente l’ostilità all’iniziativa ha vinto confinandola ai margini delle manovre finanziarie dello Stato. Allora, dunque, che fare? Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pretendono un’autonomia allargata che non faccia pagare loro il prezzo delle dissipazioni, del clientelismo, della criminalità del Sud e delle isole. Fattori tutti che sono incistati nella politica regionale e comunale e che sono rimuovibili soltanto con tagli degli apporti finanziari. Il punto è che molti dissentono sulla strada intrapresa: un nuovo equilibrio economico e istituzionale a favore del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) può non essere un adeguato incentivo al miglioramento della qualità della spesa nelle altre regioni. Anzi, è possibile che aggravi gli squilibri e accentui le tendenze centrifughe. Tuttavia, la guerra mossa dai 5Stelle (con motivazioni light, niente di serio e approfondito che ci potrebbe e dovrebbe essere), all’ipotesi di autonomia allargata è sospetta: i grillini non sono espressione del Sud e delle isole che vogliono migliorare e accorciare le distanza dal Nord e dall’Europa, ma del Sud e delle isole parassitarie abituate ai sussidi e agli impieghi pubblici (non ai lavori). La partita in corso non vedrà, almeno per ora, una soluzione convincente. E, alla fine risulterà decisiva nella sopravvivenza della formula di governo. Ma solo per tifoserie, non per problemi reali, come quello di cogliere l’occasione per riqualificare la spesa al Sud e nelle isole. Una riqualificazione che provocherebbe una crisi del clientelismo e del mal governo che da quelle parti dominano da oltre un secolo.

Lauree e master: alt ai furbetti, adesso alla Luiss li smaschera la Blockchain

Articolo di Eugenio Occorso pubblicato lunedì 22 luglio 2019 dall’inserto Affari&Finanza di la Repubblica.

Lauree e master: alt ai furbetti adesso li smaschera la Blockchain

La Luiss Business School adotta per prima in Italia la tecnologia di ultima generazione: tutti i titoli e le competenze acquisite verranno riportati in un “registro” ipercontrollato e immodificabile accessibile sul web in tutto il mondo

Il caso più clamoroso è anche il più paradossale: Marilee Jones era la dean of admissions, ovvero la preside dello speciale istituto presso il Mit che vagliava le domande di ammissione. Bene: nel 2007 l’impietoso investigative team del Boston Globe svelò che aveva fabbricato il suo curriculum al momento dell’assunzione nel 1979 inserendovi ben tre lauree fasulle: dell’Union College, del Rensselaer Polytechnic Institute e dell’Albany Medical College. Ammise tutto e fu licenziata. Ma non è certo l’unica storia del genere: in ogni angolo del mondo il vizio di falsificare i titoli di studio è diffusissimo. La Germania è particolarmente severa: perfino Ursula von der Leyen nel 2015 fu accusata non di aver inventato la laurea ma di aver copiato la tesi senza citare le fonti. Fu creata una commissione di esperti indipendenti e in qualche modo se la cavò: non altrettanto bene era andata negli anni precedenti a due ministri del governo Merkel, Karl-Theodor zu Guttemberg e Annette Schavan (ministra dell’Istruzione), costretti alle dimissioni così come nel 2016 la deputata socialdemocratica Petra Hinz che non solo non era laureata come sosteneva ma non aveva neanche conseguito la licenza liceale.

I casi italiani

In Italia casi del genere ce ne sono ovviamente a bizzeffe, dal sottosegretario Guido Crosetto che ammise «l’innocente bugia» di essersi inventato una laurea in Economia a Renzo Bossi che si era laureato all’università privata Kristal di Tirana senza aver preso la maturità, da Oscar Giannino le cui ambizioni politiche si infransero su un fantomatico PhD a Chicago fino all’attuale premier Giuseppe Conte che non aveva mai conseguito un executive master alla Nyu ma si era limitato a seguire qualche lezione. Di fatto, l’85% dei curriculum in circolazione sono falsati in un modo o nell’altro: il calcolo viene dalla Luiss Business School, che non a caso avvierà in settembre, prima in Italia, una rivoluzionaria iniziativa: un registro garantito e immodificabile di titoli e competenze creato con la tecnologia Blockchain. In Italia la prima a investire in questo settore è la Luiss Business School: a partire dal prossimo settembre, istituirà su una piattaforma Blockchain una sorta di “registro” dei corsi conseguiti presso di essa, sia master tradizionali che “executive”, cioè quei corsi riservati a chi è già laureato, di solito ha anche già un lavoro, però vuole arricchire il curriculum puntando su nuove e più gratificanti offerte. «L’applicazione della Blockchain alla formazione executive è un punto di svolta per noi e per il settore», commenta Paolo Boccardelli, che della Luiss Business School è il direttore. «Attraverso il digitale cambiamo il modo di lavorare e saremo in grado di determinare profondi cambiamenti nel mercato del lavoro e dell’educazione, introducendo un livello di trasparenza fino a ieri inimmaginabile». Il registro istituirà per ogni “allievo” una vera e propria scheda personale, completandola con tutte le informazioni anagrafiche e professionali. Così le aziende e le istituzioni saranno in grado di conoscere nel dettaglio il percorso, la formazione e soprattutto le competenze delle persone – i punti in cui l’allievo si è particolarmente distinto nei suoi studi e le varie specializzazioni conseguite – e questo sarà valido dall’impiegato al top executive. «Gli sviluppi della Blockchain sono ancora per molti versi inesplorati», aggiunge Boccardelli. Non a caso uno dei corsi abilitanti della Luiss Business School, i cui risultati saranno ovviamente riportati nel “registro” hi-tech, sarà dedicato proprio alle tecnologie Blockchain, a fianco di tante altre specializzazioni, dalle filiere agroalimentari al Fintech.

La società di hi-tech

Il partner tecnologico è EY, che a sua volta punta fortemente su questa tecnologia al punto di avervi dedicato venti centri d’eccellenza in tutto il mondo. Giuseppe Perrone, responsabile dell'”hub” dedicato alla Blockchain di Roma, l’unico in Italia, che serve l’intera area del Mediterraneo, spiega: «Abbiamo scelto fra le poche piattaforme d’appoggio esistenti nel mondo la Ethereum, sicuramente ai vertici fra le reti di Blockchain pubbliche, cioè consultabili da chiunque via Internet. Ad essa come EY facciamo spesso riferimento per le aziende nostre partner». Il “pacchetto” predisposto per la Luiss prevede che non venga certificata solo l’attività svolta presso l’università. «Ricostruiamo l’intera vita professionale dell’interessato, inserendo nel registro non solo i titoli ma tutte le competenze acquisite, ovviamente con il suo consenso, e inseriamo il tutto nel curriculum che acquisisce così una ben superiore affidabilità», spiega Enzo Peruffo, responsabile della Executive education alla Luiss Business School. Ma chi certifica i certificatori della Blockchain? «La procedura di Ethereum – riprende Perrone – è la seguente. Essendo un network, i vari “nodi” che la compongono sono fra di loro indipendenti. A ogni “nodo” corrisponde un server, abbastanza potente da essersi guadagnato il titolo di “miner”. Al momento di comporre il “token”, cioè l’identità a cui poi corrisponderà un codice, di uno studente Luiss, uno di questi “nodi” acquisisce una sorta di leadership. Ad esso però, con una serie di passaggi che avvengono in pochissimi secondi, se ne aggiungono altri sei, ognuno dei quali fa le sue verifiche e poi concorre alla “bollinatura” del candidato. Un sistema di controlli e validazione ampiamente sperimentato che secondo noi garantisce la totale affidabilità e trasparenza di questa certificazione».

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Gianfranco Viesti (Università di Bari) – Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Articolo pubblicato dalla rivista Il Mulino (n. 3 del 2019).

Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Il nostro è un Paese giovane, ma con un futuro denso di incertezze. Un Paese segnato sin dalla sua nascita da una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra le sue regioni; e che nel suo processo di sviluppo ha visto consolidarsi forti disuguaglianze economiche territoriali. Un Paese con una significativa debolezza dei suoi apparati centrali di governo – nella loro efficienza, nella capacità di garantire ai cittadini servizi pubblici e diritti di cittadinanza comparabili –, dove c’è voluto un secolo per raggiungere nel Mezzogiorno livelli di istruzione elementare simili a quelli del resto d’Italia. Anche per tutto questo, un Paese con lunghe e alterne vicende di contrapposizioni di interessi territoriali.

Nel secondo dopoguerra l’Italia ha provato a unificarsi davvero. Ha puntato a rafforzare l’economia delle sue regioni più deboli, a vantaggio della crescita dell’intero Paese, e a garantire maggiore uniformità fra i suoi cittadini nella fruizione dei grandi servizi, a partire da istruzione e salute. È stato, pur con tutte le sue contraddizioni, il periodo migliore della nostra storia economica: la maggiore coesione sociale e territoriale è andata di pari passo con tassi di crescita mai raggiunti, e che non saranno mai più raggiunti. Certo, quella crescita è stata collegata a condizioni abilitanti storicamente determinate e irripetibili. Tuttavia, non si sfugge: quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva. La stessa identica logica dell’integrazione europea.

Con gli anni Settanta, il «miracolo» è scomparso. E questo ha portato con sé il rinascere di conflitti distributivi: la spinta e i danari per lo sviluppo si sono spostati dall’industrializzazione del Sud alla riconversione del Nord; ma al Mezzogiorno sono stati garantiti trasferimenti compensativi: spesso distorsivi, in un intreccio sempre più negativo fra classi dirigenti politiche nazionali e locali. Con gli anni Novanta, la grande crisi fiscale e la stretta sulla tassazione hanno provocato per la prima volta la nascita di un movimento politico a esplicita base territoriale, fortemente antimeridionale. La Lega ha condizionato le scelte politiche a cavallo del secolo: la sua minaccia politica è stata ad esempio importante per spingere nel 2001 i governi di centrosinistra a una riforma del Titolo V della Costituzione certamente affrettata, e con diversi elementi problematici. E ha contribuito al diffondersi di un pericoloso veleno, una sottocultura in base alla quale l’impiego delle risorse pubbliche è sempre, per definizione, a somma zero: più a te significa sempre meno a me. In questo anche favorita dal progressivo venir meno dei partiti politici nazionali, sedi per propria natura deputate alla composizione di differenti interessi territoriali, e alla loro mediazione in scelte di interesse collettivo. Ancora fino alla fine del primo decennio di questo secolo gli effetti concreti di questo veleno sono stati parziali: certo, con l’esplodere della «questione settentrionale» lo sviluppo del Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica. Ma le stesse richieste di «autonomia regionale differenziata» di Lombardia e Veneto sono state bellamente ignorate dai governi Berlusconi 2008-11. Ma con la grande crisi, la situazione è cambiata: le derive già presenti si sono accelerate. Sono mutati gli scenari europei. Si è affievolita la condivisione del grande progetto di integrazione. Si sono rafforzati sovranismi di varia natura e intensità: egoismi e isolazionismi nazionali, come quelli di alcune giovani e incomplete democrazie dell’Est; egoismi regionali, come quelli che hanno segnato lo scenario spagnolo degli ultimi anni. Il voto sulla Brexit sembra uno spartiacque: l’offerta politica di un presunto ritorno alla sovranità, della ricostruzione di confini e barriere, si è rivelata vincente.

Ed è profondamente mutato il quadro nazionale. La crisi è stata cattiva, profonda, persistente, assai più di quanto si riuscisse a vedere nel corso del suo dipanarsi; e ha prodotto un terremoto elettorale che è sotto gli occhi di tutti. Le scelte di politica economica, in parte necessarie per la pessima condizione dei conti pubblici, in parte obbligate in tempistica e dimensione da nuove regole europee assai discutibili, hanno compresso i redditi, ridotto il benessere, accresciuto la pressione fiscale e tagliato i servizi, ricentralizzando le grandi scelte di bilancio e spostando a livello regionale e locale molti sacrifici. L’Italia è entrata in un’era di aspettative fortemente decrescenti; ha visto aumentare disillusioni e timori, egoismi e rancori. La ricerca di capri espiatori, ovviamente diversi da sé. Fossero essi le regole e le istituzioni europee (pur non esenti da evidenti criticità), i flussi migratori (pur assai problematici nella loro dimensione e dinamica), le élite, la «casta» dei privilegiati (pur sovente sorde all’ascolto delle difficoltà diffuse). E, naturalmente, i meridionali; in realtà sempre più spesso i centro-meridionali, con uno spostamento d’ufficio di Roma («ladrona») nel Mezzogiorno. La parte parassita del Paese, che gode di elevati servizi e prestazioni senza meritarli grazie a lavoro, reddito e sforzo fiscale; che vive alle spalle dell’Italia che produce.

L’Italia di oggi sembra segnata da una crescente sfiducia nel futuro e dal conseguente prevalere, in molti cittadini, dell’interesse per le proprie sorti, individuali o di piccolo gruppo. E quindi da una scarsa attenzione per i grandi servizi collettivi: gli italiani sembrano assistere piuttosto passivamente alla progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale, alla compressione selettiva e cumulativa dell’università, al declino della scuola. Infine, da una domanda di politiche di breve termine; non a caso la maggioranza dei cittadini pare approvare le scelte della coalizione di governo, orientate verso il soddisfacimento di interessi individuali o di piccoli gruppi. Molti italiani non hanno più fiducia nella capacità delle politiche pubbliche di cambiare in meglio il Paese, di migliorare il loro futuro.

Ad esito di tutto questo, l’Italia di oggi è teatro di una lotta sorda e sotterranea per spartirsi i residui delle risorse pubbliche. In questo pienamente leghistizzata. Convinta cioè che «più a te» significhi automaticamente «meno a me», senza fiducia nelle logiche dell’integrazione, nell’investimento nel futuro, negli effetti positivi del recupero di disuguaglianze e disparità.

È in questo clima che matura, a partire dal 2017, il progetto della «secessione dei ricchi». Non giunge inatteso. È preannunciato dalle vicende del federalismo comunale: nel 2009, con la legge 42, si è provato a modificare il finanziamento degli enti locali, ancorandolo a criteri oggettivi; ma poi in sede di attuazione, in presenza di risorse decrescenti, la loro definizione è diventata teatro della guerra, largamente vittoriosa, dei comuni più ricchi a quelli più poveri. Dalle vicende del finanziamento delle università, in cui una girandola di norme e di indicatori quasi sempre costruiti ad hoc ha ripartito risorse totali fortemente decrescenti in modo assai asimmetrico, a danno del sistema degli atenei del Centro Sud e del Nord periferico. Da modifiche dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, che stanno contribuendo ad accelerare – invece di contrastare – le migrazioni sanitarie di pazienti da una regione all’altra. Tutte vicende segnate dal ruolo cruciale ma nascosto di agenzie tecniche pseudo-neutrali, incaricate di produrre numeri tali da far sembrare precise scelte politiche nulla più che esiti di algoritmi; e, soprattutto, dalla totale mancanza di discussione pubblica e dal disinteresse del sistema dell’informazione. Dalla fuga della politica.

Ma che cosa è la secessione dei ricchi? Rimandando il lettore interessato a maggiori dettagli a un volumetto scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore Laterza, si può ricordare sinteticamente che si tratta della richiesta di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ai sensi del III comma dell’articolo 116 della Costituzione (come riformata nel 2001), di ulteriori e particolari forme di autonomia. Alle tre regioni capofila poi sono pronte ad accodarsene altre. In questa richiesta vi sono almeno tre elementi di evidente criticità, tali da giustificare una definizione così forte.

Innanzitutto, non si tratta di specifiche materie, collegate a specifiche condizioni della specifica regione, tali da rendere ragionevoli poteri e competenze non riconosciute alle altre, in un regionalismo «differenziato». Ma della richiesta politica di poter disporre praticamente di tutte le competenze che teoricamente possono essere trasferite in base alla lettera di quel comma. La Lombardia chiede ben 131 nuove funzioni legislative e amministrative. Nessuna evidenza è presentata sulla circostanza che in queste materie la gestione regionale sarebbe più efficace e/o più efficiente di quella nazionale: è un dogma che non occorre dimostrare. È in gioco così gran parte dell’intervento pubblico che si realizza in Italia: dalla regionalizzazione della scuola alla sostanziale cancellazione del Servizio sanitario nazionale, dai beni culturali all’assetto del territorio, dalle infrastrutture all’energia, dal lavoro alla previdenza complementare. Vi sono differenze fra Emilia-Romagna da un lato e Lombardia e Veneto dall’altro su alcuni aspetti cruciali, a partire dalle richieste delle ultime due di regionalizzare il personale della scuola e di acquisire al demanio regionale parti del patrimonio infrastrutturale esistente (dalle autostrade alle ferrovie agli aeroporti) per poterlo mettere a valore; incuranti del fatto che esso è stato realizzato con le risorse della collettività nazionale. Nell’ultimo anno il ministro incaricato del dossier (una leghista veneta) ha cercato di soddisfare in ogni modo queste richieste, ma quanto il governo Conte sia disposto alla fine a concedere è avvolto nelle nebbie: i testi delle parziali intese di merito già raggiunte sono, al maggio 2019, segreti.

In ogni caso, una radicale revisione di come funziona l’Italia. Per i promotori, si tratta di modifiche opportune, che possono migliorare le politiche pubbliche e avvicinarle ai cittadini. Ma, a parte gli evidenti dubbi che questo sia vero su una tale sterminata congerie ed estensione di materie, la questione centrale è che essi la chiedono solo per se stessi. Non propongono, cioè, una modifica dell’articolo 117 della Costituzione, volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese; propongono l’attuazione del 116: cioè un trasferimento solo per se stessi.

Che gli altri si arrangino, in una situazione in cui l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco; un vero e proprio unicum al mondo: con 4 regioni a statuto speciale, due provincie autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna con ambiti un po’ diversi) e poteri centrali con la responsabilità delle politiche e dei servizi nei ritagli di Paese residui.

In secondo luogo, questa richiesta sterminata fa il paio con la volontà di poter acquisire risorse finanziarie assai più ampie di quelle oggi erogate dallo Stato centrale in quei territori per quelle funzioni. Più ampie le competenze, più ampia la differenza nelle disponibilità economiche. Date le condizioni della finanza pubblica, questo non può che avvenire senza incrementare la spesa complessiva: e quindi utilizzando risorse oggi spese in altre regioni. Questo è da sempre stato esplicito nelle richieste venete; il grande obiettivo sbandierato ai cittadini di riprendersi i «propri soldi» (in realtà, della collettività nazionale). Chiaro, anche se pudicamente meno reiterato, in quelle lombarde. Escluso invece in quelle emiliane, anche se senza alcuna obiezione alle posizioni delle prime due.

Richieste santificate dalla pre-intesa raggiunta con le regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più. Di fronte all’enormità di questo patto, persino l’attuale governo sembra pensare ad altre disposizioni finanziarie. Ma nelle ipotesi di intesa (sulla sola parte finanziaria) disponibili sul sito del Dipartimento degli Affari regionali si prova comunque a far rientrare dalla finestra ciò che non entra più dalla porta: si stabiliscono criteri per cui – specie nella scuola – le regioni potrebbero disporre di risorse ben maggiori, sottraendole alle altre; così come un canale privilegiato per la spesa per investimenti pubblici.

Infine, l’idea delle tre regioni è sempre stata ed è quella di concludere l’intesa con il governo (ci si è arrivati ad un passo il 15 febbraio 2019) e di puntare poi ad un rapido ed indolore passaggio parlamentare di mera ratifica. A quel punto il gioco sarebbe fatto. Ciascuna intesa potrebbe essere modificata solo con l’assenso della regione interessata, e non potrebbe essere sottoposta a referendum abrogativo. L’enorme potere attuativo e di definizione di tutti gli aspetti di dettaglio, normativi e finanziari, passerebbe nelle mani di Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte al controllo parlamentare e – se il colpo riuscisse perfettamente – anche a quello della Corte Costituzionale. Il percorso non è ancora definito. L’idea che il Parlamento non debba discutere e poter emendare nulla pare davvero estrema. Ma in queste vicende le ipotesi estreme, neanche immaginabili nell’Italia di qualche anno fa, sono molte.

Una parte delle classi dirigenti di Lombardia, Veneto ed Emilia sta dunque provando a ristrutturare profondamente l’Italia. A farsi quasi Stato nello Stato. La prospettiva dell’indipendentismo veneto (arrivata fino all’indizione di un referendum nel 2014 su «volete voi il Veneto indipendente», poi vietato dalla Corte costituzionale) è al momento abbandonata. Molto più comodamente, si resta parte di un Paese membro dell’Unione europea: con tutti i vantaggi in termini di libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone che ne derivano; con sicurezza, difesa, politica estera comune; con l’enorme debito pubblico che rimane nella responsabilità solidale di tutti gli italiani. Ma con poteri legislativi e amministrativi straordinariamente vasti; e con le relative risorse che «rimangono» nella regione senza essere trasferite alla fiscalità generale, poste così al di fuori da manovre nazionali di austerità o di revisione della spesa in quegli ambiti.

Ci si mette il più possibile al riparo da eventuali crisi di sistema del Paese, purtroppo non impossibili. Lasciando il governo dei conti pubblici a un Tesoro con lo stesso debito ma con un minor gettito fiscale disponibile (una volta detratte le risorse che rimangono nelle regioni) per farvi fronte. Si pongono le basi per una diversa organizzazione della sanità o della scuola; con il potere di operare scelte politiche anche profonde: di rompere i principi di universalismo della sanità pubblica, o di riconoscere e finanziare a piacere le istituzioni private nell’istruzione, di organizzare una previdenza complementare solo per i propri cittadini. Si accrescono enormemente i poteri di gestione e di intermediazione di risorse pubbliche delle classi dirigenti regionali.

Il processo nasce e trova alimento dalla pluridecennale predicazione leghista. Ma il favore intorno ad esso è ben più esteso, profondo. Con interessanti differenze fra le regioni. In Veneto il consenso per «l’autonomia» è assai vasto (testimoniato anche dalla sensibile partecipazione al referendum consultivo del novembre 2017): coinvolge gran parte delle forze economico-sociali e quasi tutte le rappresentanze politiche. Certo, il consenso è, genericamente, «per l’autonomia»: non è chiaro quanto vi sia conoscenza del fatto che i dirigenti e i programmi scolastici verrebbero a dipendere dalla politica regionale, o che quelle della Laguna non sarebbero più acque territoriali italiane. Il Veneto soffre molto della vicinanza alle privilegiate aree a statuto speciale di Friuli-Venezia Giulia e, soprattutto, Trento e Bolzano: si pensi che per ogni studente trentino si spende il 70% in più che per gli altri studenti italiani. Ma invece di intestarsi una proposta volta a ridare razionalità ed equità al sistema delle autonomie, mira esso stesso a divenire «speciale»: e che gli altri, in particolare i meridionali spreconi, si arrangino. Più articolata pare la situazione lombarda: regione assai più legata da interessi e consuetudini alla comunità nazionale; con una Milano freddissima su questo tema, così come evidente dalla assai scarsa partecipazione elettorale al referendum del 2017. La grande sorpresa è però l’Emilia guidata dal Partito democratico. Che chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre: per sé, e non per tutti. Con il 116 e non con il 117: rinunciando quindi a porsi alla testa di qualsiasi progetto di riforma nazionale. Che rivendica i principi dell’unità del Paese e si fa vanto di non richiedere risorse aggiuntive: ma che si allinea in toto alle altre due nel percorso e nella pressione politica; e che sottoscrive senza problemi testi che le darebbero non pochi vantaggi economici. Il tutto nell’assordante silenzio delle comunità culturali e politiche di Lombardia ed Emilia, che non trovano evidentemente necessario o elegante discutere del futuro proprio e degli altri italiani; derubricando forse questa grande prospettiva a questione amministrativa. Silenzio pur rotto dalle forti prese di posizioni contrarie dei due sindaci di Bologna e Milano, dell’ex presidente della Regione Emilia-Romagna, di alcuni intellettuali: ma senza che ne sia scaturita discussione diffusa.

Balbettano, su questo come su altri temi, le altre regioni; con le principali del Sud a zig-zag fra il desiderio di acquisire maggiori poteri di gestione e intermediazione per sé e le preoccupazioni per l’essere i loro cittadini le principali potenziali vittime. Protesta la Toscana, in difesa di una ben diversa concezione di autonomia, ma con un filo di voce. Si accoda nelle richieste la Liguria, che punta, come prospettiva strategica, alla gestione del sistema autostradale e ferroviario e del demanio portuale e aeroportuale e ai relativi incassi da concessioni e traffico; un luminoso futuro, sia detto con un filo di ironia ma anche con preoccupazione, da esattore di transito.

Nella politica nazionale c’è solo la Lega: vociante al Nord, silenziosa e reticente nel resto del Paese dove cerca consenso; ma pronta in qualsiasi momento all’offensiva finale per i propri «veri» territori ed elettori. I 5 Stelle paiono aver preso coscienza solo negli ultimi tempi di quel che essi stessi hanno convenuto nel contratto di governo, e frenano. Silenti gli altri, tranne l’estrema sinistra, contraria. Silenti, nonostante il nome, i fratelli d’Italia e i forza-italiani. Silente il Partito democratico, spaccato fra alcuni dei suoi esponenti che avanzano perplessità e le componenti lombardo-venete, e soprattutto quella – assai più potente – emiliana, che chiedono condivisione e assoluto silenzio in pubblico. Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte, e si prova a non perderle inseguendo anche un po’ la Lega. Partiti incapaci di una discussione aperta e basata sui fatti e di una mediazione politica fra le diverse posizioni; di formulare proposte basate sui propri valori di riferimento e sul complessivo interesse nazionale.

Al momento in cui scrivo, non è affatto chiaro come terminerà questa vicenda. Ma le convinzioni e gli interessi politico-economici da cui nasce e le questioni che essa solleva sono destinati a restare, a incidere ancora a lungo, nell’Italia di oggi e di domani. Forse aggravate da contrapposizioni sempre più sorde fra i cittadini di diverse regioni, di cui purtroppo si vedono le avvisaglie. Con esse, e con il permanere di una politica incapace di proporre e progettare una profezia positiva di un futuro condiviso, il rischio che il nostro giovane Paese progressivamente, passo dopo passo, di fatto si dissolva.

Massimo Villone (Università Federico II di Napoli) – Due milioni di veneti non decidono per l’Italia

Articolo pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Due milioni di veneti non decidono per l’Italia

Sull’autonomia il premier Conte notifica ai governatori che non possono avere tutto quello che chiedono. Sulla scuola, il sottosegretario Giuliano (M5S) informa che «tutto il personale e quindi anche il curricolo, quello che si farà a scuola, rimane di competenza nazionale». Zaia, “basito”, afferma: «Noi veneti ne abbiamo le tasche piene di tutta questa storia … è una autentica presa in giro (copyright Bonaccini, NdA) … a nome dei 2 milioni 328 mila veneti che hanno votato per il sì all’autonomia dico che siamo stanchi, stanchissimi. La misura è colma». Fontana segue a ruota con gli insulti sui “cialtroni” al governo.
Dopo il ceffone, Conte scrive (Corriere della sera, 21 luglio) un – troppo – accorato appello ai cittadini lombardo-veneti. L’aggressività degli aspiranti secessionisti testimonia la loro voglia di farsi Stato. Zaia e Fontana schiumano di rabbia perché con la regionalizzazione integrale del personale della scuola, ora cancellata, già pregustavano una succulenta polpetta di governo di decine di migliaia di docenti e 8 o 10 miliardi in più. Ma non è finita. Sopravvive la disposizione che smantella la potestà legislativa statale in materia di “norme generali sull’istruzione”? Se così fosse, l’intesa rimarrebbe inaccettabile.
Oggi segniamo un piccolo punto per l’unità della Repubblica, ma i rischi per il Sud e il paese sono ancora molti e gravi, dalle risorse all’ambiente, alle infrastrutture, al lavoro, alla sanità e altro ancora. Come sempre, le carte sono nascoste da una fitta nebbia e al popolo sovrano non è dato sapere.
Preoccupa, poi, la bellicosa Stefani: «Chi riesce a garantire servizi efficienti riuscendo a risparmiare dovrà gestire come meglio crede queste risorse. … Premiare e stimolare l’efficienza e punire gli incapaci, sono questi gli obiettivi della Lega per far crescere il Paese» (Libero, 20 luglio). Il mondo della Stefani si divide in incapaci al Sud e virtuosi al Nord, secondo i luoghi comuni – ormai smentiti ampiamente – che hanno inquinato il dibattito. Si vuole o no giungere preliminarmente alla definizione di lep e fabbisogni standard, superando la spesa storica che è in danno del Sud? O si punta al privilegio sulle risorse per le tre regioni, certificato da fonti non sospette come pericoloso per la finanza pubblica e la coesione nazionale? Prepari le armi De Luca, senza illudersi di essere un giorno trattato alla pari.
La Stefani dovrebbe vergognarsi. Se gli stracci volano, è colpa sua e della sua segreta e privatissima trattativa con le regioni. Come ministro della Repubblica avrebbe potuto e dovuto aprire la fase preparatoria alle altre regioni, a esperti, studiosi, organi indipendenti, forze sociali, associando per tempo e non a cose fatte i ministri competenti per materia, informando periodicamente le Camere sugli stati di avanzamento, verificando in corso d’opera gli equilibri realizzabili e i limiti costituzionali e finanziari. Invece, ha consentito, o favorito, che in segreto le bozze di intesa gonfiassero a dismisura i pre-accordi Bressa-Gentiloni, andando ben oltre il richiamo nel “contratto” di governo.
L’errore della Stefani va corretto, riconducendo la discussione sull’autonomia su binari di serietà scientifica, di dati affidabili, di rispetto della Costituzione. Per questo, il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Federico II terrà lunedì 29 luglio la prima riunione dell’osservatorio permanente sul regionalismo differenziato, il cui obiettivo è seguire con continuità e con analisi ragionate i lavori nelle sedi istituzionali. Introdurrà il direttore Staiano, parteciperanno Giannola, Viesti, Esposito, Cerniglia e io stesso. Interverrà Di Maio, con il quale si cercherà una interlocuzione lontana da qualsiasi tifoseria.
Presidente Zaia, la smetta di marciare su Roma con il mantra che 2.328.000 veneti hanno votato sì all’autonomia. Ci rammenta che circa 45 milioni di altri italiani aventi diritto al voto non hanno mai avuto occasione di parlare. Nessuno ha chiesto a loro – invero, nemmeno ai lombardo-veneti – se si dovesse o potesse regionalizzare la scuola, quel che resta del servizio sanitario nazionale, l’ambiente, le sovrintendenze, beni culturali vanto dell’Italia nel mondo, o ancora infrastrutture – pagate con i soldi di tutti gli italiani e poste a garanzia del debito sovrano – che lei vorrebbe ora trasferite al demanio regionale. Anche quei 45 milioni di italiani sono stanchi, stanchissimi. Anche noi ne abbiamo le tasche piene. Anzi, a esser sinceri, lei, con la sua allieva ed emula Stefani, ce le ha proprio sfondate.

Lorenzo Fioramonti: «Tassa sulle bibite. All’università serve un miliardo»

Articolo di Luca Telese pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da La Verità.

«Tassa sulle bibite. All’università serve un miliardo»

Il viceministro all’Istruzione: «L’università ha bisogno di un miliardo che possiamo ricavare con imposte su bevande e merendine zuccherate. Meno obesi, più risorse. Se non arrivano i soldi, a dicembre mi dimetto

«Lei sta parlando con un viceministro condizionato…».

In che senso?

«Ho preso questa decisione: resterò al governo solo se nella prossima manovra ci sarà un miliardo in più per l’università e per la ricerca».

È serio?

«Più che serio. Determinato».

Però lei stesso ricorda che questo governo è il primo ad avere aumentato gli stanziamenti per l’università.

«Vero, ma non basta. Negli ultimi vent’anni, chi ci ha preceduto ha tagliato in ogni forma e ogni modo. Solo la Grecia ha fatto peggio».

E voi?

«Abbiamo scelto di investire 110 milioni in più. Poi abbiamo rischiato che questi fondi venissero congelati».

Quando?

«A dicembre, dopo l’accordo con l’Europa, Tria aveva bloccato 100 milioni, fino a luglio, per una sorta di autosalvaguardia. Poi, dopo una trattativa serrata ne abbiamo sbloccati 70».

E da 100 milioni vuole passare a un miliardo?

«Sì. Ma senza toglierlo a nessuno».

Come si fa?

«Ho sviluppato un modello di nuove entrate ottenute con disincentivi economici a cose che fanno male alla salute e all’ambiente».

Nuove tasse?

«Soltanto su alcuni prodotti: bevande, snack e merendine ad alto contenuto zuccherino. E poi voli aerei, industrie fossili, gratta e vinci».

Il prelievo migliora i consumi?

«L’ordine di grandezza lo stiamo valutando. Potrebbe essere 10 centesimi su una bibita da 1 litro o su una merendina da 100 grammi. Meno bambini obesi e più fondi: risultato straordinario».

Vuole punire?

«No. Mandare un messaggio».

Lorenzo Fioramonti: cresciuto in periferia a Roma. Professore universitario, si è formato tra Africa, Sudamerica e Nord Europa. Viceministro dell’Istruzione con delega per l’università. Era il volto più noto del famoso «governo ombra» del M5S. Serio, quadrato, ma anche molto critico: «Dobbiamo finire di fare ridicole guerre tra gialli e verdi: pensare non all’immagine di un partito, o di un governo, ma di tutto il Paese».

Si è laureato in storia economica a Tor Vergata. Poi?

(Allarga le braccia). «Inizio a girare».

Dove?

«In Belgio, a Gand, servizio volontario europeo. Vinsi una borsa di studio per lavorare in un’associazione ambientalista».

Per fare che cosa?

(Risata). «Prima le pulizie. Poi cucinare in un ristorante dell’associazione…».

Grandioso.

«Molto utile per perfezionare francese e inglese. Quindi in Inghilterra, una summer school di macroeconomia e statistica a Essex».

E poi?

«Prendo un dottorato tra Siena e l’istituto europeo di Fiesole. Il terzo anno vado a fare una ricerca sul campo, sul tema che studiavo: come cambiano i Paesi post autoritari quando tornano alla democrazia».

E dove va?

«A Pretoria, in Sudafrica. Dopo un po’ di tempo inizio a lavorare per la cooperazione allo sviluppo».

Mette su famiglia.

«Conosco e mi innamoro di Janine. Che è tedesca, ma nata e cresciuta in Venezuela. Per cinque anni abbiamo vissuto tra il Sudafrica, il Venezuela e l’Europa».

Mi dica una cosa sul Sudafrica.

«È un paradiso ricco di contraddizioni. L’unico posto dove i vantaggi tecnologici del “primo mondo” convivono con quelli ecologici e ambientali del “terzo mondo”».

Esempio?

«In una delle foto a cui siamo più affezionati Janine allatta il nostro secondo figlio in un parco, e al fianco ha una zebra che fa altrettanto con il suo cucciolo».

Fantastico. E com’è stata la vita a Caracas?

«In Venezuela sono stati usati presupposti giusti per fare cose sbagliate».

Lo dice mai ai tifosi chavisti del M5s?

«Sempre, ma non sono sicuro di averli convinti. Anch’io ero appassionato di Chavez all’inizio».

Poi ha cambiato idea.

«Era diventata una dittatura. Sostenuta dal 20% della popolazione. Non producono nulla, importano tutto, dipendono totalmente dal petrolio».

Quindi, fuga.

«Nel 2008 provo a tornare in Italia con un assegno di ricerca all’università di Bologna. Io e mia moglie vogliamo aprire un centro di ricerca, investiamo tutti i nostri risparmi, 120.000 euro in un terreno, dove edificarlo».

E come va a finire?

«Un doppio disastro. All’università quando c’è il concorso mi dicono: “Non ti presentare”».

Perché?

«Mi fanno capire che “non è leale” presentarsi con un curriculum come il mio: “Metti in difficoltà un’altra persona che lavora da tanti anni”».

E come pensano che lei accetti?

«Dicono: “Verrà anche il tuo momento”».

Per il centro avevate comprato il terreno a Ripoli.

«Ma durante gli scavi per il tunnel della variante di valico si produce una frana che colpisce il nostro Comune. Perdiamo tutto. Siamo in causa con Autostrade da 10 anni».

Vuole ritirare le concessioni?

«Mi basterebbe che pagassero i danni che producono».

Dopo le batoste, altra fuga.

«Stava per nascere il mio primo figlio e mi propongono un contratto da junior professor di economia politica a Heidelberg, in Germania. Avevo 32 anni. Passo da 1.200 euro al mese (di cui 800 per l’affitto) a 2.500 netti più casa e asilo pagati e 5.000 euro annui per i viaggi».

Quanto resiste?

«Tre anni. Poi arriva una offerta da Pretoria e torniamo in Sudafrica».

È il 2012, e lei diventa professore associato.

«Ottengo anche un secondo stipendio per restare in ateneo. Apro il mio centro di ricerca con oltre 30 ricercatori ed elaboro il progetto di un campus universitario completamente ecosostenibile».

E lo accettano?

(Sorriso). «Mi affidano 50 milioni di dollari per realizzarlo. Viene costruito in tre anni. A oggi ci lavorano 300 persone».

A questo punto scrive il libro che la porterà in Parlamento: Gross domestic problem, tradotto in italiano con Presi per il Pil.

«Il Pil è un indice molto imperfetto e obsoleto. Misura solo i consumi di mercato».

Indicatore non attendibile?

«Gli Stati Uniti che spendono quasi la metà del Pil in spese militari e mediche appaiono più virtuosi del Costarica, dove l’esercito è abolito per legge, le scuole sono gratis, i tassi di istruzione molto più alti di quelli dello Zio Sam, l’aspettativa di vita è altissima grazie alla sanità pubblica che costa una frazione di quella americana. Ma per il Pil, gli Usa sono sviluppati e il Costarica no».

Come arriva al M5s?

«Un giorno mi chiama Giorgio Sorial, ex parlamentare 5 stelle e oggi nello staff del ministero dello Sviluppo».

Perché?

«Aveva letto il mio libro quando faceva l’ingegnere in Irlanda e mi propone di presentarlo alla Camera nel 2017».

E lì conosce Di Maio.

«A dicembre, mentre ero a Roma per le feste di Natale, Luigi mi invita a pranzo a Milano. Accetto. E lui mi dice: “Vuoi stare nella squadra di governo e aiutarmi a costruirla?”».

Lei arruola Pasquale Tridico, futuro presidente dell’Inps, e Filomena Maggino, che doveva essere ministro della Qualità della vita.

«Ministero purtroppo mai nato. Ora lei lavora con Conte, nella cabina di regia di Benessere Italia».

Quando ha saputo del contratto di governo con la Lega?

«Guardando il telegiornale».

E di essere viceministro?

(Sorride). «Mezz’ora prima del comunicato stampa, la sera prima del giuramento. Via Whatsapp».

II ricercatore cui si diceva di non presentarsi è diventato il responsabile dell’università italiana.

«Mi impegno molto per questo settore, però non ho mai avuto la delega alla ricerca, nonostante fosse nei patti».

Come si trova?

«Un ministro ha decine di uffici e centinaia di collaboratori. Io ho 7 persone. Facciamo i salti mortali».

Il rapporto con Bussetti?

«Cordiale con lui e il suo gabinetto. Tuttavia, molto spesso, lavoro dalla mattina alla sera solo per capire che cosa fanno, e come, sui miei temi».

Sembra folle.

«Talvolta apprendo di decisioni che riguardano le mie deleghe solo dal passaparola».

Che cosa pensa del governo?

«Siamo diversi dalla Lega, per questo bene il contratto. Avrei preferito meno sbaciucchiate all’inizio, in cui si voleva far credere di andare d’amore e d’accordo. E meno litigate nei sei mesi successivi: più compostezza avrebbe giovato al Paese».

Sembra folle.

«Il bisticcio continuo è soffocante. Facciamo cose belle che si perdono nell’infantilismo dei tweet».

Faccia un esempio su che cosa migliorare.

« Ho seguito i dossier europei. Ho la fortuna di parlare inglese, francese e tedesco».

E che cosa ha capito?

«Per anni l’Italia non è stata all’altezza. Abbiamo mandato burocrati a leggere discorsi quando avremmo dovuto avere politici all’altezza».

Perché?

«L’autorevolezza è il frutto di competenze e avremmo dovuto mandare i migliori. Le decisioni vere si chiudono a cena, nei coffee break, parlando le lingue».

E quindi?

«Dobbiamo proiettare autorevolezza, soprattutto in Europa. Ne va del futuro del Paese. Serve progettualità nel lungo periodo».

Davvero senza fondi si dimette?

«Non sono venuto qui per una poltrona, ma per cambiare. Se non ci riesco, a Pretoria sto benissimo».

 

Stipendi più alti al Nord e contratti regionali, la scuola a due velocità

Articolo di Corrado Zunino pubblicato mercoledì 10 luglio 2019 da la Repubblica.

Stipendi più alti al Nord e contratti regionali la scuola a due velocità

Quattordici pagine che cambieranno la scuola italiana, così come l’abbiamo conosciuta dal Dopoguerra. Su queste si sta litigando nel governo: sono le “intese” tra Stato e (tre) Regioni, perfezionate lo scorso 15 maggio e tenute nascoste prima delle Europee.
L’autonomia differenziata è andata avanti, dal primo testo di febbraio. Molto avanti. In particolare, il capitolo sulla scuola. Le intese del Veneto di Luca Zaia e della Lombardia di Attilio Fontana con il premier Giuseppe Conte toccano rispettivamente 23 e 20 punti e in entrambi i casi i commi due, tre e nove sono dedicati all’istruzione (e alla formazione professionale, al diritto allo studio universitario e alla ricerca scientifica).
Bene, da pagina 13 a pagina 19 si dettagliano – con un impatto sul resto dell’istruzione italiana esplosivo – le 36 competenze scolastiche che passano dallo Stato alle due Regioni (l’Emilia Romagna chiede autonomia solo sulla formazione professionale). Secondo la nuova intesa, si attribuisce alla Regione interessata «potestà legislativa in materia di norme generali sull’istruzione» (citando l’articolo 117 della Costituzione, architrave dell’accordo). Il Veneto, per esempio, potrà riorganizzare «il sistema educativo regionale» anche in relazione al «contesto sociale ed economico». Potrà intervenire, quindi, sulla valutazione scolastica «introducendo ulteriori indicatori legati al territorio». Potrà nascere una “pagella regionale” con materie ispirate «dal contesto». Nei professionali del Bellunese ci potranno essere, per esempio, discipline legate all’industria dell’occhiale.
Nel nuovo assetto sarà l’ente locale a decidere della formazione dei docenti e delle spese relative. Nelle due Regioni, un naturale rapporto istruzione-lavoro, sarà “il territorio” a definire i percorsi di apprendistato, la qualità dei Centri per l’istruzione degli adulti e il destino degli Istituti tecnici superiori (Its), una realtà che già oggi garantisce piena occupazione. Resta nei poteri dello Stato l’Alternanza scuola lavoro.
Ci sono ancora zone d’ombra sul capitolo più importante: il trasferimento dei dipendenti della scuola.
Tutti i lavoratori dell’Ufficio scolastico regionale e degli Uffici d’ambito passano dal ministero alla Regione (se sono d’accordo), così i presidi, «che potranno optare per lo stipendio favorevole». Dovranno restare nel nuovo assetto amministrativo – “dipendenti regionali” – almeno tre anni. Nelle bozze di maggio c’è, invece, una retromarcia su docenti, personale amministrativo ed educatori: «Restano nei ruoli statali, salva diversa volontà espressa». La formula ambigua serve per calmare il sindacato ed è al centro di riunioni accese (l’ultima al Miur, ieri sera).
Per i precari nascono le graduatorie locali. Si applicherà il ruolo regionale anche agli insegnanti non abilitati di Terza fascia (toccati da un recente accordo-sanatoria tra sindacati e ministro). Il trasferimento dei docenti veneti verso altre Regioni «sarà consentito». Sul fronte stipendi lo strumento che garantirà gli aumenti ( 150-200 euro ai docenti che entreranno nel libro paga della Regione) saranno i “contratti integrativi regionali”. Varranno anche per presidi, dirigenti amministrativi e bidelli. E sarà il Veneto – che da sempre lamenta i troppi precari nelle sue scuole e i troppi trasferimenti di insegnanti dal Sud – a definire il «fabbisogno regionale di personale» e a distribuirlo. Sotto l’egida regionale passerebbero anche le scuole paritarie.
Con gli ultimi 5 mesi di lavoro da parte della ministra degli Affari regionali, Erika Stefani, le due Regioni del Nord hanno chiesto potere completo sulle borse di studio universitarie e le residenze per studenti: già in mano alle Regioni, potranno integrarle con incentivi e servizi. Passa all’amministrazione locale la ricerca scientifica e tecnologica «a sostegno dell’innovazione per i settori produttivi». Veneto e Lombardia faranno propria l’edilizia scolastica.
Non ci sono novità, per ora, sui concorsi (già su base regionale). Il segretario della Cgil scuola (Flc), Giuseppe Sinopoli: «Il 24 aprile, con il premier, abbiamo firmato altro. Alziamo le barricate».

Massimo Villone (Università Federico II Napoli) – Regionalizzazione della scuola, qualcuno mente

Articolo pubblicato martedì 9 luglio 2019 da il manifesto.

Regionalizzazione della scuola, qualcuno mente

Per Bussetti il modello è il Trentino-Alto Adige. È l’esatto contrario dell’accordo firmato il 24 aprile con i sindacati, ma il ministro si limita a dire che «quando leggeranno le bozze di intesa si convinceranno»

Le pretese delle regioni secessioniste sulla scuola sono incompatibili con l’accordo del 24 aprile firmato da Conte e Bussetti con i maggiori sindacati (Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda), a seguito del quale fu sospeso lo sciopero già indetto per il 17 maggio. Tuttavia, dopo il vertice di maggioranza sulla regionalizzazione filtrano notizie di un incontro costruttivo, salvo profili di finanziamento. Se ne riparlerà con Tria. Il governo straccia l’accordo? O qualcuno mente?

C’è un problema, e ha un nome: Bussetti. In una intervista al Corriere Venezia e Mestre del 7 luglio apre – per la scuola veneta – su tutti i fronti: ruoli del personale, concorsi, curricula, organizzazione e finalità del sistema scolastico. Dichiara che il modello è il Trentino-Alto Adige. È l’esatto contrario dell’accordo del 24 aprile, ma il ministro si limita a dire che i sindacati «quando leggeranno le bozze di intesa si convinceranno». Bussetti viene platealmente meno alla propria firma, e certo paga un prezzo politico alto. Evidentemente, pensa che ne valga la pena, perché la scuola è uno dei maggiori capitoli del regionalismo differenziato, per almeno due motivi.

Il primo. La scuola è la fucina dell’identità del paese. Il separatismo nordista in marcia vuole abbandonare definitivamente l’obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud e di garantire l’eguaglianza dei diritti. Bisogna concentrare nel Nord le poche risorse disponibili e liberarlo dalla zavorra del Sud, perché almeno la parte del paese che ne è capace si agganci all’Europa dei più forti. Il resto si arrangi, ed anzi contribuisca con il proprio sangue per quel che può. È un neo-colonialismo a uso interno, un cambio violento del paradigma costituzionale originario, che impone di costruire un fondamento culturale nuovo, non più unitario e nazionale. È questo il cruciale compito della scuola regionalizzata.

Il secondo motivo. La scuola è una realtà politicamente appetibile. Quale governatore o assessore si farebbe sfuggire la possibilità di gestire decine di migliaia di docenti, strumenti efficaci di produzione del consenso? Averne la disponibilità definirebbe la cifra dei governanti nel sistema politico. Una volta partito il treno per alcuni, gli altri non potrebbero permettersi di essere da meno, e l’effetto domino condurrebbe a una frantumazione generale, del tutto funzionale al separatismo nordista. Sarebbe ora che le regioni – in specie del Sud – che si sono accodate alle tre di testa parlassero in chiaro, visto che la loro sopraggiunta richiesta di autonomia è richiamata in ogni momento dagli sfasciacarrozze dell’Italia unita.

Il modello Trentino genera dubbi e dissensi, e non è esportabile. Secondo i calcoli più attendibili sposterebbe un pacco di miliardi verso Lombardia e Veneto e – per l’invarianza di spesa – sottrarrebbe un pari importo alle risorse per l’istruzione nelle altre. Ma di sicuro non è solo una questione di soldi. Gli stessi docenti trentini segnalano come a fronte di limitati vantaggi economici, peraltro strettamente legati a un maggiore carico di lavoro, i docenti e l’intero sistema scolastico siano completamente sottoposti al potere politico locale. Abbiamo sempre sospettato – e scritto – che la firma di Bussetti sull’accordo e l’auto-qualificazione di Conte come garante dell’unità del paese valevano poco o nulla. Ma non serve recriminare. Conta sapere cosa il sindacato voglia fare ora per rispondere allo schiaffo. Soprattutto considerando che è inutile sbandierare rimedi non esperibili come il referendum abrogativo, inammissibile – per motivi diversi – sulla legge di approvazione delle intese e sui decreti del presidente del consiglio dei ministri attuativi della riforma.

È intollerabile che gli esponenti leghisti nel governo si comportino da attendenti o sguatteri di Zaia & co., e che quelli M5S li lascino fare. La visione di Bussetti è contraria alla Costituzione, minoritaria nel paese, e nel mondo della scuola trova una avversione netta e dichiarata. Il suo compito di ministro della Repubblica sarebbe, qualora ne fosse all’altezza, quello di «efficientare» la scuola mantenendone intatta la natura e l’organizzazione nazionale e unitaria.
Secondo un’antica teoria, la funzione crea l’organo. La querelle scientifica non ci interessa. Ma notiamo che per l’esperienza empirica almeno in qualche caso è l’organo che definisce la funzione.