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No Autonomia, Di Maio si schiera con i docenti. Forum alla Federico II

Articolo di Conchita Sannino pubblicato lunedì 29 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

No Autonomia Di Maio si schiera con i docenti

Forum alla Federico II

Si chiama Osservatorio. Si legge: argomentato e duro dissenso, firmato dagli accademici del sud. Dopo il manifesto reso pubblico già a giugno, oggi comincia ufficialmente la “rivolta” dei professori dell’Università Federico II contro quel regionalismo differenziato che direttori di Dipartimento e presidenti delle Scuole condannano perché «in irrimediabile contrasto con il quadro costituzionale». Anzi: un progetto politico che è figlio di «una pulsione cieca che rende egoisti». La novità, non troppo scontata fino a poco fa, è che il relatore d’eccezione – stamane, al convegno di presentazione, Aula Pessina nella sede centrale del corso Umberto, ore 9.30 – sarà il vicepremier Luigi Di Maio.
Il due volte ministro e leader del Movimento 5S, dopo l’impegno stilato nel “contratto” con la Lega a portare a casa quell’Autonomia peraltro ipotizzata dal via al referendum del precedente governo Pd – dopo aver rivisto il dossier e valutato i rischi di secessione (oltre che la caduta di consensi), ha cambiato approccio. «Se qualcuno sta giocando a spaccare l’Italia, questo non lo permetteremo», è l’ultima linea di Di Maio, ripetuta anche in video, una settimana fa. Più netta e datata l’opposizione del presidente della Camera, Roberto Fico, che aveva già da mesi segnalato la incostituzionalità della proposta di Lombardia e Veneto, in particolare ribadendo che nessuna intesa sarebbe passata «se non attraverso un esame rigoroso, completo, da fare in Parlamento».
Ma la linea tracciata dai professori della Federico II va molto oltre queste diffidenze. La mattinata sarà aperta dal rettore Gaetano Manfredi. Introduce il professore Sandro Staiano, direttore del Dipartimento di Giurisprudenza (e tra i promotori dell’Osservatorio), intervengono Massimo Villone emerito di Diritto costituzionale; Giuseppe Tesauro, presidente emerito della Corte Costituzionale; Adriano Giannola, presidente Svimez; Floriana Cerniglia, ordinario di Economia politica all’Università del Sacro Cuore di Milano; Gianfranco Viesti ordinario di Economia applicata a Bari.
«Un’autonomia chiesta e applicata nei termini in cui vorrebbero Lombardia e Veneto? Ma è pura follia, oltre ad essere profondamente incostituzionale», sottolinea con Repubblica il professore Tesauro, peraltro “corteggiato” dal Movimento 5S anche alla vigilia dell’ingresso dei pentastellati a Palazzo Chigi. «Tutti coloro che ritengono valida questa assurda intesa si appigliano al fatto che ci sia stato un referendum. E allora? Qui si parla del destino della coesione nazionale. Si tratta di livelli sideralmente distanti», ribadisce il presidente emerito della Corte costituzionale.
La Federico II – con i suoi 795 anni di storia – sul piede di guerra, avendo «contribuito a formare le migliori classi dirigenti italiane», come ricordano i docenti nel loro appello di giugno. Tre pagine per ricordare e mettere in guardia «dalla crescita delle asimmetrie lungo la linea di frattura Nord-Sud», in particolare nelle «misure di “differenziazione” che già riguardano il sistema universitario e dell’istruzione in genere».
E per i dati relativi «alla garanzia del diritto allo studio, con la Campania agli ultimi posti, insieme a Calabria e Sicilia, per percentuali di aventi diritto che accede alle borse di studio (fonte: Corte dei Conti)». Con l’Autonomia, anche l’Università – con il resto del territorio, e dei giovani in particolare – conterebbe gravi danni. «In maniera irreversibile e – chiosano i professori – in termini drammatici per le sorti dell’intero Paese».

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Articolo di Guido Gentili pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da Il Sole 24 Ore.

Autonomia, gran duello a Bologna tra «Il Mulino» e Regione

Frattura a centro-sinistra, il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, Pd, sotto il fuoco della prestigiosa rivista di cultura e politica «Il Mulino», fondata a Bologna nel 1951, anti-marxista e riformatrice, tra l’altro protagonista nel processo di apertura della nuova America di Kennedy all’accordo tra socialisti e democristiani in Italia. E ancora oggi, diretta dal professor Mario Ricciardi, punto di riferimento culturale e politico tra i più autorevoli nel dibattito italiano.
Fatto è che il regionalismo differenziato, al centro di un duro confronto all’interno del governo gialloverde M5S-Lega e tra i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna e lo stesso premier Giuseppe Conte, non piace al gruppo del Mulino.

Già nel luglio del 2018 il tema era stato affrontato con occhio molto critico da Marco Cammelli, presidente dell’Associazione di cui tra gli altri fanno parte, oltre a Ricciardi, Paolo Onofri, Angelo Panebianco e Paolo Pombeni. «Il segnale che la parte più avanzata delle regioni italiane dà con questa operazione – scrisse Cammelli – rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare» (…) ma la strada imboccata «difficilmente porterà a qualcosa di buono».
Esattamente un anno dopo, mentre Matteo Salvini s’interroga se lasciare o no il governo e nel mezzo della tempesta politica sulle nuove autonomie proposte dalle tre regioni assi portanti dello sviluppo italiano, ecco l’analisi del professor Gianfranco Viesti, componente del Comitato di direzione della rivista e autore di commenti durissimi sui quotidiani Messaggero e Mattino. Titolo che già dice tutto («Autonomia differenziata: un processo distruttivo»), richiesta a Bonaccini di staccarsi del tutto dai colleghi presidenti di Lombardia e Veneto, i leghisti Attilio Fontana e Luca Zaia, staffilata anche contro il passato governo Gentiloni che pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, firmò una pre-intesa «in palese spregio della prima parte della Costituzione».
Del resto a sinistra, in generale e non da oggi, la richiesta del regionalismo differenziato (supportato in Lombardia e Veneto dai referendum popolari) viene spesso bollata, con un riflesso condizionato ideologico e che tiene in scarso conto anche le ragioni del Nord, come una rapina a tutto svantaggio del Sud povero.
Per Bonaccini (la regione ha chiesto 15 delle 23 competenze possibili e non ha messo sul piatto la questione del residuo fiscale) la partita è comunque dura. Raggiunto dal Corriere di Bologna per rispondere al Mulino, il presidente ha spiegato che anche il professor Viesti «riconosce la diversità di fondo della nostra proposta, noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse».
Basterà per quietare i critici in casa e insieme convincere i cittadini? C’è un particolare da non dimenticare: in Emilia-Romagna si vota in autunno e Salvini, sulla scia delle elezioni europee, conta di andare al comando anche a Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

Articolo di Marco Marozzi pubblicato domenica 21 luglio 2019 dal Corriere di Bologna.

Autonomia, lo schiaffo del Mulino

La rivista dello storico pensatoio si schiera: anche la proposta di Bonaccini è distruttiva

L’autonomia differenziata è «un processo distruttivo». La rivista Il Mulino, storico pensatoio del centrosinistra insieme all’omonima casa editrice, si schiera contro l’autonomia regionale. Anche dell’Emilia-Romagna. «Chiede poteri estesissimi, quasi quanto le altre Regioni», si legge in un articolo pubblicato sull’ultimo numero della rivista, che accusa il Pd di inseguire la Lega per non perdere le Regionali. «No, la nostra proposta è differente», insiste il governatore Bonaccini.

«Autonomia differenziata: un processo distruttivo». Proprio mentre il governo Conte stoppa le richieste più spinte di Lombardia e Veneto per avere mano libera sulla scuola, la rivista Il Mulino spara ad alzo zero anche sull’Emilia-Romagna. « La grande sorpresa — scrive — è l’Emilia Romagna guidata dal Partito democratico». Spazza via i tentativi di differenziazione del presidente Stefano Bonaccini. Lo accusa di essersi alleato «in toto» alle altre due Regioni «nel percorso e nella pressione politica» e di avere sottoscritto «senza problemi testi che darebbero non pochi vantaggi economici».

L’Emilia-Romagna «chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre», è la tesi de Il Mulino: «Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte e si prova a non perderle inseguendo anche un poco la Lega». Parere coincidente con quello di Vittorio Sgarbi, arrivato dal centrodestra: «Mi colpisce l’intelligenza di Bonaccini, ha capito che la Lega non va sempre contrastata». Quella de Il Mulino è ormai una vera e propria campagna. Sono scesi in campo in molti, a cominciare dal presidente dell’Associazione, Marco Cammelli, gran nome del diritto amministrativo, fra i padri delle riforma sanitaria, già presidente della Fondazione del Monte, molte volte richiesto dalla sinistra come sindaco di Bologna. Sotto accusa vengono messe non solo le singole misure, su cui Bonaccini interloquisce, ma l’assetto complessivo su cui si era formata l’alleanza Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna.

«La secessione dei ricchi», la chiama Il Mulino, la cui Associazione raggruppa il fior fiore dell’intellettualità di centrosinistra italiana, da Giuliano Amato a Romano Prodi, da Ignazio Visco a Ilvo Diamanti. Le sue riviste fanno da decenni riferimento per la scienza della politica, cinque sono dedicate in specifico a «Politiche sociali e politiche pubbliche». Da quel mondo arriva Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini in Regione, ora eurodeputata Pd: unica esponente del Mulino presente nelle rappresentanze politiche, dopo decenni di presenze vaste.

È un confronto durissimo fra grandi conoscitori delle istituzioni e sostenitori del regionalismo. A firmare l’ultimo attacco, appena uscito, è Gianfranco Viesti, ordinario di Economia applicata a Bari, consulente della Laterza, nome di spicco de Il Mulino. L’unica chanche per Bonaccini, dice, è di non riferirsi più come Lombardia e Veneto alla riforma — «solo per se stessi» — dell’art. 116 della Costituzione sui poteri alle autonomie, ma di passare all’art. 117, con una modifica «volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese». L’attacco è a vasto raggio verso il Pd. Ricorda «la pre-intesa raggiunta con le Regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più».

Il governatore Stefano Bonaccini, da tempo impegnato a difendere l’autonomia emiliano-romagnola da attacchi della galassia di sinistra, tiene il punto: «Lo stesso professor Viesti riconosce la diversità di fondo della nostra proposta. Noi non abbiamo chiesto un euro in più perché la nostra sfida è l’efficienza, gestire meglio a parità di risorse». Per Cammelli però «il segnale che la parte più avanzata delle Regioni italiane dà rischia di essere terribilmente netto: se per decenni non si è riusciti a fare passi avanti per tutti, almeno non si impedisca di farli fare a chi ha gambe sufficienti per camminare». Invece del «decentramento per alcuni», è il monito, l’operazione può portare allo «sgretolamento per tutti».

Gianfranco Viesti (Università di Bari) – Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Articolo pubblicato dalla rivista Il Mulino (n. 3 del 2019).

Autonomia differenziata: un processo distruttivo

Il nostro è un Paese giovane, ma con un futuro denso di incertezze. Un Paese segnato sin dalla sua nascita da una significativa distanza non solo geografica ma anche culturale fra le sue regioni; e che nel suo processo di sviluppo ha visto consolidarsi forti disuguaglianze economiche territoriali. Un Paese con una significativa debolezza dei suoi apparati centrali di governo – nella loro efficienza, nella capacità di garantire ai cittadini servizi pubblici e diritti di cittadinanza comparabili –, dove c’è voluto un secolo per raggiungere nel Mezzogiorno livelli di istruzione elementare simili a quelli del resto d’Italia. Anche per tutto questo, un Paese con lunghe e alterne vicende di contrapposizioni di interessi territoriali.

Nel secondo dopoguerra l’Italia ha provato a unificarsi davvero. Ha puntato a rafforzare l’economia delle sue regioni più deboli, a vantaggio della crescita dell’intero Paese, e a garantire maggiore uniformità fra i suoi cittadini nella fruizione dei grandi servizi, a partire da istruzione e salute. È stato, pur con tutte le sue contraddizioni, il periodo migliore della nostra storia economica: la maggiore coesione sociale e territoriale è andata di pari passo con tassi di crescita mai raggiunti, e che non saranno mai più raggiunti. Certo, quella crescita è stata collegata a condizioni abilitanti storicamente determinate e irripetibili. Tuttavia, non si sfugge: quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva. La stessa identica logica dell’integrazione europea.

Con gli anni Settanta, il «miracolo» è scomparso. E questo ha portato con sé il rinascere di conflitti distributivi: la spinta e i danari per lo sviluppo si sono spostati dall’industrializzazione del Sud alla riconversione del Nord; ma al Mezzogiorno sono stati garantiti trasferimenti compensativi: spesso distorsivi, in un intreccio sempre più negativo fra classi dirigenti politiche nazionali e locali. Con gli anni Novanta, la grande crisi fiscale e la stretta sulla tassazione hanno provocato per la prima volta la nascita di un movimento politico a esplicita base territoriale, fortemente antimeridionale. La Lega ha condizionato le scelte politiche a cavallo del secolo: la sua minaccia politica è stata ad esempio importante per spingere nel 2001 i governi di centrosinistra a una riforma del Titolo V della Costituzione certamente affrettata, e con diversi elementi problematici. E ha contribuito al diffondersi di un pericoloso veleno, una sottocultura in base alla quale l’impiego delle risorse pubbliche è sempre, per definizione, a somma zero: più a te significa sempre meno a me. In questo anche favorita dal progressivo venir meno dei partiti politici nazionali, sedi per propria natura deputate alla composizione di differenti interessi territoriali, e alla loro mediazione in scelte di interesse collettivo. Ancora fino alla fine del primo decennio di questo secolo gli effetti concreti di questo veleno sono stati parziali: certo, con l’esplodere della «questione settentrionale» lo sviluppo del Mezzogiorno è sparito dall’agenda politica. Ma le stesse richieste di «autonomia regionale differenziata» di Lombardia e Veneto sono state bellamente ignorate dai governi Berlusconi 2008-11. Ma con la grande crisi, la situazione è cambiata: le derive già presenti si sono accelerate. Sono mutati gli scenari europei. Si è affievolita la condivisione del grande progetto di integrazione. Si sono rafforzati sovranismi di varia natura e intensità: egoismi e isolazionismi nazionali, come quelli di alcune giovani e incomplete democrazie dell’Est; egoismi regionali, come quelli che hanno segnato lo scenario spagnolo degli ultimi anni. Il voto sulla Brexit sembra uno spartiacque: l’offerta politica di un presunto ritorno alla sovranità, della ricostruzione di confini e barriere, si è rivelata vincente.

Ed è profondamente mutato il quadro nazionale. La crisi è stata cattiva, profonda, persistente, assai più di quanto si riuscisse a vedere nel corso del suo dipanarsi; e ha prodotto un terremoto elettorale che è sotto gli occhi di tutti. Le scelte di politica economica, in parte necessarie per la pessima condizione dei conti pubblici, in parte obbligate in tempistica e dimensione da nuove regole europee assai discutibili, hanno compresso i redditi, ridotto il benessere, accresciuto la pressione fiscale e tagliato i servizi, ricentralizzando le grandi scelte di bilancio e spostando a livello regionale e locale molti sacrifici. L’Italia è entrata in un’era di aspettative fortemente decrescenti; ha visto aumentare disillusioni e timori, egoismi e rancori. La ricerca di capri espiatori, ovviamente diversi da sé. Fossero essi le regole e le istituzioni europee (pur non esenti da evidenti criticità), i flussi migratori (pur assai problematici nella loro dimensione e dinamica), le élite, la «casta» dei privilegiati (pur sovente sorde all’ascolto delle difficoltà diffuse). E, naturalmente, i meridionali; in realtà sempre più spesso i centro-meridionali, con uno spostamento d’ufficio di Roma («ladrona») nel Mezzogiorno. La parte parassita del Paese, che gode di elevati servizi e prestazioni senza meritarli grazie a lavoro, reddito e sforzo fiscale; che vive alle spalle dell’Italia che produce.

L’Italia di oggi sembra segnata da una crescente sfiducia nel futuro e dal conseguente prevalere, in molti cittadini, dell’interesse per le proprie sorti, individuali o di piccolo gruppo. E quindi da una scarsa attenzione per i grandi servizi collettivi: gli italiani sembrano assistere piuttosto passivamente alla progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale, alla compressione selettiva e cumulativa dell’università, al declino della scuola. Infine, da una domanda di politiche di breve termine; non a caso la maggioranza dei cittadini pare approvare le scelte della coalizione di governo, orientate verso il soddisfacimento di interessi individuali o di piccoli gruppi. Molti italiani non hanno più fiducia nella capacità delle politiche pubbliche di cambiare in meglio il Paese, di migliorare il loro futuro.

Ad esito di tutto questo, l’Italia di oggi è teatro di una lotta sorda e sotterranea per spartirsi i residui delle risorse pubbliche. In questo pienamente leghistizzata. Convinta cioè che «più a te» significhi automaticamente «meno a me», senza fiducia nelle logiche dell’integrazione, nell’investimento nel futuro, negli effetti positivi del recupero di disuguaglianze e disparità.

È in questo clima che matura, a partire dal 2017, il progetto della «secessione dei ricchi». Non giunge inatteso. È preannunciato dalle vicende del federalismo comunale: nel 2009, con la legge 42, si è provato a modificare il finanziamento degli enti locali, ancorandolo a criteri oggettivi; ma poi in sede di attuazione, in presenza di risorse decrescenti, la loro definizione è diventata teatro della guerra, largamente vittoriosa, dei comuni più ricchi a quelli più poveri. Dalle vicende del finanziamento delle università, in cui una girandola di norme e di indicatori quasi sempre costruiti ad hoc ha ripartito risorse totali fortemente decrescenti in modo assai asimmetrico, a danno del sistema degli atenei del Centro Sud e del Nord periferico. Da modifiche dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale, che stanno contribuendo ad accelerare – invece di contrastare – le migrazioni sanitarie di pazienti da una regione all’altra. Tutte vicende segnate dal ruolo cruciale ma nascosto di agenzie tecniche pseudo-neutrali, incaricate di produrre numeri tali da far sembrare precise scelte politiche nulla più che esiti di algoritmi; e, soprattutto, dalla totale mancanza di discussione pubblica e dal disinteresse del sistema dell’informazione. Dalla fuga della politica.

Ma che cosa è la secessione dei ricchi? Rimandando il lettore interessato a maggiori dettagli a un volumetto scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore Laterza, si può ricordare sinteticamente che si tratta della richiesta di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ai sensi del III comma dell’articolo 116 della Costituzione (come riformata nel 2001), di ulteriori e particolari forme di autonomia. Alle tre regioni capofila poi sono pronte ad accodarsene altre. In questa richiesta vi sono almeno tre elementi di evidente criticità, tali da giustificare una definizione così forte.

Innanzitutto, non si tratta di specifiche materie, collegate a specifiche condizioni della specifica regione, tali da rendere ragionevoli poteri e competenze non riconosciute alle altre, in un regionalismo «differenziato». Ma della richiesta politica di poter disporre praticamente di tutte le competenze che teoricamente possono essere trasferite in base alla lettera di quel comma. La Lombardia chiede ben 131 nuove funzioni legislative e amministrative. Nessuna evidenza è presentata sulla circostanza che in queste materie la gestione regionale sarebbe più efficace e/o più efficiente di quella nazionale: è un dogma che non occorre dimostrare. È in gioco così gran parte dell’intervento pubblico che si realizza in Italia: dalla regionalizzazione della scuola alla sostanziale cancellazione del Servizio sanitario nazionale, dai beni culturali all’assetto del territorio, dalle infrastrutture all’energia, dal lavoro alla previdenza complementare. Vi sono differenze fra Emilia-Romagna da un lato e Lombardia e Veneto dall’altro su alcuni aspetti cruciali, a partire dalle richieste delle ultime due di regionalizzare il personale della scuola e di acquisire al demanio regionale parti del patrimonio infrastrutturale esistente (dalle autostrade alle ferrovie agli aeroporti) per poterlo mettere a valore; incuranti del fatto che esso è stato realizzato con le risorse della collettività nazionale. Nell’ultimo anno il ministro incaricato del dossier (una leghista veneta) ha cercato di soddisfare in ogni modo queste richieste, ma quanto il governo Conte sia disposto alla fine a concedere è avvolto nelle nebbie: i testi delle parziali intese di merito già raggiunte sono, al maggio 2019, segreti.

In ogni caso, una radicale revisione di come funziona l’Italia. Per i promotori, si tratta di modifiche opportune, che possono migliorare le politiche pubbliche e avvicinarle ai cittadini. Ma, a parte gli evidenti dubbi che questo sia vero su una tale sterminata congerie ed estensione di materie, la questione centrale è che essi la chiedono solo per se stessi. Non propongono, cioè, una modifica dell’articolo 117 della Costituzione, volta a spostare dal livello nazionale a quello regionale più poteri in tutto il Paese; propongono l’attuazione del 116: cioè un trasferimento solo per se stessi.

Che gli altri si arrangino, in una situazione in cui l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco; un vero e proprio unicum al mondo: con 4 regioni a statuto speciale, due provincie autonome, un certo numero di regioni ad autonomia potenziata (ognuna con ambiti un po’ diversi) e poteri centrali con la responsabilità delle politiche e dei servizi nei ritagli di Paese residui.

In secondo luogo, questa richiesta sterminata fa il paio con la volontà di poter acquisire risorse finanziarie assai più ampie di quelle oggi erogate dallo Stato centrale in quei territori per quelle funzioni. Più ampie le competenze, più ampia la differenza nelle disponibilità economiche. Date le condizioni della finanza pubblica, questo non può che avvenire senza incrementare la spesa complessiva: e quindi utilizzando risorse oggi spese in altre regioni. Questo è da sempre stato esplicito nelle richieste venete; il grande obiettivo sbandierato ai cittadini di riprendersi i «propri soldi» (in realtà, della collettività nazionale). Chiaro, anche se pudicamente meno reiterato, in quelle lombarde. Escluso invece in quelle emiliane, anche se senza alcuna obiezione alle posizioni delle prime due.

Richieste santificate dalla pre-intesa raggiunta con le regioni il 28 febbraio 2018 (quattro giorni prima delle elezioni) dal sottosegretario Gian Claudio Bressa a nome del governo Gentiloni: uno dei suoi articoli stabiliva, in palese spregio della prima parte della Costituzione, che la spesa per i servizi in ciascuna regione dovesse essere parametrata anche sul gettito fiscale; cioè sul suo reddito. Chi è ricco merita di più e avrà di più. Di fronte all’enormità di questo patto, persino l’attuale governo sembra pensare ad altre disposizioni finanziarie. Ma nelle ipotesi di intesa (sulla sola parte finanziaria) disponibili sul sito del Dipartimento degli Affari regionali si prova comunque a far rientrare dalla finestra ciò che non entra più dalla porta: si stabiliscono criteri per cui – specie nella scuola – le regioni potrebbero disporre di risorse ben maggiori, sottraendole alle altre; così come un canale privilegiato per la spesa per investimenti pubblici.

Infine, l’idea delle tre regioni è sempre stata ed è quella di concludere l’intesa con il governo (ci si è arrivati ad un passo il 15 febbraio 2019) e di puntare poi ad un rapido ed indolore passaggio parlamentare di mera ratifica. A quel punto il gioco sarebbe fatto. Ciascuna intesa potrebbe essere modificata solo con l’assenso della regione interessata, e non potrebbe essere sottoposta a referendum abrogativo. L’enorme potere attuativo e di definizione di tutti gli aspetti di dettaglio, normativi e finanziari, passerebbe nelle mani di Commissioni paritetiche Stato-Regione, sottratte al controllo parlamentare e – se il colpo riuscisse perfettamente – anche a quello della Corte Costituzionale. Il percorso non è ancora definito. L’idea che il Parlamento non debba discutere e poter emendare nulla pare davvero estrema. Ma in queste vicende le ipotesi estreme, neanche immaginabili nell’Italia di qualche anno fa, sono molte.

Una parte delle classi dirigenti di Lombardia, Veneto ed Emilia sta dunque provando a ristrutturare profondamente l’Italia. A farsi quasi Stato nello Stato. La prospettiva dell’indipendentismo veneto (arrivata fino all’indizione di un referendum nel 2014 su «volete voi il Veneto indipendente», poi vietato dalla Corte costituzionale) è al momento abbandonata. Molto più comodamente, si resta parte di un Paese membro dell’Unione europea: con tutti i vantaggi in termini di libera circolazione di capitali, merci, servizi e persone che ne derivano; con sicurezza, difesa, politica estera comune; con l’enorme debito pubblico che rimane nella responsabilità solidale di tutti gli italiani. Ma con poteri legislativi e amministrativi straordinariamente vasti; e con le relative risorse che «rimangono» nella regione senza essere trasferite alla fiscalità generale, poste così al di fuori da manovre nazionali di austerità o di revisione della spesa in quegli ambiti.

Ci si mette il più possibile al riparo da eventuali crisi di sistema del Paese, purtroppo non impossibili. Lasciando il governo dei conti pubblici a un Tesoro con lo stesso debito ma con un minor gettito fiscale disponibile (una volta detratte le risorse che rimangono nelle regioni) per farvi fronte. Si pongono le basi per una diversa organizzazione della sanità o della scuola; con il potere di operare scelte politiche anche profonde: di rompere i principi di universalismo della sanità pubblica, o di riconoscere e finanziare a piacere le istituzioni private nell’istruzione, di organizzare una previdenza complementare solo per i propri cittadini. Si accrescono enormemente i poteri di gestione e di intermediazione di risorse pubbliche delle classi dirigenti regionali.

Il processo nasce e trova alimento dalla pluridecennale predicazione leghista. Ma il favore intorno ad esso è ben più esteso, profondo. Con interessanti differenze fra le regioni. In Veneto il consenso per «l’autonomia» è assai vasto (testimoniato anche dalla sensibile partecipazione al referendum consultivo del novembre 2017): coinvolge gran parte delle forze economico-sociali e quasi tutte le rappresentanze politiche. Certo, il consenso è, genericamente, «per l’autonomia»: non è chiaro quanto vi sia conoscenza del fatto che i dirigenti e i programmi scolastici verrebbero a dipendere dalla politica regionale, o che quelle della Laguna non sarebbero più acque territoriali italiane. Il Veneto soffre molto della vicinanza alle privilegiate aree a statuto speciale di Friuli-Venezia Giulia e, soprattutto, Trento e Bolzano: si pensi che per ogni studente trentino si spende il 70% in più che per gli altri studenti italiani. Ma invece di intestarsi una proposta volta a ridare razionalità ed equità al sistema delle autonomie, mira esso stesso a divenire «speciale»: e che gli altri, in particolare i meridionali spreconi, si arrangino. Più articolata pare la situazione lombarda: regione assai più legata da interessi e consuetudini alla comunità nazionale; con una Milano freddissima su questo tema, così come evidente dalla assai scarsa partecipazione elettorale al referendum del 2017. La grande sorpresa è però l’Emilia guidata dal Partito democratico. Che chiede poteri estesissimi quasi quanto le altre: per sé, e non per tutti. Con il 116 e non con il 117: rinunciando quindi a porsi alla testa di qualsiasi progetto di riforma nazionale. Che rivendica i principi dell’unità del Paese e si fa vanto di non richiedere risorse aggiuntive: ma che si allinea in toto alle altre due nel percorso e nella pressione politica; e che sottoscrive senza problemi testi che le darebbero non pochi vantaggi economici. Il tutto nell’assordante silenzio delle comunità culturali e politiche di Lombardia ed Emilia, che non trovano evidentemente necessario o elegante discutere del futuro proprio e degli altri italiani; derubricando forse questa grande prospettiva a questione amministrativa. Silenzio pur rotto dalle forti prese di posizioni contrarie dei due sindaci di Bologna e Milano, dell’ex presidente della Regione Emilia-Romagna, di alcuni intellettuali: ma senza che ne sia scaturita discussione diffusa.

Balbettano, su questo come su altri temi, le altre regioni; con le principali del Sud a zig-zag fra il desiderio di acquisire maggiori poteri di gestione e intermediazione per sé e le preoccupazioni per l’essere i loro cittadini le principali potenziali vittime. Protesta la Toscana, in difesa di una ben diversa concezione di autonomia, ma con un filo di voce. Si accoda nelle richieste la Liguria, che punta, come prospettiva strategica, alla gestione del sistema autostradale e ferroviario e del demanio portuale e aeroportuale e ai relativi incassi da concessioni e traffico; un luminoso futuro, sia detto con un filo di ironia ma anche con preoccupazione, da esattore di transito.

Nella politica nazionale c’è solo la Lega: vociante al Nord, silenziosa e reticente nel resto del Paese dove cerca consenso; ma pronta in qualsiasi momento all’offensiva finale per i propri «veri» territori ed elettori. I 5 Stelle paiono aver preso coscienza solo negli ultimi tempi di quel che essi stessi hanno convenuto nel contratto di governo, e frenano. Silenti gli altri, tranne l’estrema sinistra, contraria. Silenti, nonostante il nome, i fratelli d’Italia e i forza-italiani. Silente il Partito democratico, spaccato fra alcuni dei suoi esponenti che avanzano perplessità e le componenti lombardo-venete, e soprattutto quella – assai più potente – emiliana, che chiedono condivisione e assoluto silenzio in pubblico. Anche perché ci sono le elezioni regionali alle porte, e si prova a non perderle inseguendo anche un po’ la Lega. Partiti incapaci di una discussione aperta e basata sui fatti e di una mediazione politica fra le diverse posizioni; di formulare proposte basate sui propri valori di riferimento e sul complessivo interesse nazionale.

Al momento in cui scrivo, non è affatto chiaro come terminerà questa vicenda. Ma le convinzioni e gli interessi politico-economici da cui nasce e le questioni che essa solleva sono destinati a restare, a incidere ancora a lungo, nell’Italia di oggi e di domani. Forse aggravate da contrapposizioni sempre più sorde fra i cittadini di diverse regioni, di cui purtroppo si vedono le avvisaglie. Con esse, e con il permanere di una politica incapace di proporre e progettare una profezia positiva di un futuro condiviso, il rischio che il nostro giovane Paese progressivamente, passo dopo passo, di fatto si dissolva.

La laurea non c’è e la sindaca Pd ammette la bugia

Articolo di Laura Montanari pubblicato lunedì 26 febbraio 2018 da la Repubblica.

La laurea non c’è e la sindaca Pd ammette la bugia

Si è portata addosso quella bugia per ventinove anni, Giamila Carli, sindaca Pd di Santa Luce, comune agricolo di 1700 abitanti, in provincia di Pisa. Se l’è portata come una seconda pelle, fino a qualche giorno fa, quando l’ha chiamata un giornalista del Tirreno e lei è stata costretta a far cadere la maschera confessando che in effetti, la laurea in Giurisprudenza non l’ha mai avuta. Eppure quel titolo di studio è comparso a lungo sul suo curriculum, senza indicazione dell’ateneo e nemmeno dell’anno di laurea. Una vaghezza sospetta che è diventata piano piano una prova. E Giamila Carli che fa parte della segreteria provinciale del Pd, che è stata ex vicesindaca di Cecina e da due anni governa Santa Luce (ha avuto oltre il 64% dei voti), ha dovuto scrivere in fretta una lettera pubblicata ieri sul quotidiano per spiegare che «c’è una storia nella storia». C’è «uno sbaglio certo e chiedo scusa a tutti» e c’è il pentimento: «Mi dispiace». Ma poi resta altro da spiegare: «Quella bugia nasce dal fatto che non volevo deludere i miei genitori, mio padre era operaio, mia madre casalinga — racconta al telefono — ci tenevano moltissimo alla mia laurea e io non ho avuto il coraggio di dire loro la verità». Cioè che si era fermata a quota 17 esami. «Sono rimasta prigioniera di una bugia» spiega tornando col pensiero al 1989, anno della fanta-laurea. Scrive che attraversava «un momento buio che ha segnato cuore e anima, la depressione legata a un distacco e la paura di affrontare la famiglia». Mentre il percorso universitario si fermava, Giamila proseguiva con successo l’attività politica che, sostiene, l’ha salvata dal “male di vivere”: «All’impegno politico ho dedicato la mia vita». Assicura la sindaca di «non aver mai utilizzato il titolo a fini personali» e di non averne fatto sfoggio: «Ho commesso un errore, grave che affronterò responsabilmente». Si scusa col Pd «per aver contravvenuto alla dovuta trasparenza» e con la gente per aver violato il decreto sulla trasparenza che prevede che un amministratore pubblico debba, fra l’altro, rendere noto il curriculum, quello vero. Ora Giamila ha rimesso il mandato al partito per l’incarico alla segreteria provinciale, ma non si dimetterà da sindaca: «Ho cose importanti da portare avanti, sto risanando il bilancio di un Comune che ho ereditato in pre-dissesto». La lettera si conclude citando una frase di Cesare Pavese e un sempreverde «e ora ha da passà ‘a nuttata».

La Madia ci chiede i danni, ma il “Fatto” li chiederà a lei

Articolo pubblicato domenica 25 febbraio 2018 da il Fatto Quotidiano.

La Madia ci chiede i danni, ma il “Fatto” li chiederà a lei

La ministra si sente diffamata dagli articoli, il nostro giornale dalle sue accuse

Dopo averlo annunciato quasi un anno fa, a pochi giorni dalla fine della campagna elettorale il ministro Marianna Madia (Pd) ha convocato il Fatto Quotidiano, il direttore Marco Travaglio, il vicedirettore Stefano Feltri e la collaboratrice Laura Margottini, dando il via alla procedura di mediazione che prelude, salvo accordo fra le parti, piuttosto improbabile, all’introduzione della causa civile per risarcimento danni, definito allo stato “indeterminato”. La Madia contesta gli articoli sulle irregolarità nella sua tesi di dottorato che hanno avuto una “eco vastissima”, articoli dai quali il ministro si è sentita “gravemente diffamata e ingiuriata”. Le “accuse” infondate, secondo la denuncia degli avvocati Nicola Madia e Giuseppe Niccolini, sono tre: aver copiato la tesi di dottorato in Economia del lavoro discussa all’Imt di Lucca nel 2008, “aver altresì copiato altri saggi su riviste scientifiche”, non essersi mai recata all’università di Tilburg, dove, secondo quanto dichiarato nella tesi, la Madia avrebbe dovuto svolgere un esperimento di economia comportamentale al centro del terzo capitolo del lavoro. Queste notizie sono “false”, scrivono gli avvocati, come hanno certificato la commissione istituita dall’Imt, la perizia della società Resis, e il Cambridge Journal of Economics.

In realtà il Fatto non ha mai contestato alla Madia di “aver copiato” l’intera tesi di dottorato, ma di non aver rispettato le regole sulle citazioni, con oltre 4000 parole riprese da lavori altrui senza che questo fosse evidente dal testo. E non soltanto per aspetti marginali ma anche, tra l’altro, per il modello economico al centro del secondo capitolo che, alla lettura, pare una creazione originale della Madia, mentre così non è. Queste irregolarità sono state confermate sia da esperti indipendenti contattati dal Fatto – che hanno riscontrato un numero maggiore di parole riprese da lavori altrui senza corretta citazione – e perfino dalla perizia Resis, società incaricata da Imt di analizzare la tesi (e tutt’altro che terza perché titolare di un contratto assegnato senza gara per quasi 40.000 euro per docenze e consulenze proprio da Imt). La perizia, e dunque la commissione, hanno poi assolto la Madia sostenendo che nella ricerca economica vigono standard sul plagio e sulle citazioni diversi da altre discipline, giudizio inedito e subito contestato dalla Società italiana degli economisti e da accademici importanti come Roberto Perotti della Bocconi. Il Cambridge Journal of Economics ha ritenuto di non sanzionare l’articolo firmato da Madia e dalla collega Caterina Giannetti ma resta il fatto che quell’articolo, con due autrici, appare pressoché identico nella tesi ma a firma della sola Madia. E omettere la presenza di un co-autore in un lavoro di dottorato è una scorrettezza grave, come riconosce anche la perizia di Resis.

E veniamo all’Università di Tilburg: il Fatto ha più volte contattato l’ateneo olandese in cerca di una conferma di quanto dichiarato dalla Madia nella tesi, cioè di essere stata lì come “short visiting PhD student” e di aver condotto nel CENTER dell’università un esperimento di economia comportamentale sull’impatto della flessibilità contrattuale sul comportamento di lavoratori e aziende. Tilburg non ha mai fornito elementi a sostegno di queste affermazioni, dell’eventuale passaggio della Madia non esiste alcuna prova, dicono dall’ateneo, e neppure dell’esperimento sui cui risultati si regge un terzo della tesi (e questo è inusuale perché questi esperimenti devono rispettare protocolli standard che richiedono autorizzazioni e liberatorie). Il 15 febbraio, in una intervista a Vanity Fair, per la prima volta la Madia ha risposto a una domanda precisa sul punto: “All’Università di Tilburg è andata davvero a svolgere un esperimento di tesi?”. Risposta: “Ma certo, ho partecipato a un seminario informale dove ho presentato un articolo della tesi. Ci sono professori che sono pronti a testimoniare in tribunale”. Neppure la Madia, quindi, conferma quando dichiarato dieci anni fa nella tesi: a un seminario informale si presentano risultati o si ascoltano relazioni altrui. Ma se ha soltanto seguito un seminario, dove e quando ha svolto l’esperimento? E come mai non ha lasciato traccia?

Questi sono i fatti. Nulla di quanto scritto dal Fatto è mai stato smentito. Anche le analisi della società Resis con i software antiplagio hanno, con piccole variazioni dovute all’impostazione discrezionale, confermato i risultati ottenuti da analoghi controlli svolti da Laura Margottini per il Fatto. Eppure da un anno il ministro Madia usa i suoi social network per diffondere l’impressione che ci sia una campagna contro di lei a base di menzogne condotta dal Fatto. “Le faccio una domanda: quella perizia lei l’ha letta in originale o sul giornale”, dice per esempio all’intervistatrice di Vanity Fair, suggerendo che il Fatto abbia manipolato il documento o presentato una selezione faziosa del contenuto. Già con le sue prime minacce di querela, a marzo 2017, e poi con l’infondata richiesta di risarcimento danni ora la Madia ha cercato di minare la credibilità del Fatto, non avendo argomenti per contestare nel merito quanto rivelato. Per queste ragioni all’incontro tra le parti, previsto per il 7 marzo, il Fatto non avvierà alcuna mediazione con il ministro Madia, anzi. Il Fatto, con l’avvocato Caterina Malavenda, presenterà una domanda riconvenzionale, chiederà cioè il risarcimento del danno subito dall’accusa infondata di aver tenuto una condotta diffamatoria nei confronti della Madia.

Specializzandi, il Governo impugna la riforma della sanità lombarda

Articolo di Giulia Bonezzi pubblicato domenica 11 febbraio 2018 dal Quotidiano Nazionale.

Specializzandi, il Governo impugna la riforma

Contestata alla Regione l’«autonomia progressiva» di chi si forma nelle corsie

Impugnata l’ultima tranche della riforma della sanità lombarda, quella che introduce un’«autonomia progressiva» per i medici specializzandi negli ospedali. Un provvedimento approvato dal Pirellone alla fine dello scorso anno, che il Consiglio dei ministri ha deciso di portare davanti alla Corte Costituzionale. «Così impedisce lo sviluppo della sanità lombarda e penalizza i nostri e tutti gli specializzandi italiani vietando che esercitino la professione. Nella maggior parte dei Paesi europei un laureato in Medicina abilitato può farlo», tuona l’assessore al Welfare Giulio Gallera.

Nel mirino è finito l’articolo 34 della legge 33 del 2009 (il testo unico delle leggi regionali in materia di sanità), come modificato a dicembre dalla quarta parte della riforma avviata nel 2015, quella sui rapporti tra le università e il servizio sanitario regionale. Secondo il Cdm «alcune norme riguardanti la formazione specialistica dei medici contrastano con i principi fondamentali della legislazione statale in materia di professioni e tutela della salute, in violazione dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione». E «violano inoltre il principio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 e il principio di buon andamento della pubblica amministrazione», articolo 97 della Carta. L’articolo 34 della legge regionale riguarda la «partecipazione dei medici in formazione specialistica alle attività assistenziali», e prevede di tracciarla «in relazione al progressivo grado di autonomia operativa e decisionale» su tre livelli: attività di appoggio (lo specializzando assiste il medico «strutturato»); di collaborazione («svolge direttamente procedure sotto il diretto controllo di personale strutturato») e infine «autonoma», «quando svolge specifici compiti che gli sono stati affidati, fermo restando che il tutor deve essere sempre disponibile per la consultazione e l’eventuale tempestivo intervento». Queste attività, la cui assunzione «è oggetto di indirizzo e valutazione da parte del Consiglio della scuola», «sono contemplate nei piani di attività della struttura nella quale si svolge la formazione». L’introduzione di questa normativa, ricorda Gallera, «è nata da un lavoro corale di Giunta e Consiglio regionale con tutte le università lombarde, che avevano sollecitato l’esigenza di consentire una graduale autonomia degli specializzandi per evitare il passaggio a chirurgo strutturato da un giorno all’altro. Una graduale assunzione di responsabilità, non la comparazione immediata alle funzioni di uno strutturato». Per la Regione la mossa del Governo «rimarca la necessità di una maggiore autonomia in materia di salute per la nostra Regione. Abbiamo inserito nel testo dell’intesa che Governo e Regione dovranno firmare la richiesta per la determinazione del numero di posti dei corsi di formazione per i medici di medicina generale e di accesso alle scuole di specializzazione, compresa la programmazione delle borse di studio per gli specializzandi e la loro integrazione operativa con il sistema aziendale». Il candidato governatore del centrodestra, Attilio Fontana, accusa «l’esecutivo targato Pd» di «compromettere un’eccellenza, la sanità lombarda, di cui si avvalgono numerosi pazienti da altre regioni».

Massimo Franchi – Scuola, scontro sugli aumenti: firmano solo i confederali

Articolo pubblicato sabato 10 febbraio 2018 da il manifesto.

Scuola, scontro sugli aumenti: firmano solo i confederali

Superata la Buona Scuola. Il primo contratto dopo 9 anni di blocco segna un aumento lordo fra i gli 80 e i 110 euro. Ma Gilda, Snals e Cobas contestano la “mancia elettorale”

Nove anni di attesa per avere un nuovo contratto. Nove anni nei quali i tagli della Gelmini e poi la Buona Scuola renziana hanno ridotto gli insegnanti italiani in poveri lavoratori in balia dei dirigenti trascinando il loro ruolo e riconoscimento sociale sempre più in basso. Quello firmato ieri mattina alle 7 e 15 dopo una improvvisa accelerazione non è, né poteva essere risolutivo di tutti i problemi trascinatisi in un decennio. La mancata firma di Snals e Gilda e i molti mal di pancia all’interno dei confederali delineano però il concreto rischio di essere arrivati ad «un contratto elettorale».

IN REALTÀ POCHI MINUTI DOPO la firma con l’Aran dell’accordo che, oltre alla scuola, ridà un contratto a 1,2 milioni di lavoratori nelle università e nella ricerca Cgil, Cisl e Uil avevano fatto uscire una nota trionfale in cui si parlava di «svolta significativa sul terreno delle relazioni sindacali, riportando alla contrattazione materie importanti come la formazione e le risorse destinate alla valorizzazione professionale», con il segretario generale della Flc Cgil Francesco Sinopoli sottolineava «il depotenziamento dei dirigenti scolastici».

MA È SULL’ASPETTO RETRIBUTIVO che i toni erano già più bassi: «Gli aumenti sono in linea con quanto stabilito dalle confederazioni con l’accordo del 30 novembre 2016, per la scuola da un minimo di 80,40 a un massimo di 110,70 euro – scrivono i sindacalisti -. Pienamente salvaguardato per le fasce retributive più basse il bonus fiscale di 80 euro. Nessun aumento di carichi e orari di lavoro, nessun arretramento per quanto riguarda le tutele e i diritti nella parte normativa, nella quale, al contrario, si introducono nuove opportunità di accedere a permessi retribuiti per motivi personali e familiari o previsti da particolari disposizioni di legge».

LE PIÙ CONTENTE SONO le ministre – e candidate Pd -: Marianna Madia, che parla di contratto «giusto e doveroso» e la titolare di viale Trastevere Valeria Fedeli, che ricorda come «avevamo preso un impegno preciso, lo abbiamo mantenuto, riuscendo a garantire aumenti superiori a quelli previsti». Il riferimento è ai 200 milioni destinati alla valorizzazione del merito: 70 milioni sono stati destinati a questo scopo (diventeranno 40 a regime).

A DICEMBRE PERÒ le stesse Flc Cgil, Cisl Fsur e Uil Rua avevano richiesto risorse aggiuntive in legge di bilancio per andare oltre all’accordo del novembre 2016. Proprio su questo tema battono i tanti sindacati che non hanno sottoscritto l’accordo. Gilda ritiene i miglioramenti retributivi ottenuti «irrisori» perché «lordi», mentre lo Snals (che fino a ieri era coi confederali) sottolinea anche altri aspetti negativi sulla scuola: «la scarsa considerazione degli organi collegiali, in particolare il collegio dei docenti che non delibera più il Piano di offerta formativa (Pof); la permanenza obbligata nella stessa sede per un triennio che determina la possibilità di trasferimento solo triennale».

ANCOR PIÙ DURO Piero Bernocchi, storico portavoce dei Cobas che parla di «miserabile contratto elettorale» e «ignobile mancetta economica che dimostra l’assoluto disprezzo per docenti ed Ata (il personale tecnico amministrativo, ndr), ritenuti così sottomessi da dover ringraziare persino per un aumento medio netto mensile di 50 euro, dopo che in dieci anni di blocco contrattuale la categoria ha perso almeno il 20 per cento del salario». Bernocchi e l’Usb chiamano anche Snals e Gilda allo sciopero già fissato per venerdì 23 febbraio.

“Ora è chiaro: ha copiato”. Economisti contro la Madia

Articolo di Laura Margottini pubblicato mercoledì 7 febbraio 2018 da il Fatto Quotidiano.

“Ora è chiaro: ha copiato”. Economisti contro la Madia

Protesta dei professori contro l’Imt di Lucca che l’ha assolta perché “così fan tutti”

“La Madia ha copiato, su questo non c’è il minimo dubbio”, dice Roberto Perotti, economista della Bocconi, che aveva inizialmente difeso il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia su Repubblica e lavoce.info all’indomani delle rivelazioni del Fatto Quotidiano in merito al presunto plagio riscontrato nella tesi di dottorato. Quello che l’allora deputata Pd ha conseguito alla Scuola di Alti Studi Imt di Lucca nel 2008. Perotti contesta anche le argomentazioni per salvare la ministra usate nella perizia effettuata sulla tesi, chiesta da Imt ad una società privata per stabilire se di plagio si sia o meno trattato. La Resis di Enrico Bucci, un biologo che risulta essere professore a contratto presso la Temple University (Usa), conferma, con minime differenze, le copiature riscontrate dal Fatto nella tesi, ma salva il ministro sostenendo che in economia è lecito copiare senza virgolettare e citare. “È chiaramente un’assurdità – dice Perotti – da quello che scrive il Fatto, la perizia appare totalmente strampalata, Imt avrebbe dovuto stralciarla e avrebbe dovuto chiedere la perizia a dei pari, cioè a degli economisti, non a chi pare non avere qualifiche accademiche per giudicare un lavoro peraltro non nel proprio campo e che sembra non avere la minima di idea di come si affronti un controllo del genere”. Imt, insomma, per Perotti ha messo “una toppa che è peggio del buco”.

Dello stesso avviso Andrea Ichino, professore di Economia alla European University Institute di Firenze: “Sono indignato dalle affermazioni della perizia. Gli economisti non tollerano affatto le copiature”. Chi cita altri studi deve farlo tra virgolette se usa esattamente le parole del testo citato, oppure, nel caso di un riassunto delle affermazioni altrui, deve essere chiaramente evidente la fonte delle affermazioni, sottolinea Ichino: “Se Madia ha utilizzato materiale di altri studi senza citare esplicitamente le fonti ha commesso un errore grave.”

Dai documenti che il Fatto ha ottenuto grazie al Freedom of Information Act italiano risulta che nel 2007 economisti molto noti, come lo stesso Andrea Ichino, Luigi Zingales (della Chicago Booth) e Alberto Alesina (Harvard) fossero parte del collegio dei docenti di Imt. Assenti giustificati nella seduta dell’8 marzo 2007 dove si approvava il passaggio al terzo anno di dottorato degli studenti, inclusa la Madia. Dai documenti in mano al Fatto risulta che il Collegio docenti sapeva che Madia aveva scritto uno dei tre capitoli della tesi a quattro mani con la collega di dottorato Caterina Giannetti. Un fatto che però non viene dichiarato nella versione finale della tesi del ministro e neanche ai commissari per l’esame di dottorato della Madia. Uno di loro, Davide Fiaschi, economista all’Università di Pisa, ha dichiarato al Fatto in ottobre: “Il co-autoraggio resta un problema: l’originalità di una tesi va valutata in base al numero di co-autori”. Lo certifica anche la perizia della Resis, definendo il capitolo co-autorato, senza dichiararlo, “una deviazione dagli standard accettati per la citazione del proprio lavoro.” Andrea Ichino sottolinea che però lui a Imt ha solo insegnato per un paio d’anni come professore esterno: “Non ho mai fatto parte del collegio docenti stabili e non ricordo di aver ricevuto quel verbale”. Idem Alberto Alesina: “Ho partecipato a qualcosa che mi era stato descritto come un advisory board dal 2005 al 2007, ma non ho mai partecipato ad alcuna riunione. Col senno di poi non avrei mai dovuto farlo e non voglio avere assolutamente nulla a che fare con l’Imt”. Del caso Madia non vuole parlare: “Non sono abbastanza informato.” Il Fatto non è riuscito a mettersi in contatto con Zingales.

La modalità con cui è stata effettuata la perizia è stata approvata da un comitato di saggi composto da Francesco Donato Busnelli (emerito di diritto civile presso la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa) Massimo Egidi (emerito di economia all’Università Luiss di Roma, di cui è stato rettore) e Giovanni Maria Flick (presidente emerito della Corte costituzionale). Il 26 ottobre 2017 certificano che “la relazione (della Resis, ndr) opera un’analisi precisa e puntuale delle criticità presenti nei capitoli della tesi e delle osservazioni critiche contenute negli articoli del Fatto Quotidiano, giungendo a conclusioni rigorose e ben argomentate”. Aggiungono che “si riscontra un alto grado di accuratezza nella ricostruzione dei fatti, di precisione e dettaglio nel considerare i punti critici e un notevole equilibrio nel situare l’operato degli studiosi che lo valutarono nel contesto storico e nell’area disciplinare a cui esso appartiene”. Al Fatto, Flick spiega che non era suo compito valutare il contenuto della perizia: “E’ fatta con serietà e coerenza. Non ho altro da aggiungere.” Dello stesso avviso anche Egidi: “Alcune cose risultano sì copiate, ma si tratta di frasi o dati irrilevanti perché di pubblica conoscenza”. Egidi specifica però di non aver letto la tesi della Madia, ma solo la perizia, e di non essere a conoscenza di un’altra criticità riscontrata dal Fatto, più grave del plagio: la possibile frode scientifica che appare nel terzo capitolo, cioè l’esperimento di economia comportamentale che la Madia dichiara di aver fatto all’Università di Tilburg in Olanda dove però non l’hanno mai vista. Dell’esperimento non esiste alcuna prova documentale neppure nelle carte fornite da Imt al Fatto. “Non ero a conoscenza di questo”, spiega Egidi.