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Al Sud è vietato il Politecnico

Articolo di Domenico Cacopardo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da ItaliaOggi.

Al Sud è vietato il Politecnico

Per legge, non si possono aprire succursali che sono ostacolate dalle pesanti baronie locali

Che la questione autonomia allargata non sia un capriccio politico o non soltanto un passo per la dissoluzione dello Stato unitario, me l’hanno mostrato le numerose e-mail ricevute dopo l’articolo di ieri, nel quale, tra l’altro, evocavo il disastro dell’istituzione delle regioni, l’invenzione dei tecnici democristiani e comunisti per assicurarsi nel 1947 una sorta d’insediamento permanente nella società e nell’architettura costituzionale del nostro Paese. C’è, quindi, un disagio diffuso al quale lo Stato nazionale deve dare qualche risposta, in coerenza con le norme della Costituzione modificate su input del centro-sinistra, con le mani di Franco Bassanini. Cercherò di percorrere una strada più esemplificatrice del passato, facendo parlare i fatti, non i pregiudizi o l’ideologia. Partiamo dagli esami di maturità che definiscono lo stato di preparazione degli studenti che hanno completato gli studi medi superiori (high school). Il ministero della pubblica istruzione comunica che il maggior numero dei 100 e dei 100 e lode si è verificato al Sud, a partire dalla Puglia, regione che detiene il record. Questo dato va confrontato con i punteggi conseguiti nelle prove Invalsi, l’unico metodo stabilizzato internazionale che definisce con una metodologia universalmente (o quasi) accettata, il livello della preparazione degli studenti (e indirettamente la capacità degli insegnanti, che, almeno nel bel Paese pour cause si sono sempre opposti all’applicazione del metodo). Ebbene, per l’Invalsi la situazione è opposta: proprio le regioni del 100 e del 100 e lode sono quelle nelle quali i coefficienti Invalsi sono i più bassi, denunciando soprattutto una grave insufficienza nelle prove di italiano. In Calabria e in Campania il 60% dei ragazzi non ha mostrato le conoscenze minime richieste dal test. Se avete dimestichezza con qualche professore universitario potrete avere diretta conferma del fatto che la preparazione degli studenti provenienti dal Sud è in genere più scarsa di quella di coloro che vengono dal Nord e che ciò si riflette sulla comprensione dei testi di studio e delle lezioni. Tra parentesi, se pensiamo all’atavico gap del Sud e delle isole, prima di decidere interventi finanziari ed economici, occorrerebbe immaginare un intervento organico sulla scuola e sulle università: una strada che comporterebbe qualche decina di anni di cure speciali, ma che è l’unica per far entrare in Europa un pezzo di Italia che, al di là della retorica, ne è rimasta fuori. Soprattutto nelle università: c’è solo una ragione corporativa e un’inaccettabile chiusura mentale e morale, per rifiutare, com’è stato rifiutato, che, per esempio, il Politecnico di Milano aprisse una scuola in Sicilia. Addirittura è la legge che proibisce al Politecnico meneghino, a quello torinese, alla Bocconi e via dicendo, di entrare nell’enclave clientelare e baronale costituita dal sistema universitario di Sud e isole. Se si vuol fare qualcosa, basterebbe un decretino (non uno dei decretoni cui ci ha abituato Conte) di un solo articolo: «È abrogato il divieto ecc. ecc.» Un altro tema caldo che non può essere dimenticato riguarda il livello e la qualità della spesa pubblica. Anni fa, regnante (con difficoltà e l’ostilità di Silvio Berlusconi) al Tesoro quel personaggio spesso sottovalutato, a torto, che si chiama Giulio Tremonti e al Lavoro Maurizio Sacconi, l’unico politico e ministro che avesse studiato la materia, si cercò di porre all’odg del Paese la questione dei costi standard. Detta in parole povere: qualcuno, alla Ragioneria dello Stato aveva scoperto (numeri solo dimostrativi) che l’ago da puntura fornita agli ospedali del Sud e delle isole costava alcuni multipli in più di quanto non costasse al Centro (così così) e al Nord. Insomma, come nella scuola, una sorta di inversione dei dati di base: dove i costi della sanità sono minori, l’efficienza è maggiore (e sappiamo tutti che c’è un biblico correre al Nord del malati del Sud, Napoli compresa); dove i costi sono maggiori, minori i risultati. L’extra-costo concentrato al Sud e isole è il prezzo di corruzione, criminalità e clientelismo. L’approccio, quindi, alle finanziarie, immaginato da Tremonti e Sacconi avrebbe comportato un avvicinamento dei conferimenti al Sud e isole ai costi standard definiti sulla media nazionale dei costi. Chiaro? Ovviamente l’ostilità all’iniziativa ha vinto confinandola ai margini delle manovre finanziarie dello Stato. Allora, dunque, che fare? Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pretendono un’autonomia allargata che non faccia pagare loro il prezzo delle dissipazioni, del clientelismo, della criminalità del Sud e delle isole. Fattori tutti che sono incistati nella politica regionale e comunale e che sono rimuovibili soltanto con tagli degli apporti finanziari. Il punto è che molti dissentono sulla strada intrapresa: un nuovo equilibrio economico e istituzionale a favore del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) può non essere un adeguato incentivo al miglioramento della qualità della spesa nelle altre regioni. Anzi, è possibile che aggravi gli squilibri e accentui le tendenze centrifughe. Tuttavia, la guerra mossa dai 5Stelle (con motivazioni light, niente di serio e approfondito che ci potrebbe e dovrebbe essere), all’ipotesi di autonomia allargata è sospetta: i grillini non sono espressione del Sud e delle isole che vogliono migliorare e accorciare le distanza dal Nord e dall’Europa, ma del Sud e delle isole parassitarie abituate ai sussidi e agli impieghi pubblici (non ai lavori). La partita in corso non vedrà, almeno per ora, una soluzione convincente. E, alla fine risulterà decisiva nella sopravvivenza della formula di governo. Ma solo per tifoserie, non per problemi reali, come quello di cogliere l’occasione per riqualificare la spesa al Sud e nelle isole. Una riqualificazione che provocherebbe una crisi del clientelismo e del mal governo che da quelle parti dominano da oltre un secolo.

Stop a corruzione e clientelismo: ecco il regolamento dell’Università di Padova

Articolo di Nicola Munaro pubblicato giovedì 1 febbraio 2018 da Il Gazzettino ed. Padova.

Stop a corruzione e clientelismo: ecco il regolamento del Bo

Migliorare in efficacia e in efficienza con il faro della buona amministrazione a segnare la rotta: sono i capisaldi delle Linee di indirizzo strategico in tema di Sistema di Controllo Interno, il documento approvato nel Consiglio di Amministrazione dell’Ateneo che ha come compito quello di fornire all’intero corpo del Bo la bussola su come muoversi per evitare episodi di corruzione o clientelismo. O per come segnalarli, se mai se ne venisse a conoscenza.
Un documento che arriva proprio nei giorni in cui il Bo si è trovato, senza colpa, travolto dell’indagine per peculato sul ginecologo Pietro Litta, accusato da una trasmissione tv, Petrolio, e dalla Procura di aver chiesto a una finta paziente, la giornalista televisiva, una tangente da 2 mila euro per evitare le liste d’attesa.
Di fatto si tratta di un sistema di controllo interno che ha al proprio vertice lo stesso Consiglio di Amministrazione. Il coordinamento delle attività è invece affidato ad un Comitato Controllo e Audit composto dal rettore, dal direttore generale e da due componenti del Cda individuati dal Consiglio stesso tra i suoi membri esterni ai ruoli universitari. L’obiettivo è quello di assicurare la totale pluralità di prospettive e garantire l’equilibrio tra professionalità interne ed esterne all’Ateneo. All’interno del comitato, una sedia l’avrà anche il Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza.
Ma come funziona? Il Comitato fissa le priorità sulla scorta delle informazione inserite dal Cda nel Piano triennale per la Prevenzione della Corruzione, e una volta portate a termine le indagini, ne riferisce in Cda. Tra i compiti del Comitato, quello di individuare le situazioni che possano trasformarsi in sacche di corruzione, soprattutto per quanto riguarda i campi (già segnalati dall’Anac) della Ricerca e della valutazione; l’organizzazione della Didattica; il reclutamento di docenti; l’imparzialità dei docenti e del personale universitario; gli enti partecipati e le attività esternalizzate delle università. Ma anche verificare il perfetto funzionamento del Whistleblowing dell’Ateneo, ovvero la possibilità per i dipendenti dell’Università di denunciare reati senza venire coinvolti o puniti con demansionamenti, ripercussioni o riduzioni dello stipendio.
Nello statuto si legge poi che il Comitato, come caldeggiato dall’Anac, promuove la trasparenza e funge da garante della stessa Autorità Anticorruzione; valuta l’adeguatezza delle procedure che sovraintendono alla tutela delle risorse e del patrimonio dell’Università; promuove un miglioramento continuo dei meccanismi e del sistema di controllo coniugandoli all’efficienza e all’efficacia amministrativa; propone l’adozione di nuove procedure e di rimedi nel caso ci fossero situazioni di non conformità a regolamenti interni o delle leggi; coordina il sistema di procedure orientate a ridurre i principali rischi di compliance e corruzione e a prevenire fenomeni corruttivi.

Nicola Gardini (Università di Oxford): «Il peggior crimine dei baroni: rubare il futuro ai giovani»

Articolo di Roberto Da Rin pubblicato giovedì 28 settembre 2017 da Il Sole 24 Ore.

«Il peggior crimine dei baroni: rubare il futuro ai giovani»

Intervista a Nicola Gardini, docente di letteratura italiana a Oxford. «È un sistema in cui i dissidenti stanno a guardare e spacciano l’ignavia per resistenza»

È una storia che sembra una favola. Le clientele, il nepotismo e le corruttele generano aspettative frustrate e meriti negati. Si sa. Ma questa è una vicenda a lieto fine. Nicola Gardini, docente di Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford, è uno scrittore di successo, latinista e comparatista, i suoi ultimi libri “Viva il Latino” e “Con Ovidio”, editi da Garzanti. Ecco, questa è la sua vita 2.0. Ma quella 1.0 è stata tutta diversa. Vinse un concorso da ricercatore all’Università di Palermo, nel 2000, a 35 anni. In qualità di “esterno” (arrivava da Milano), battitore libero e fuori cordata subì un mobbing che lo spinse a cercare altre strade, all’estero. Sette anni dopo atterra in Inghilterra un martedì di novembre, il mercoledì tiene una lecture su Gaspara Stampa, poetessa del ‘500. Mezz’ora di lecture e mezz’ora di colloquio. Il giovedì mattina, in attesa del volo per Milano, riceve una telefonata, quella del presidente della Commissione. «Good morning prof. Gardini, abbiamo deciso all’unanimità di offrire a Lei il posto vacante. Accetta? Ha bisogno di tempo per riflettere?». La risposta: «No, I don’t need any time, I accept». Accettato. Due mesi dopo il prof. Gardini è salito in cattedra a Oxford.

Ne “I baroni”, un libro edito da Feltrinelli nel 2009, Gardini racconta la sua fuga dall’università italiana, gli ostacoli, le barricate, i muri eretti a difesa di un sistema anti meritocratico che lo ha estromesso in quanto «non raccomandato né tirapiedi». E l’approdo in una delle Università più prestigiose del mondo.

Professor Gardini, leggendo le cronache di concorsopoli, Le è venuta voglia di dire, «io, 8 anni fa, ve lo avevo detto, scritto e documentato»?

Non voglio rivangare una storia ormai lontana, mi meraviglia che ci si meravigli. Il sistema accademico italiano è clientelare, nepotistico e familistico. L’Università italiana è un luogo di potere e le vicende di queste settimane confermano che la situazione, negli ultimi 15 anni, non è affatto migliorata. Prepotenza e cinismo come cardini.

La sua è una storia finita bene, ma migliaia di ricercatori capaci rimangono fuori dal sistema. Cosa ricorda di quel periodo all’Università di Palermo?

Ricordo di aver patito una completa emarginazione, forme persecutorie, mobbing e strade sbarrate a qualsiasi trasferimento. Sopra di me, baroni incompetenti con completo arbitrio di giudicanti. La baronia è una lingua, i baroni sono tutti coloro che la parlano, ci sono i baroni forti e quelli deboli. Questi ultimi, anche se non partecipano alle decisioni finali e sono fatti solo per obbedire e illudersi, sono importantissimi. Senza la loro cooperazione, i primi non esisterebbero.

C’è una “dissidenza” o il sistema espelle chi non è organico?

In sette anni di servizio a Palermo non ho trovato un solo dissidente che avesse il coraggio o la voglia di esprimere il suo dissenso apertamente. I dissidenti sono numerosi, ma non contano, perché stanno a guardare. Provano schifo ma non si spostano. Sono i primi a gridare allo scandalo, ma alla fine accettano di buon grado che le cose restino così. Tra i conniventi hanno il primato della viltà, perché spacciano il loro opportunismo e la loro ignavia per resistenza.

Professore, la fuga all’estero è l’unica exit strategy?

Speriamo di no, che le cose migliorino. Perché i baroni sono colpevoli di fronte a tutti gli italiani. Preoccupati di promuovere solo le loro cause personali, incuranti dello sviluppo del sapere e delle coscienze. I baroni provocano ogni giorno, nella più arrogante certezza dell’impunità, danni incalcolabili al patrimonio umano e intellettuale dell’intero Paese.

Parole durissime.

I baroni operano contro la cultura e contro la libertà. Sono colpevoli di un crimine tremendo: rubano il futuro.