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Al Sud è vietato il Politecnico

Articolo di Domenico Cacopardo pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da ItaliaOggi.

Al Sud è vietato il Politecnico

Per legge, non si possono aprire succursali che sono ostacolate dalle pesanti baronie locali

Che la questione autonomia allargata non sia un capriccio politico o non soltanto un passo per la dissoluzione dello Stato unitario, me l’hanno mostrato le numerose e-mail ricevute dopo l’articolo di ieri, nel quale, tra l’altro, evocavo il disastro dell’istituzione delle regioni, l’invenzione dei tecnici democristiani e comunisti per assicurarsi nel 1947 una sorta d’insediamento permanente nella società e nell’architettura costituzionale del nostro Paese. C’è, quindi, un disagio diffuso al quale lo Stato nazionale deve dare qualche risposta, in coerenza con le norme della Costituzione modificate su input del centro-sinistra, con le mani di Franco Bassanini. Cercherò di percorrere una strada più esemplificatrice del passato, facendo parlare i fatti, non i pregiudizi o l’ideologia. Partiamo dagli esami di maturità che definiscono lo stato di preparazione degli studenti che hanno completato gli studi medi superiori (high school). Il ministero della pubblica istruzione comunica che il maggior numero dei 100 e dei 100 e lode si è verificato al Sud, a partire dalla Puglia, regione che detiene il record. Questo dato va confrontato con i punteggi conseguiti nelle prove Invalsi, l’unico metodo stabilizzato internazionale che definisce con una metodologia universalmente (o quasi) accettata, il livello della preparazione degli studenti (e indirettamente la capacità degli insegnanti, che, almeno nel bel Paese pour cause si sono sempre opposti all’applicazione del metodo). Ebbene, per l’Invalsi la situazione è opposta: proprio le regioni del 100 e del 100 e lode sono quelle nelle quali i coefficienti Invalsi sono i più bassi, denunciando soprattutto una grave insufficienza nelle prove di italiano. In Calabria e in Campania il 60% dei ragazzi non ha mostrato le conoscenze minime richieste dal test. Se avete dimestichezza con qualche professore universitario potrete avere diretta conferma del fatto che la preparazione degli studenti provenienti dal Sud è in genere più scarsa di quella di coloro che vengono dal Nord e che ciò si riflette sulla comprensione dei testi di studio e delle lezioni. Tra parentesi, se pensiamo all’atavico gap del Sud e delle isole, prima di decidere interventi finanziari ed economici, occorrerebbe immaginare un intervento organico sulla scuola e sulle università: una strada che comporterebbe qualche decina di anni di cure speciali, ma che è l’unica per far entrare in Europa un pezzo di Italia che, al di là della retorica, ne è rimasta fuori. Soprattutto nelle università: c’è solo una ragione corporativa e un’inaccettabile chiusura mentale e morale, per rifiutare, com’è stato rifiutato, che, per esempio, il Politecnico di Milano aprisse una scuola in Sicilia. Addirittura è la legge che proibisce al Politecnico meneghino, a quello torinese, alla Bocconi e via dicendo, di entrare nell’enclave clientelare e baronale costituita dal sistema universitario di Sud e isole. Se si vuol fare qualcosa, basterebbe un decretino (non uno dei decretoni cui ci ha abituato Conte) di un solo articolo: «È abrogato il divieto ecc. ecc.» Un altro tema caldo che non può essere dimenticato riguarda il livello e la qualità della spesa pubblica. Anni fa, regnante (con difficoltà e l’ostilità di Silvio Berlusconi) al Tesoro quel personaggio spesso sottovalutato, a torto, che si chiama Giulio Tremonti e al Lavoro Maurizio Sacconi, l’unico politico e ministro che avesse studiato la materia, si cercò di porre all’odg del Paese la questione dei costi standard. Detta in parole povere: qualcuno, alla Ragioneria dello Stato aveva scoperto (numeri solo dimostrativi) che l’ago da puntura fornita agli ospedali del Sud e delle isole costava alcuni multipli in più di quanto non costasse al Centro (così così) e al Nord. Insomma, come nella scuola, una sorta di inversione dei dati di base: dove i costi della sanità sono minori, l’efficienza è maggiore (e sappiamo tutti che c’è un biblico correre al Nord del malati del Sud, Napoli compresa); dove i costi sono maggiori, minori i risultati. L’extra-costo concentrato al Sud e isole è il prezzo di corruzione, criminalità e clientelismo. L’approccio, quindi, alle finanziarie, immaginato da Tremonti e Sacconi avrebbe comportato un avvicinamento dei conferimenti al Sud e isole ai costi standard definiti sulla media nazionale dei costi. Chiaro? Ovviamente l’ostilità all’iniziativa ha vinto confinandola ai margini delle manovre finanziarie dello Stato. Allora, dunque, che fare? Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pretendono un’autonomia allargata che non faccia pagare loro il prezzo delle dissipazioni, del clientelismo, della criminalità del Sud e delle isole. Fattori tutti che sono incistati nella politica regionale e comunale e che sono rimuovibili soltanto con tagli degli apporti finanziari. Il punto è che molti dissentono sulla strada intrapresa: un nuovo equilibrio economico e istituzionale a favore del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) può non essere un adeguato incentivo al miglioramento della qualità della spesa nelle altre regioni. Anzi, è possibile che aggravi gli squilibri e accentui le tendenze centrifughe. Tuttavia, la guerra mossa dai 5Stelle (con motivazioni light, niente di serio e approfondito che ci potrebbe e dovrebbe essere), all’ipotesi di autonomia allargata è sospetta: i grillini non sono espressione del Sud e delle isole che vogliono migliorare e accorciare le distanza dal Nord e dall’Europa, ma del Sud e delle isole parassitarie abituate ai sussidi e agli impieghi pubblici (non ai lavori). La partita in corso non vedrà, almeno per ora, una soluzione convincente. E, alla fine risulterà decisiva nella sopravvivenza della formula di governo. Ma solo per tifoserie, non per problemi reali, come quello di cogliere l’occasione per riqualificare la spesa al Sud e nelle isole. Una riqualificazione che provocherebbe una crisi del clientelismo e del mal governo che da quelle parti dominano da oltre un secolo.

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Articoli di Ilaria Venturi e Corrado Zunino pubblicati lunedì 26 febbraio 2018 da la Repubblica.

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Sul grande “no” al referendum del 2016 la scuola ha lasciato le sue tracce. Molti docenti si sono vendicati lì della Legge 107, la Buona scuola appunto, subita a colpi di fiducia. E hanno innescato un corto circuito nel governo Renzi che si è ripercosso sull’attuale esecutivo nonostante gli aggiustamenti della ministra Fedeli: abbiamo investito 4 miliardi nell’istruzione, è stato il ragionamento della maggioranza, assunto come non si faceva da anni, fatto ripartire i concorsi, svuotato le graduatorie eppure molti professori ci contestano. Forse perché, come racconta Gaetano da Bologna, in aula restano i problemi di sempre. Nella primavera 2015 si è registrato il più grande sciopero del mondo della scuola e anche il recente rinnovo del contratto è stato motivo di polemiche. Sull’università nelle ultime due stagioni sono tornati i finanziamenti. Ma l’impoverimento degli atenei post-Gelmini (i docenti sono calati del 20% tra il 2008 e il 2013) e la precarizzazione dei ricercatori, vedi Alessandra da Bari, sono diventati ragione per un inedito sciopero dei prof d’università. In questo quadro, ecco le proposte dei partiti per il 4 marzo.

“Stipendi bassi e classi affollate nessuno ci ascolta”

Delusi nonostante il nuovo contratto. Quanti nodi irrisolti per chi sta in aula

Gaetano Passarelli, 49 anni, originario di Potenza, due figli, insegna a Bologna in un istituto tecnico. Il suo percorso è emblematico: supplenze subito dopo il diploma, la laurea e il dottorato di ricerca in Ingegneria elettrotecnica, la doppia abilitazione (docente di laboratorio e insegnante di fisica), dieci anni di precariato prima di ottenere la cattedra di ruolo. Ha quasi trent’anni di anzianità e uno stipendio di 1.580 euro, «più alto della media perché insegno da tanto». «Premetto: stare a scuola è un’avventura meravigliosa. Ma rimaniamo pagati poco rispetto ai colleghi europei, nonostante il recente aumento. E il nostro riconoscimento sociale è sceso a picco, con classi sempre più difficili da gestire. E poi ogni governo cambia le regole, dalla Maturità al reclutamento, senza ascoltare chi vive nella scuola. Pesantissima è la situazione dei precari. La collega dell’aula accanto, supplente, è considerata dagli alunni uguale a me: ma ha meno diritti. Mi aspetto stabilità per lei, stipendi adeguati per tutti. Vorrei insegnare in classi meno numerose, con più strumenti a disposizione: formazione, supporto di pedagogisti e psicologi, aiuti per far crescere professionalmente tutti gli insegnanti».

Partito Democratico

Assunzioni e nuovo contratto, ora più maestri e tempo pieno

Quattro miliardi investiti sulla scuola, 10 nell’edilizia. L’assunzione in tre anni di 132mila docenti, 80 mila con la Buona scuola. Ogni istituto ne ha avuti in media sette in più per potenziare la didattica. E in busta paga? Il contratto bloccato da 10 anni è stato firmato in extremis (con scadenza a fine anno) dalla ministra Fedeli: 96 euro lordi mensili in media di aumento da marzo. Confermati il bonus per i prof migliori (che passa da 200 a 130 milioni nel 2018, il resto torna nello stipendio di tutti) e la card di 500 euro. Infine concorsi nel 2018 per stabilizzare i precari. Non è una lista di impegni elettorali: il Pd punta sulle cose fatte con la Legge 107 per dare risposta agli insegnanti. Sulla mobilità Renzi fa autocritica: «L’algoritmo per i docenti del Sud non ha funzionato come avremmo voluto». Obiettivi? La crescita professionale degli insegnanti, più maestri nelle scuole per combattere la povertà educativa, meno burocrazia e più tempo pieno.

Liberi e Uguali

Stabilizzare tutti i precari, bonus merito da abolire

Gli insegnanti? «Eroi del nostro tempo», premette Leu. L’obiettivo principale è smantellare la riforma della Buona scuola targata Pd. Da qui parte il programma. Grasso ricorda che ci sono ancora 83mila precari. Che fare? «Stabilizzare tutti attraverso un piano pluriennale». E ancora: adeguare gli stipendi che, nonostante il rinnovo del contratto, «rimangono tra i più bassi in Europa»; cancellare il bonus- merito; offrire formazione «continua e di qualità». Nel programma non vengono indicate le risorse per attuare le proposte rivolte ai docenti. Mano tesa ai trasferiti con le immissioni in ruolo attuate nel 2016: «Occorre dare risposta alle vittime di un algoritmo impazzito». La proposta è di un percorso partecipato per “un’altra scuola” che contempli la gratuità degli studi, l’aumento del tempo pieno e l’estensione dell’obbligo scolastico dall’ultimo anno della materna (che si vuole per il 100% dei bimbi in età) all’ultimo delle superiori.

Movimento 5 Stelle

Basta chiamate dirette e stipendi a livello europeo

Per la scuola (e università) il M5S promette nel programma uno stanziamento aggiuntivo di 15 miliardi (senza dire dove prenderli). Di Maio lo ha spiegato a parte: «Eliminando gli sprechi, rilanciando il piano Cottarelli e incentivando il gettito fiscale». L’attacco è alla Legge 107: da abrogare. Il capitolo dedicato al personale accontenta tutti: insegnanti già in cattedra, supplenti, laureati e con il diploma magistrale. «Censire i precari», l’indicazione. Tra le promesse, un piano di assunzioni in base al fabbisogno delle scuole; stipendi adeguati alla media europea con abolizione della card e del bonus premiale (da restituire a tutti in busta paga); l’eliminazione della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi; il monitoraggio del percorso introdotto dal governo (e votato dal M5S) per l’accesso al ruolo: concorso, tre anni di formazione, tirocinio e supplenze prima dell’assunzione. Sulle scuole private: via i fondi, non alle materne.

Coalizione di Centro-Destra

Neoassunti su base regionale, più poteri ai presidi

Nel triennio 2009-2011 la Tremonti-Gelmini ha tagliato 8 miliardi di euro alla scuola: 87.400 cattedre e 44.500 posti per il personale Ata (amministrativi e bidelli) perduti con il centrodestra al governo. Ora il programma sulla scuola sta in una pagina e pochi punti che partono dalla «libertà di scelta delle famiglie nell’offerta educativa». Dunque fondi alle private. E poi abolizione delle “storture” della Buona scuola (non si precisa quali). Salvini invece twitta: «Sarà una delle prime leggi che cambieremo». E così Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: «Legge da asfaltare». Rispetto agli insegnanti la Lega propone una vecchia idea dei tempi di Bossi: il federalismo scolastico, con stipendi dei docenti legati a quelli dei funzionari regionali. I neoassunti saranno assegnati a una Regione, spiega Elena Centemero (Fi) che aggiunge: più poteri ai presidi nella chiamata dei docenti.

“Precaria in facoltà da dodici anni datemi un futuro”

La trafila infinita di chi aspira a entrare. L’incubo di tornare a casa a fine contratto

Alessandra Operamolla ha 40 anni ed è una chimica con un buon curriculum (un brevetto depositato) e dodici anni di precariato. Si è laureata all’Università di Bari, ha preso il dottorato di ricerca e per otto stagioni ha infilato una litania di collaborazioni, assegni di ricerca e contratti al Dipartimento di chimica e poi a Farmacia. «Per un periodo sono rimasta disoccupata, otto mesi senza reddito. Non esisteva ancora la Dis.coll., l’indennità mensile, e per rifinanziarmi sono andata a cercare una borsa di studio in Austria». La continua ricerca di denaro toglie tempo alla ricerca scientifica. «Adesso lavoro da sola a un progetto sulla cellulosa. Credo che tutti, a partire dai partiti, dovrebbero considerare i ricercatori come normali lavoratori, non sognatori che devono fare la fame per inseguire la loro passione. Abbiamo bisogno di tranquillità, e di poter progettare. Tra dieci mesi finisce il mio contratto di Tipo A, 1.800 euro netti al mese: li paga la Regione Puglia e per ora non ci sono fondi per un rinnovo di altri due anni. In Puglia siamo in 170 in questa situazione. Al prossimo ministro? Chiedo solo di aumentare i finanziamenti per la ricerca».

Partito Democratico

Altri diecimila ricercatori nei prossimi cinque anni

Gli ultimi due governi di centrosinistra nelle Leggi di bilancio ‘16 e ‘17 hanno iniziato a reinvestire sull’università. Con la Finanziaria 2017 sono stati reclutati 1.300 nuovi ricercatori (altri 300 negli enti di ricerca). Il Pd ha sostenuto il premio per i dipartimenti di eccellenza e le chiamate dall’estero per i docenti, ma sono state fermate le Cattedre Natta (500 assunzioni dirette degli atenei). Il Fondo Ffo nel 2017 è passato da 6,957 miliardi a 7,011. Niente tasse per gli studenti con redditi familiari fino a 13.000 euro. Rivalutate le borse di dottorato e cresciute le borse di studio: molti studenti idonei, però, ancora non la ricevono. Sono stati sbloccati gli scatti dei docenti. Il programma Pd prevede: 10mila ricercatori di Tipo B in più nei prossimi 5 anni, soppressione dei punti organico e un’Agenzia nazionale della ricerca. Replica a Napoli dello Human Technopole di Milano e piano per l’edilizia.

Liberi e Uguali

Via le tasse per gli studenti e aumentare le borse di studio

Per le università italiane Liberi e uguali chiede “l’obiettivo della gratuità”: abolizione delle tasse per gli studenti e potenziamento del diritto allo studio (in Italia solo il 10 per cento degli universitari hanno borse di studio). Leu chiede di far crescere il finanziamento ordinario del sistema negoziando con l’Unione europea un aumento di Pil “fuori dal patto di stabilità”: in cinque anni 20.000 nuovi ricercatori negli atenei e 10.000 negli Enti di ricerca. Ridefinire dalle fondamenta l’Agenzia di valutazione Anvur: “Autonomo dalla politica e con personalità inattaccabili”. Sulla valutazione si chiede una Conferenza nazionale: “Basta con la logica di competizione tra gli atenei”. Superare il numero chiuso nei corsi di laurea e “no” alla scadenza dell’Abilitazione scientifica. “Il 3+2 si può rivedere”. Bisogna tornare al ministero dell’Università e della ricerca (Murst) e nuovi fondi per la ricerca di base, anche umanistica.

Movimento 5 Stelle

Risorse maggiori per gli atenei con criteri diversi da oggi

Il programma per università e ricerca del M5S è il più esteso e articolato. Il Movimento intende aumentare la quota del Fondo ordinario, ma non indica di quanto. La “quota premiale” deve diventare aggiuntiva e non “a sottrazione”. Nel riparto delle risorse per ogni ateneo si dovrà tener conto del successo dei laureati nel mondo, del reclutamento di giovani ricercatori, della diminuzione dei docenti di ruolo improduttivi. Si prevedono “specifici finanziamenti” per gli atenei in zone depresse. Il programma M5S vuole reintrodurre il ricercatore a tempo indeterminato, obbligarlo ad attività didattiche e sopprimere i ricercatori di Tipo A e Tipo B e gli assegnisti di ricerca. Viene ipotizzata un’unica figura di docente (oggi sono due: associati e ordinari) e si indica la necessità di limitare i ruoli extra-accademici dei professori verificando lo svolgimento dei compiti didattici.

Coalizione di Centro-Destra

Ministero solo per l’università e azzeramento del precariato

Il Decreto Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione dell’ultimo governo di centrodestra del Paese, ha tagliato un miliardo e 441 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università, tra il 2009 e il 2013. La Legge Gelmini, approvata nel dicembre 2010, ha limitato gli incarichi di rettore (sei anni non rinnovabili), soppresso diversi corsi di laurea (alcuni pleonastici), avviato il taglio del 20 per cento delle cattedre universitarie e reso strutturale il ricercatore precario (assegnista rinnovato ogni anno e ricercatore di “Tipo B”, tre anni non rinnovabile). Oggi nei dieci punti del programma del centrodestra al punto 7 si legge: “Azzeramento progressivo del precariato”, quindi: “Rilancio dell’università per farla tornare piattaforma primaria della formazione”. Renato Brunetta ha dichiarato che università e ricerca devono avere un ministero separato dalla scuola.

Tasse universitarie, ricorso degli studenti contro la Statale di Milano: “Il bilancio di previsione è fuorilegge”

Articolo di Luisiana Gaita pubblicato martedì 20 febbraio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Tasse universitarie, ricorso degli studenti contro la Statale di Milano: “Il bilancio di previsione è fuorilegge”

L’ateneo nel 2018 prevede di incassare dagli studenti 87,5 milioni e riceverne 267 dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario. “La legge però – spiega Carlo Dovico, coordinatore dell’Udu Milano – stabilisce che il rapporto tra il gettito complessivo della contribuzione studentesca e il Ffo non possa superare il 20%”. E c’è il precedente di Pavia, la cui università ha dovuto risarcire gli iscritti

“Agli studenti dell’università Statale di Milano vengono richiesti oltre 34,1 milioni in più rispetto al tetto imposto dalla legge”. Questa l’accusa dell’Unione degli Universitari che ha appena depositato un ricorso al Tar contro le tasse definite “fuorilegge” dell’ateneo milanese. Così come aveva fatto a Pavia, dove due anni fa il Consiglio di Stato ha condannato l’Università a rimborsare agli studenti 1,7 milioni di euro di tasse universitarie più gli interessi. Secondo le cifre inserite nel bilancio di previsione del 2018, la Statale prevede di incassare dagli studenti 87,5 milioni di euro. Lo stesso bilancio riporta che, per il 2018, l’ateneo prevede di ricevere 267 milioni di euro dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). “La legge però – spiega Carlo Dovico, coordinatore dell’Udu Milano – stabilisce che il rapporto tra il gettito complessivo della contribuzione studentesca e il Ffo non possa superare il 20%, mentre nell’ateneo milanese la percentuale è addirittura del 32,8%”. Il limite è fissato nel decreto del Presidente della Repubblica 306/1997 ed è stato poi confermato proprio dal Consiglio di Stato. Il ricorso al Tar per la Statale è stato depositato con l’obiettivo di restituire questi soldi agli studenti. Ma non basta. “Crediamo sia fondamentale che la prossima legislatura – spiega Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Udu – metta in atto una progressiva abolizione delle tasse universitarie, iniziando a toglierle a chi si trova in condizioni economiche più svantaggiate”.

GLI ATENEI FUORILEGGE – Quella delle tasse “fuorilegge” è una situazione che non riguarda solo la statale di Milano. I dati, però, sono fermi al 2011, quando 36 atenei pubblici su 61 totali, secondo i calcoli dei propri bilanci preventivi, sforavano quel limite con tasse medie di oltre i mille euro. Tanto che anche il Codacons ha lanciato un’azione risarcitoria sul proprio sito, pubblicando l’elenco degli atenei coinvolti, i cui studenti potrebbero avere diritto ad un rimborso. Nell’elenco, oltre all’Università di Pavia, l’Università degli Studi Insubria Varese-Como, quelle di BolognaBergamo, Statale, Bicocca e Politecnico di Milano, la Ca’ Foscari di Venezia, l’Università Iuav di Venezia, gli atenei di PadovaModena, Reggio EmiliaTorino, Verona e Ferrara. Cosa accade ora? “Stiamo aggiornando i dati nazionali in merito, per capire quanti atenei ancora superano quel 20%”, dicono dall’Udu.

UN PO’ DI DATI SULLE TASSE – Come già evidenziato nel rapporto sulla tassazione universitaria ‘Dieci anni sulle nostre spalle’, però, i dati sulle tasse sono significativi. Nell’anno accademico 2015/2016, a fronte di una tassa media nazionale di 1.250 euro e di 1.500 euro al Nord, l’Università Statale di Milano ha richiesto una tassa media di 1.640 euro, risultando tra le dieci più costose in Italia. “La nostra inchiesta – sottolineano gli studenti – dimostrava come le tasse fossero costantemente cresciute negli ultimi 10 anni, con impennate molto brusche successivamente ai tagli della Legge 133/2008 e della Legge 240/2010, dell’accoppiata Tremonti-Gelmini”. Il sottofinanziamento universitario consolidato con quelle due leggi è stato fatto pesare in prevalenza direttamente sulle spalle degli studenti, che in tutta Italia si sono trovati a pagare tasse schizzate alle stelle in pochissimo tempo. “Il gettito complessivo della contribuzione studentesca in Italia delle sole università statali si aggira attorno a 1 miliardo e 600 milioni di euro. La sola Università Statale di Milano – ricorda l’Udu – dal 2011 in poi ha prelevato dagli studenti, ogni anno, non meno di 90 milioni di euro”.

I PARADOSSI – Secondo l’Unione degli Universitari la situazione alla Statale di Milano è ancora più paradossale se si considera che l’anno scorso è stato riformato il sistema di contribuzione studentesca: “È stata mantenuta la discriminazione della tassazione studentesca per tre macro aree a cui sono afferenti i corsi di laurea”. In particolare è stata introdotta una no tax area fino a 14mila euro di Isee che può arrivare fino a 23mila euro nel caso in cui si abbiano anche una serie di requisiti di merito. “Si mantiene inoltre – aggiunge l’Udu – una maggiorazione per gli studenti fuori corso e per gli studenti silenti”.

IL LIMITE AL GETTITO – Tornando al limite stabilito dalla legge per il gettito totale delle tasse recepito da ogni ateneo, il principio di non superare il 20% di quanto ricevuto dallo Stato come Fondo di finanziamento ordinario è stato confermato dalle tre sentenze del Tar della Lombardia sui ricorsi presentati dall’Udu ai bilanci dell’Università di Pavia per gli anni 2010, 2011 e 2012 e, successivamente confermato anche dal Consiglio di Stato per tutti e tre gli anni. “Quelle sentenze – sottolineano gli studenti – confermavano un altro punto sostanziale, ossia che gli atenei non possono escludere dal conteggio del 20% la contribuzione degli studenti fuori corso”. Il governo Monti aveva modificato la normativa dopo il ricorso proposto nel 2010. Con il decreto Legge 95/2012, convertito con la Legge 135 del 7 agosto 2012, era stata infatti modificata la normativa sul 20%, introducendo la possibilità di escludere dal conteggio le tasse degli studenti fuori corso, secondo criteri da definirsi con un successivo decreto ministeriale. “Questo decreto – spiega l’Udu – non è mai uscito. Con la Legge di bilancio 2018, inoltre, è stata inserita una ulteriore tipologia di studenti che potrebbero essere estrapolati dal conteggio, ossia gli studenti internazionali. Riteniamo entrambe queste distinzioni fortemente discriminatorie e sbagliate e pensiamo possano sussistere anche elementi tali da renderle illegittime perché in contrasto con la nostra Costituzione”. Secondo Marchetti è inaccettabile “che il sottofinanziamento dell’università pubblica sia scaricato sulle spalle degli studenti, e che gli atenei decidano persino di ignorare quei limitati ed irrisori argini posti dalla legge a tutela degli studenti. È offensivo – conclude – verso gli studenti dichiarare, attraverso il bilancio di previsione, che l’ateneo non ha intenzione di rispettare la legge”.

Alessandra Ciattini (Università La Sapienza di Roma) – La campagna elettorale e il problema dell’Università

Articolo pubblicato sabato 27 gennaio 2018 dal sito di la Città futura.

La campagna elettorale e il problema dell’Università

È tempo di campagna elettorale e di proposte demagogiche su università e ricerca da parte di coloro che sono responsabili del processo di loro dissoluzione

Persino un intellettuale, come Massimo Cacciari, in sintonia sostanziale con questo sistema economico-sociale ed ospite costante delle più svariate trasmissioni televisive per il suo sostanziale “conformismo democratico” [1], si scandalizza dell’attuale campagna elettorale, che giudica non solo fondata su antiche promesse mai realizzate e ripetute come “chiacchera”, ma anche – fatto ancor più grave – su una totale mancanza del principio di realtà. Egli considera tale situazione frutto della grave crisi dei partiti e della classe politica, iniziata negli anni ’90 con Tangentopoli, che ha ridotto questi ultimi in apparati più o meno potenti di propaganda per il sostegno a un leader “carismatico”, si fa per dire. Ma credo si possa affermare anche qualcosa di più: tale crisi delle organizzazioni politiche è dovuta al fatto che esse sono sostanzialmente supine all’esistente e non solo perché fanno parte di consorterie interessate esclusivamente alla gestione del potere, ma anche perché, nonostante la parola “cambiamento” sia tra le più ripetute, sono fortemente ostili ad un mutamento reale, che chiamerebbe in causa non solo i twitter di Renzi, le dichiarazioni di Fontana sulla razza bianca, ma i reali rapporti di potere a livello internazionale. Insomma, gli attuali partiti sono privi di una visione totalizzante della società contemporanea, se non quella dell’identificazione con l’esistente, magari con qualche piccolo ritocco. Muovendosi in questa medesima direzione, Cacciari si limita a restare sul livello più visibile e quotidiano, auspicando che si affacci un leader (per es. Renzi), che ci dica come stanno effettivamente le cose e che, in questo contesto di analisi realistica, ci comunichi quello che sarà in grado di fare; ossia, farci ascoltare con qualche piccola variante la stessa musica che stanno suonando dall’inizio della crisi, la cui natura profonda e sistemica naturalmente viene occultata.

Se estendiamo il nostro sguardo ad altri temi della campagna elettorale, vedremo che un altro costante tratto comune è rappresentato da quelli che dovrebbero essere i caratteri della classe politica, che di fatto si autocandida a dirigere il paese nei prossimi anni, limitandosi a rappresentare se stessa: onesta, competente, affidabile. Anche in questo caso abbiamo uno spostamento dalla sfera politica alla dimensione personale: il problema non è più rappresentato dai diversi progetti politici, nei quali si esprimono gli interessi conflittuali delle diverse classi, interessi che se in contraddizione con quelli della maggioranza non debbono mai essere esplicitati. Ma a tale considerazione bisogna aggiungere una domanda: chi verifica l’onestà, la competenza, l’affidabilità dei politici? Ovviamente il sistema vigente è quello già menzionato della consorteria, che non prevedendo nessun controllo dal basso, se non le sceneggiate delle primarie o delle consultazioni via web, non può che fondarsi sulla procedura della cooptazione, in cui un gruppo non fa che rigenerare e riprodurre se stesso e purtroppo in forma sempre più scadente.

Questo richiamo, in particolare, alla competenza costituisce una delle ragioni per le quali i docenti delle università rappresentano per i politici gli “esperti” per antonomasia di un certo settore, e ciò anche senza tenere conto delle loro scelte politiche di fondo, come se conoscenze “tecniche” e concezione della società fossero del tutto separati. Il presupposto di tale atteggiamento sta ovviamente nella cosiddetta neutralità della scienza, che è in grado di stabilire per esempio, senza esplicitare il proprio punto di vista politico di partenza, che è opportuno anzi indispensabile rimanere nell’eurozona. A questo proposito, c’è anche chi tira in ballo Benedetto Croce, il quale riteneva che non sono assolutamente necessarie l’onestà e la probità nella propria vita personale per essere degli uomini competenti del proprio mestiere, sbeffeggiando coloro che vanno ricercando tale combinazione, a suo parere del tutto inutile, nell’uomo politico.

Prima di analizzare il richiamo esplicito fatto da alcuni gruppi politici al problema dell’università, vorrei sottolineare che in generale tutte le proposte elaborate da questi negli ultimi tempi hanno un carattere meramente demagogico e – cosa ancor più grave – mostrano la loro irrealizzabilità nell’attuale quadro, perché non fanno parte mai di un progetto coerente di società, fondato su un’analisi realistica delle sue contraddizioni. Essi mirano semplicemente ad attrarre l’elettore confuso dalla massa delle informazioni, che colpiscono nella misura in cui ripudiano con vigore qualcosa di accettato fino poco tempo fa come ineluttabile e necessario. Si pensi, per esempio, alle critiche oggi rivolte da Berlusconi al Job Acts, successivamente ridimensionate o al dichiarato appoggio ai pensionati di Giorgia Meloni, che a suo tempo (nel 2011) votò a favore della legge Fornero.

Il tema “Ricerca & Università” in questa bagarre di proposte naturalmente non poteva mancare dalla campagna elettorale e ciò per varie e importantissime ragioni, che tuttavia non si fondano su un’analisi approfondita di questo importantissimo comparto, ma consistono in una serie di boutade, che inoltre danno una perfetta idea di come funziona la contesa politica nei “paesi democratici”, mostrando per di più il livello di “competenza” (scarsissimo) dei vari leader politici. D’altra parte, i docenti universitari non hanno mai fatto mancare il loro appoggio ai vari partiti, cui forniscono la giustificazione ideologica alle loro scelte politiche e, fatto ancora più importante, trasformano con i loro discorsi ciò che scaturisce da una “teoria scientifica” in senso comune, facilmente recepibile. Per esempio, il tema dell’anti-assistenzialismo, con l’accento messo sulla valorizzazione dell’individuo, è stato astutamente combinato con l’anti-statalismo spontaneo delle classi popolari, le quali hanno così creduto che indebolire alcune istituzioni statali avrebbe costituito solo un vantaggio. Il bisogno dei docenti universitari o di intellettuali di vario livello per portare avanti questo lavoro ideologico è confermato dal fatto che attualmente 62 di essi siedono in parlamento dividendosi tra i vari partiti.

Ci sono tre specifici eventi su cui mi soffermerò che nella campagna elettorale hanno tirato in ballo il problema dell’università ormai in processo di dissoluzione per i tagli, ai finanziamenti, il blocco del ricambio generazionale, il diffuso precariato, il disfacimento delle strutture, il basso numero di laureati, l’orientamento della loro preparazione in vista delle richieste del mercato del lavoro e della ricerca per le necessità della piccola industria italiana non in grado di investire nell’innovazione tecnologica.

Il primo evento è rappresentato dall’uscita di Pietro Grasso, il quale ha detto testualmente che il suo partito (Liberi e Uguali) avrebbe abolito le tasse universitarie, come se con una semplice mossa si potessero risolvere i problemi degli atenei e del sistema educativo. Anche se nel programma di Liberi e Uguali si possono leggere anche altre cose che sembrerebbero in linea con una visione democratica della funzione pubblica dell’università, come non sottolineare le ambiguità di questi personaggi, che si sono messi dietro un altro leader “carismatico” (a dire il vero un po’ sbiadito) e che quando si è trattato di votare contro la legge sulla cosiddetta Buona Scuola (Bersani, Speranza e Fassina per esempio) non si sono nemmeno presentati.

Ma c’è di più. Come è stato osservato a proposito delle differenze tra il programma di Liberi e Uguali e quello di Jeremy Corbyn, da cui è tratto lo slogan “Per i molti, non per i pochi”, il primo sarebbe sempre imperniato sulla concezione aziendalistica e subalterna all’economia dell’università, nella quale ognuno deve trovare la sua collocazione per dare il suo contributo. Nel programma di Corbyn, invece, il rapporto è rovesciato: qui l’accento è posto sulle potenzialità dell’individuo cui il sistema sociale ed economico, adeguatamente strutturato, deve dare impulso, favorendone lo sviluppo e la valorizzazione. D’altra parte, non mi risulta che Liberi e Uguali o M5 stelle, anch’essi fervidi fautori del “cambiamento”, abbiano pensato ad abolire l’art.2 della legge Gelmini, che inserisce due o tre membri esterni nei consigli di amministrazione degli atenei, con la scusa che le università non debbono essere autoreferenziali e debbono aprirsi alle richieste provenienti dal mercato e dall’economia.

Quanto, invece, alla campagna elettorale del Movimento 5 stelle, è interessante osservare un altro esempio di voltafaccia, cui questo gruppo ci ha abituato. Dopo aver criticato non tanto l’istituzione dell’Istituto Italiano di tecnologia, creato da Tremonti nel 2003 e posto sotto il controllo del Ministero Economia e Finanze, quanto l’attribuzione ad esso di ingenti fondi, senza prevedere un bando pubblico con il quale si sarebbero dovuti valutare i vari progetti presentati dalle istituzioni universitarie e di ricerca e sostenere i più validi. I 5 stelle nella persona di Gianluca Vacca hanno denunciato l’oscurità della procedura e dei criteri utilizzati per l’attribuzione di tali risorse, cosa d’altra parte fatta da tutto il mondo scientifico italiano. Ma solo pochi giorni fa Luigi Di Maio ha visitato l’Istituto, più volte criticato anche per la sua scarsa produttività scientifica, e ha dichiarato “noi lo sosteniamo senza se e senza ma, questo è il nostro modello di paese”, consapevole o meno che esso sia la realizzazione renziana di una proposta della Confindustria interessata a che vi siano istituzioni pubbliche controllabili che facciano la ricerca per le imprese, scaricando i suoi costi su di noi (V. al proposito il documento dell’Associazione nazionale docenti universitari).

L’ultimo evento significativo che vorrei ricordare è rappresentato dall’idea dei grillini di candidare i rettori dell’università di Torino e di quella di Milano, Gianmaria Ajani e Gianluca Vago, che potrebbero apportare prestigio, una verniciatura di competenza e di serietà e potrebbero anche attrarre una parte consistente dell’elettorato di centrosinistra ormai sfiduciato e votato all’astensione.

Tutti questi eventi mostrano come la politica abbia bisogno dell’università e viceversa in un intercambio che punta alla formazione elitaria della classe dirigente: la politica, diretta dall’economia, vuole stringere sempre più i legami tra quest’ultima e gli atenei, servendosi di personale affidabile; i docenti universitari, molti non lontani dalla massoneria, entrano in un circuito che apre loro grandi opportunità non solo offrendo loro cariche di alto prestigio, ma anche la possibilità di dirigere pezzi importanti del potere economico internazionale. Si realizza così il trionfo della logica della consorteria, che vede legati gruppi che si scambiano favori e sostegno, ma che possono conoscere anche aspri conflitti interni.

Note

[1] Una buona definizione di quello che definisco “conformismo democratico” la troviamo su un editoriale di Angelo Panebianco su cui si è dibattuto in questi giorni: “Essendo la democrazia rappresentativa l’unica possibile democrazia “superarla” significa sostituirla con un regime autoritario, nella quale per giunta gli incompetenti occuperebbero le leve del potere”. Inaccettabile per Panebianco, dato che l’unica vera democrazia già tollera l’incompetenza dell’elettore, cui lui stesso e i suoi simili danno un notevole contributo per la loro opera di disinformazione.

Guglielmo Forges Davanzati (Università del Salento) – Perché la gratuità dell’istruzione è un giusto principio

Articolo pubblicato mercoledì 10 gennaio 2018 dal sito di Sbilanciamoci.info.

Perché la gratuità dell’istruzione è un giusto principio

La proposta di abolizione delle tasse universitarie, formulata dal Pietro Grasso, ha diversi meriti. Il primo è quello di avere riportato, dopo anni di silenzio o di denigrazione, l’Università al centro del dibattito pubblico e l’aver messo in discussione l’assioma per il quale l’istruzione serve esclusivamente ad accrescere l’occupabilità dei giovani e a rendere competitive […]

La proposta di abolizione delle tasse universitarie, formulata dal Presidente Grasso, ha tre fondamentali meriti.

Il primo è l’aver riportato, dopo anni di silenzio o di denigrazione, l’Università al centro del dibattito pubblico e l’aver messo in discussione l’assioma per il quale l’istruzione serve esclusivamente ad accrescere l’occupabilità dei giovani (secondo la discutibile teoria che fa dipendere la disoccupazione giovanile al mancato incontro fra domanda e offerta di competenze) e a rendere competitive le nostre imprese. In altri termini, la proposta rinvia alla desiderabilità di avere una popolazione con elevato grado di istruzione, rispetto a una popolazione con basso livello di scolarizzazione, muovendosi in aperto contrasto con le politiche di sottofinanziamento dell’Università, che la hanno resa – proprio tramite aumenti delle tasse – sempre più Università di classe.

Il secondo merito della proposta consiste nel portare il nostro Paese in linea con le migliori prassi di altri Paesi europei, Germania in primis, a partire dal dato per il quale le tasse di iscrizione in Italia sono le più alte dell’Eurozona e la percentuale di laureati sul totale della forza-lavoro è fra le più basse.

Come chiarito da Grasso, la copertura finanziaria del provvedimento cadrebbe sulla fiscalità generale, che andrebbe radicalmente rivista rendendola sempre più progressiva. Qui l’altro merito: l’aver saldato la questione universitaria con la questione fiscale. L’economia italiana sconta, infatti, e fra gli altri, il duplice problema di avere una popolazione mediamente poco istruita e un carico fiscale che grava prevalentemente sul lavoro. Si tratta di due fattori che accentuano le diseguaglianze, riducono la mobilità sociale e frenano la crescita, per le seguenti ragioni:

  1. l’aumento della pressione fiscale sulle famiglie con bassi redditi riduce i consumi, anche per la loro minore propensione al risparmio rispetto alle famiglie con redditi più alti; la riduzione dei consumi, a sua volta, in costanza di investimenti, comprime la domanda e il tasso di crescita;
  2. elevate tasse universitarie disincentivano le immatricolazioni, riducono conseguentemente le entrate degli atenei (soprattutto quelli periferici), riducono, per conseguenza, i fondi disponibili per la ricerca e, poiché la ricerca scientifica è uno dei principali motori della crescita, incidono negativamente su quest’ultima, riducendo le innovazioni e generando una spirale perversa per la quale l’assenza di innovazioni riduce la domanda di lavoro qualificato, genera disoccupazione intellettuale (o migrazioni) e, per effetti di apprendimento, riduce ulteriormente le immatricolazioni.

La proposta del Presidente Grasso è stata oggetto di numerose critiche. Innanzitutto è stato osservato che la gratuità dell’istruzione accentuerebbe le diseguaglianze, dal momento che esonererebbe i ricchi dal pagamento di una tassa nella stessa misura dell’esenzione per i più poveri. L’obiezione è falsa se si considera che la misura verrebbe finanziata proprio attraverso l’aumento della progressività delle imposte, peraltro dopo decenni nei quali il sistema tributario è diventato, per decisioni politiche, sempre più regressivo. In secondo luogo, è stato rilevato che il potenziale aumento del numero di iscritti accrescerebbe le migrazioni intellettuali, dal momento che, già nelle condizioni date, il nostro sistema produttivo non è in grado di assorbire tutti i laureati. L’obiezione è seria e merita di essere presa in considerazione. Essa ha una sua ragion d’essere solo a condizione di calibrare le politiche formative sulla base delle esigenze delle imprese – cosa che fin qui è stata fatta e che si intende continuare a fare. Si tratta, tuttavia, di una strategia miope e perdente.

Per chiarirlo, può essere opportuno partire da una recente dichiarazione del ministro Fedeli:

«Le scelte di questo Governo e di quello precedente dicono che si vuole tornare a investire e a puntare su università dopo un triennio dedicato alla scuola. Basta parlare di spese, queste non sono spese, sono investimenti sull’economia della conoscenza che vanno fatti, senno’ non si sta fermi ma si regredisce come società. Il messaggio che questa legislatura sta offrendo è un messaggio di speranza e fiducia nel futuro dell’Italia, che si alimenta non con le parole ma con i fatti, senza ricerca non possiamo davvero competere con successo sullo scenario internazionale».

Dove il passaggio cruciale attiene al nesso fra investimento in istruzione e competitività internazionale. La ratio che è alla base di questa dichiarazione sta nella convinzione che l’aumento della dotazione di competenze accresca la produttività del lavoro, che l’aumento della produttività del lavoro riduca i costi di produzione, che la riduzione dei costi di produzione, consentendo alle imprese di ridurre i prezzi, aumenti le esportazioni e il tasso di crescita.

Questi nessi rilevano non poche criticità:

  • dal punto di vista di un ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ci si attenderebbe innanzitutto che le spese per scuola e università non siano e non debbano essere giustificate con l’obiettivo dell’aumento della competitività delle imprese italiane; l’istruzione ha innanzitutto un valore in quanto tale, se non altro perché accresce il grado di civiltà di un Paese (ed eventualmente, in seconda battuta, il suo Pil);
  • il nesso implicitamente postulato dal ministro fa riferimento alla crescita delle competenze (il saper fare) non a quella delle conoscenze e si tratta di una differenza importante; la linea governativa – di questo Governo, come dei governi che lo hanno preceduto – è basata su una visione di breve periodo del ruolo che un’istruzione diffusa può svolgere ai fini della crescita economica, che trascura il fatto che in un’economia con rapido avanzamento tecnico le competenze acquisite oggi tendono a diventare rapidamente obsolete e che, per conseguenza, ciò che bisognerebbe fare è potenziare le capacità critiche di apprendimento (il saper imparare).

In termini più generali, le politiche formative in Italia nel corso dell’ultimo decennio sono state declinate esclusivamente per la possibile soluzione di problemi economici: dai tagli del ministro Tremonti, finalizzati alla riduzione della spesa pubblica e all’obiettivo di generare avanzi primari, alle proposte (tutte da verificare) per una ripresa della spesa per il settore della formazione questa volta finalizzati all’aumento delle esportazioni. Il primo tentativo è almeno parzialmente fallito. Le misure di austerità adottate a partire soprattutto dallo scoppio della prima crisi greca del 2010 hanno sì generato risparmi del settore pubblico ma anche crescita del debito pubblico in rapporto al Pil, per effetto della contrazione di quest’ultimo.

Il richiamo (ossessivo) alla competitività è poi del tutto fuorviante. Innanzitutto la ricerca scientifica produce risultati di lungo periodo e, come è ben noto, assolutamente non certi. Non a caso, le principali innovazioni nella storia del capitalismo del ‘900 sono state rese possibili attraverso un preventivo investimento pubblico in ricerca e sviluppo, a ragione del fatto che le invenzioni possono solo in alcune condizioni (dunque, non sempre) tradursi in innovazioni utilizzabili da imprese private (il c.d. capitale paziente). Cosa che spiega perché le imprese private trovano al più conveniente utilizzare invenzioni già realizzate tramite finanziamenti pubblici, laddove sussistano le condizioni per renderle innovazioni tali da generare profitti. Ciò vale a maggior ragione per la ricerca c.d. di base (p.e. la ricerca in ambito matematico o in area umanistica) dove, ancor più della ricerca applicata (tipicamente quella ingegneristica) i risultati sono incerti di lungo periodo.

L’obiettivo di accrescere la competitività, per contro, in un contesto di globalizzazione – ovvero di crescente mobilità internazionale dei capitali e di orientamento al profitto di breve periodo – è da perseguire mediante appunto misure che agiscono nel breve periodo. Ciò non significa che la formazione non possa servire per rendere più competitive le nostre esportazioni ed eventualmente per attrarre capitali dall’estero, ma ciò può avvenire per canali indiretti: p.e. perché una diffusa scolarizzazione è associata a bassa propensione al crimine, che, di per sé, a parità di altre condizioni, è un fattore di incentivo agli investimenti.

Infine, contro la proposta Grasso è stato fatto osservare che gli studenti hanno soprattutto bisogno di maggiori servizi. Questa obiezione è rilevante solo se si ritiene che i fondi per l’istruzione e la ricerca siano così scarsi (o lo debbano essere) da porre in alternativa l’azzeramento delle tasse di iscrizione e la fornitura di maggiori servizi. Non è ovviamente necessariamente così. Un aumento consistente del finanziamento pubblico alle Università potrebbe consentire loro di erogare servizi agli studenti anche senza le loro contribuzioni. Si tratterebbe di potenziare l’FFO, di tornare allo schema del finanziamento sulla base del costo del personale e di eliminare ogni elemento di premialità (distorsivo per definizione e penalizzante per le sedi periferiche e di norma meridionali).

Studenti per la terza volta in piazza. E atenei in rivolta contro lo sfruttamento

Articolo di Corrado Zunino pubblicato venerdì 24 novembre 2017 sul sito di la Repubblica.

Studenti per la terza volta in piazza. E atenei in rivolta contro lo sfruttamento

Migliaia in piazza in 50 piazze d’Italia, assemblee negli atenei, sciopero di professori e precari, sempre più sedi del Cnr occupate

Sono di nuovo in piazza, e non sembra un’abitudine. Gli studenti sono già scesi in corteo, solo in questo scorcio di anno scolastico, contro l’Alternanza scuola lavoro e, la scorsa settimana, la Legge di bilancio in via di approvazione. Oggi hanno sfilato nella terza manifestazione nazionale  in 40 giorni, a cui si devono aggiungere – per offrire il senso della mobilitazione in corso – le occupazioni degli istituti scolastici (con polemiche pubbliche al liceo romano Virgilio), le occupazioni della sede romana e dei centri di ricerca periferici del Consiglio nazionale delle ricerche (a Pisa, Palermo e Roma si è aggiunta ieri la protesta di Napoli Bagnoli).

Con gli studenti sono in agitazione,  negli atenei,  docenti e ricercatori precari, anche se questa volta lo sciopero non è stato abbracciato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria che ha proposto e ottenuto i precedenti boicottaggi degli esami. In questo “link” tra scuola e università si trova il titolo della discesa in piazza, “Stop sfruttamento”, e si echeggia l’ultima grande mobilitazione studentesca, le proteste tra il 2008 e il 2010 contro le Leggi Gelmini.

Sono migliaia, in cinquanta piazze e sotto il ministero. Francesca Picci, coordinatrice nazionale dell’Uds,  attacca direttamente il ministro: “Vogliamo subito uno Statuto degli studenti in Alternanza che garantisca percorsi di qualità e totalmente gratuiti e  il ritiro dell’accordo Miur-Campioni dell’Alternanza. Attraverso l’Alternanza e i tirocini di bassa qualità vogliono avallare il lavoro minorile e gratuito al posto dell’esperienza formativa”. E Andrea Torti, coordinatore di Link Coordinamento universitario: “Siamo stanchi di ricevere schiaffi da ogni governo, i fondi previsti in questa Legge di stabilità non sono sufficienti a garantire il diritto allo studio, il numero chiuso esclude sempre più studenti dai corsi di laurea e interi dipartimenti universitari e degli enti di ricerca continuano ad essere retti da ricercatori precari”.

Anche l’altra organizzazione studentesca con seguito, l’Unione degli universitari, sta organizzando assemblee di lavoratori e studenti nelle università italiane. Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Udu, dice: “Rilanceremo sulla necessità di investire più consistentemente nel diritto allo studio, aumentare il Fondo di funzionamento ordinario delle università, avviare un piano straordinario per il reclutamento dei ricercatori, investire nel dottorato di ricerca e sul salario di tutto il personale universitario. Chiederemo, poi, di rivedere le attuali modalità della valutazione”.

Nella lettera aperta di diverse componenti del mondo accademico si legge: “I lavoratori dell’università si impegnano quotidianamente per prestare al meglio il loro servizio nelle condizioni date, ma ormai la situazione è al limite della sostenibilità ed è a rischio la qualità stessa del servizio pubblico che è doveroso fornire agli studenti e al nostro Paese”. Serve, ancora, “una maggiore attenzione e adeguati finanziamenti per il sistema universitario del nostro Paese, prima che gli effetti delle politiche di disinvestimento dell’ultimo decennio portino l’università oltre il ciglio del baratro su cui si trova”.

La Cgil, attraverso la sua Federazione dei lavoratori della conoscenza, chiede di togliere il nome “Alternanza scuola lavoro” per sostituirlo con “istruzione integrata”: “Non dovrebbe essere obbligatoria né materia curriculare”, scrive il segretario Francesco Sinopoli: “Fare le fotocopie in un ufficio pubblico o sparecchiare in noti ristoranti non è istruzione”.

La protesta è larga, anche se non siamo in era Gelmini. Allora, il Governo Berlusconi-Tremonti tagliava otto miliardi di euro alla scuola pubblica e un miliardo all’università. La frustrazione della ministra in carica all’Istruzione, Valeria Fedeli, è esattamente quella di non veder riconosciuti i tentativi di inversione di tendenza. Cita lo sblocco degli scatti dei docenti universitari, un nuovo contratto per maestri e professori di scuola, l’allargamento dell’area senza tasse per gli studenti degli atenei, gli aumenti alle borse di dottorato e in generale al welfare studentesco.

La capo gabinetto del Miur, Sabrina Bono, ancora ieri mattina assicurava il raddoppio dei finanziamenti alle borse di studio già in Legge di bilancio: da 15 a 30 milioni di euro. E un emendamento potrebbe portare altri 50 milioni agli Enti di ricerca pubblici dopo che il Decreto Madia ha indicato un percorso di stabilizzazione di una parte dei diecimila precari (su 30.500 dipendenti) dei ventidue istituti. “Ci riconoscano gli sforzi”, dice la ministra Fedeli. Non basta, evidentemente, alla piazza. I ricercatori del Cnr, non a caso, replicano: “Nella Legge di bilancio devono essere previste le risorse necessarie per stabilizzare tutto il personale”.

Precario uno su tre così vive la ricerca

Articolo di Corrado Zunino pubblicato mercoledì 22 novembre 2017 da la Repubblica.

Precario uno su tre così vive la ricerca

Costruiscono successi e brevettano terapie. Ma su 30mila dipendenti degli enti di ricerca pubblici un terzo non ha un contratto stabile. E al Cnr arrivano al 40%

Sono eccellenti, sono precari. Matteo, Salvatore, anche Danilo. Costruiscono successi industriali, successi altrui, a 1.680 euro netti al mese, se il mese è senza conguagli. Daniela brevetta, invece, terapie anticancro. Sonia ha il record di missioni in Antartide e il record di precariato al Consiglio nazionale delle ricerche: venticinque anni a spezzoni di contratto. Era sulla Barriera di Ross la dottoressa Migliorini quando nel 2006 la sede amministrativa di Piazzale Aldo Moro 7, Roma, dirimpetto l’Università La Sapienza, aprì una finestra per l’assunzione: così lontana, non poté coglierla.

I precari del Cnr costruiscono successi per altri, brevettano salvavita, non progettano però la loro vita. Dopo tre mesi quei milleseicentottanta euro possono smettere di arrivare. Fine contratto. Poi il Cnr rinnova. Non promuove né stabilizza, ma rinnova quasi sempre. Un assegno di ricerca senza ferie né malattia pagata, un “co.co.co” più l’assicurazione: l’interruzione del rapporto di lavoro ogni volta fa cadere gli scatti d’anzianità maturati.

Si deve spesso ripartire da capo, e da precari, sul piano inclinato di una scienza pubblica che al Consiglio nazionale delle ricerche è fatta di 4.731 lavoratori a tempo determinato sugli 11.703 distribuiti nei 108 istituti del Paese. Sono il 40,4 per cento, gli assunti a tempo. Due ogni cinque. E sono ventidue gli enti di ricerca, vigilati da sette ministeri: contano quasi diecimila precari per oltre trentamila dipendenti.

«Ho un compagno, non ho un figlio», dice Daniela Gaglio, biologa clinica, laureata a Palermo, dottorata alla Bicocca di Milano, volata al Mit di Boston dopo l’università italiana, oggi proprietaria con altri tre scienziati del brevetto per una terapia personalizzata contro il cancro al polmone, alle ovaie, alle mammelle. «Ho 40 anni e vorrei un figlio». Non può non per il matto e disperatissimo lavoro che l’assorbe, piuttosto per l’incertezza di quei 1.680 euro mensili. Se il brevetto dei due farmaci oncologici — già esistenti, ma per la prima volta da provare insieme — agirà sull’uomo come oggi agisce sui topi fermando la proliferazione delle cellule tumorali, la dottoressa sarà milionaria. Nell’attesa Daniela Gaglio inizia ad accusare questo precariato d’eccellenza lungo quattordici anni, gli ultimi sei trascorsi al Cnr. «Al Mit ho rifiutato due post-doc, 4.500 euro al mese l’uno, poi un terzo contratto in Belgio. Volevo fare qualcosa per il mio Paese e sono rientrata. I nostri ricercatori fanno crescere gli Stati Uniti, la Francia, l’Olanda, perché non dare un’opportunità all’Italia?».

In via Vallerano, Roma Pontina, Salvatore Marrone, ingegnere ambientale di 33 anni, mostra la seconda vasca sperimentale più grande d’Europa, la più larga catapulta industriale. È l’ex Insean, la Vasca navale. Un’idea grande realizzata nei Sessanta quando l’Italia credeva nella sua ricerca, credeva in sé. Soppresso come ente inutile da Giulio Tremonti nel 2010, l’Insean è stato accorpato al Cnr. Oggi in questa piana attraversata dai cinghiali quarantun ricercatori (soltanto) sottopongono modelli di imbarcazioni a violenti moti ondosi. In Francia i singoli gruppi di lavoro su un dossier di ingegneria navale sono formati da trenta persone, «noi siamo in tre».

Per dire, quelli della Vasca navale sono stati chiamati dalla Hyundai, multinazionale coreana: 200mila euro su un progetto per mitigare il rischio del trasporto gas sulle navi. Ma i privati pagano a fine lavoro e il Cnr ha dovuto chiedere un prestito agli altri enti di ricerca per far lavorare i suoi sulla commessa privata. Non aveva soldi in cassa.

«Le nostre giornate sono un’affannosa ricerca di denaro per l’ente, una caccia a contratti privati di scarso spessore scientifico», spiega Luca Mauro, progettista meccanico e navale, portavoce dei Precari uniti del Consiglio. «Quando siamo entrati al Cnr abbiamo smesso di pubblicare cose rilevanti, non ne abbiamo più il tempo». Il loro ranking scende, il Cnr si impoverisce, il Paese non cresce.

Ieri sera i precari hanno occupato la sede di Palermo: dormono lì. Insieme ai colleghi scienziati assunti, i precari uniti ogni anno raddoppiano il budget del Consiglio nazionale: i finanziamenti pubblici per il 2017 sono stati pari a 562,8 milioni di euro (erano 700 milioni prima di Tremonti), il fatturato finale è arrivato a un miliardo e 135 milioni. Gli assegni in surplus alla ricerca italiana sono arrivati grazie a matematici come Matteo Antuono, 37 anni, precario dal 2008, chiamato in quattro giorni a calcolare la potenza delle onde che s’infrangevano contro il relitto della Costa Concordia appoggiata sulla roccia dell’Isola del Giglio.

Grazie a ingegneri come Danilo Durante che hanno messo a punto qui — lui da precario, in ogni stagione — le avventure oceaniche del Moro di Venezia, di Azzurra, di Luna Rossa. Qualcuno, alla fine, non ha retto alla mancanza di risorse pubbliche. Sara Di Lonardo, Istituto di biometeorologia di Firenze, nel 2013 ricevette un premio da 5.000 euro dal presidente del Senato. Il Cnr l’ha scaricata, è andata a insegnare scienze alle scuole medie.

Studenti contro la legge di bilancio: meno tasse, più borse di studio

Articolo pubblicato sabato 21 ottobre 2017 sul sito di Il Corriere della Sera.

Studenti contro la legge di bilancio: meno tasse, più borse di studio

La Finanziaria vara i fondi per gli aumenti a insegnanti, presidi e professori universitari ma lascia a secco studenti e dottorandi. E anche per gli Its non ci sono i fondi promessi

I nodi aperti nella legge di Bilancio

Non ci sono i fondi promessi durante l’anno in varie occasioni dalla ministra Fedeli nella legge di Bilancio approvata dal consiglio dei ministri che da venerdì 20 ottobre è in discussione in Parlamento. Ad essere scontenti non soltanto i sindacati che protestano perché i fondi stanziati per l’istruzione sono pochi. La scuola può comunque contare su due punti positivi per gli insegnanti: sono stati stanziati i fondi per il rinnovo del contratto degli statali promesso un anno fa con l’accordo del 30 novembre 2016 e prosegue l’iter giuridico per il rinnovo del contratto di presidi e personale della scuola. Peggio è andata all’Università. Anche per quanto riguarda i giovani il governo ha preferito puntare sulle imprese con la decontribuzione per chi assume giovani rispetto a misure per la formazione. Restano a secco gli Its, che contavano su un aumento del finanziamento . Restano a secco gli studenti che chiedevano un abbassamento delle tasse e più borse di studio. E anche i dottori di ricerca che speravano in un minimo aumento del loro assegno. L’unica misura di rilievo è l’aumento del numero di ricercatori per Atenei e Enti da assumere che passa da 1000 a 1500. La Cgil annuncia una mobilitazione il 7 novembre per protestare contro la mancata stabilizzazione dei precari della ricerca: «Solo 300 posti negli enti di ricerca a fronte di migliaia di precari».

Le borse per i dottorati

Finora ci hanno pensato le singole università o almeno alcune di esse: Milano, Brescia, Foggia, Genova e Napoli integrano gli assegni da mille euro dei loro dottorandi con un venti per cento in più. Ma Università e studenti speravano quest’anno di poter avere un aumento stabile e sopratutto esteso a tutti i dottorandi: nella legge di stabilità non c’è nulla e restiamo il Paese che paga meno di tutti i propri futuri scienziati. Una buona notizia invece per i professori: non recuperano i loro scatti (congelati nel 2010) per i quali tra l’altro hanno scioperato in molti all’inizio dell’anno accademico: ma d’ora in avanti potranno contare su una progressione di carriera più rapida con scatti biennali che li porterà ad accelerare gli aumenti per il futuro.

dottorandi-stipendi

Gli Its

«Il fondo di dotazione nazionale degli Its è di soli 13 milioni di euro, nonostante sia raddoppiato il numero delle fondazioni. Così il governo, dopo le promesse fatte in convegni, incontri e seminari durante tutto l’anno arretra su una delle leve più strategiche del Paese», protesta il coordinatore della cabina di regia Università-Its Alessandro Mele: «Alle parole di Fedeli e Calenda non seguono i fatti: quest’estate Calenda aveva detto che avrebbe stanziato dal suo ministero i pochi fondi che servivano e Fedeli aveva ufficializzato l’accordo». Ma dei fondi non c’è traccia.

Meno tasse

Meno tasse, più borse di studio. E’ questa, in sostanza, la richiesta degli studenti universitari al governo in vista dell’approvazione della prossima Legge di Bilancio. Una richiesta che prende più forza alla luce della pubblicazione del rapporto Eurydice 2017 in cui la Commissione Europea mette a confronto le rette universitarie e il sistema del diritto allo studio in Europa. L’Italia è al terzo posto (insieme a Spagna, Svizzera, Liechtenstein, Olanda, Irlanda e Lettonia), subito dopo Inghilterra e Galles, dove le rette hanno raggiunto la cifra record di 9.000 sterline l’anno (circa 10.000 euro) e l’Ulster (fra i 3.000 e i 500o euro). In Germania e nei Paesi scandinavi le università sono gratis come anche in Grecia e in Scozia. In Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia sono quasi nulle (sotto i cento euro). In Francia, Belgio, Islanda, nei Paesi dell’ex Jugoslavia, in Romania, Bulgaria e in Turchia sono comunque sotto i mille euro.

tasse universitarie

Più borse

Dice Elisa Marchetti, coordinatrice dell’Unione degli Universitari: «Conosciamo da anni sono i numeri del fallimento dell’università. Siamo il Paese che meno investe in istruzione e questo si ripercuote soprattutto sugli studenti con meno possibilità di passare dalla scuola all’università». Sono loro i più danneggiati dal combinato disposto fra caro-rette e scarsità di fondi per il diritto allo studio: solo un universitario su dieci, infatti, percepisce una borsa (il 9,43%).

borse

Il nodo degli idonei

Risultato: nove studenti su dieci pagano le tasse universitarie: un record in Europa. Fra questi anche i cosiddetti «idonei non beneficiari», ovvero coloro che, avrebbero diritto a percepire una borsa di studio in base al reddito ma non la ottengono perché non ci sono abbastanza soldi a disposizione.

I contributi degli studenti

Non solo le rette sono alte, ma continuano ad aumentare. La spesa media annua per la laurea triennale è di 1.316 euro (contro i 1.262 dell’anno scorso), ma l’aumento più sensibile si è registrato per la magistrale che ha raggiunto quota 1.467 euro (l’anno scorso la media era in linea con la triennale: 1.216 euro). Dice ancora Elisa Marchetti: «Abbiamo già intrapreso un percorso di mobilitazione e intensificheremo la nostra azione se non vedremo risposte chiare a questa situazione drammatica. Chiediamo che si trovino almeno 150 milioni di euro da investire nel Fondo Integrativo Statale per le borse di studio e che il Fondo di Finanziamento Ordinario destinato alle Università sia incrementato con la finalità prioritaria di abbattere in modo sostanziale la contribuzione studentesca» (i 7 miliardi attuali sono ancora molto lontani dai 7,5 miliardi di partenza prima dei tagli imposti da Tremonti).

italia

 

Udu – È un mondo di merda, la colpa è di chi lo accetta

Comunicato pubblicato venerdì 29 settembre 2017 nel sito dell’Unione degli universitari.

È un mondo di merda, la colpa è di chi lo accetta

“La logica universitaria è questa… è un mondo di merda… è un mondo di merda… quindi purtroppo è un do ut des”. Sono le parole, riportate dal quotidiano “La Stampa” in un articolo sull’inchiesta per corruzione riguardante l’Abilitazione Scientifica Nazionale nel settore del diritto tributario, di uno dei professori indagati che durante un’intercettazione avrebbe così “descritto” a grandi linee il sistema.

Per quanto riguarda l’inchiesta sarà ora necessario attendere il processo e le sentenze, prima che queste vengano emesse, come in realtà già sta succedendo, sulle pagine dei quotidiani.
In quella riga di intercettazione, però, vengono sintetizzati i due volti della discussione che si è levata in merito a quanto emerso dalle indagini della Procura di Firenze.

Il primo aspetto riguarda l’inchiesta in sé.

Molti commentatori, anche autorevoli, tra cui alcuni Rettori, stanno già puntando il dito contro lo “strumento concorso”, in quanto intrinsecamente criminogeno. L’elemento da sottolineare, invece, rimane uno: se le accuse dovessero essere confermate, i fatti mostrerebbero persone nel sistema universitario disposte a commettere un reato pur di far valere il proprio potere, a discapito delle regole, di qualsiasi sistema di regole. Con questo modello concorsuale o con qualsiasi altro, permarrebbe l’esistenza di persone disposte a violare le leggi per poter affermare un proprio clientelismo baronale portato a una folle estremizzazione. C’è una questione etica nell’università. Tuttavia, per smantellare il “vile criterio del commercio dei posti”, non sarà sufficiente cambiare le commissioni né semplificare la normativa.

Il secondo aspetto riguarda, invece, il sistema. Il “mondo di merda”, appunto.

La retorica dell’inesorabilità contenuta nelle parole dell’intercettato non caratterizza solo le conversazioni degli indagati che abbiamo potuto leggere in questi giorni, ma anche l’atteggiamento generalizzato di chi vive ogni Dipartimento, Facoltà o organo delle nostre università. L’inesorabilità di vivere in un sistema in cui il mantenimento dello status quo è il principio inviolabile: si è sempre fatto così e così deve rimanere. Questa narrazione è sempre stata forte all’interno del sistema universitario, un sistema chiuso, che ha avuto per un breve periodo la possibilità di aprirsi, di diventare sistema di istruzione avanzata di massa. Quel breve periodo è risultato essere un’illusione, spezzata definitivamente e il sistema è stato rinchiuso ermeticamente su se stesso. Il sottofinanziamento attuale, causato dai tagli del 2008 e dall’impianto folle della riforma Gelmini del 2010, è semplicemente l’elemento finale alla base della distruzione del sistema universitario. L’assenza di fondi ha imposto la concorrenza spietata all’interno del sistema, che annulla completamente le discussioni riguardanti le necessità di carattere scientifico e strategico per la formazione degli studenti e per lo sviluppo della ricerca, ponendosi invece come unico obiettivo l’accaparramento di risorse e posti, rendendo chi aspira alla carriera accademica più solo e ricattabile: a ogni rappresentante degli studenti capita, durante il proprio mandato, di assistere almeno a una discussione in cui docenti di vari settori scientifici disciplinari si scannano per poter ottenere i fondi per l’assunzione di un docente o di un ricercatore, o addirittura per avere delle briciole di finanziamento per rinnovare l’abbonamento a una rivista o comprare delle provette e un microscopio.

In uno scenario caratterizzato dall’assenza di risorse, la lotta è per la sopravvivenza: per chi vede l’Università come una missione sociale la sopravvivenza è la possibilità di mandare avanti le proprie ricerche, il proprio settore, il proprio Dipartimento e la propria università; per chi vede l’Università come il posto in cui esercitare il proprio potere autoreferenziale, la sopravvivenza è il consolidamento e la difesa di un ruolo baronale da esercitare in punta di diritto, per poter aver voce in capitolo nelle decisioni strategiche nel proprio settore, nel proprio Dipartimento e nella propria università. Quel potere baronale il più delle volte viene esercitato sul filo del diritto e quando dovesse comportarne una violazione, la denuncia il più delle volte sta in capo a singoli coraggiosi, pronti a sfidare un consolidato rapporto di subalternità. È l’esistenza stessa di rapporti gerarchici ad essere alla base del potere baronale. E i ruoli subalterni all’interno dell’università oggi possono essere molteplici: tutte le figure precarie create dalla Legge Gelmini creano una sacca di precarietà senza diritti, impotenti di fronti a eventuali ingiustizie, più o meno illegali, che dovessero incontrare durante la propria carriera accademica. È oggi sempre più necessario eliminare ogni inutile suddivisione in ruoli subordinati, all’interno della categoria “docente” così come nella comunità accademica nella suo complesso, e includere tutte le componenti a pieno titolo nei processi decisionali.

L’Unione degli Universitari è stata in piazza fin dai tagli lineari di Tremonti, quando la Ministra Gelmini dipingeva la propria riforma come la soluzione al baronato nelle università: non c’era bisogno di questa inchiesta per dire che quella riforma non avrebbe risolto niente! Anzi, i tagli consolidati da quella riforma, la creazione di quel precariato universitario che oggi rappresenta una colonna portante dell’università e il disegno di trasformazione della componente studentesca in clienti di un servizio hanno ancor più accentuato la chiusura del sistema. La volontà era quella di escludere gli studenti dalla comunità accademica e frammentare ulteriormente i ruoli presenti, in modo da accentuare ancor più lo scontro tra componenti iper-frammentate.

In quella riforma mancavano, e mancano tutt’oggi, reali strumenti di contrasto ai fenomeni corruttivi all’interno del sistema universitario, tanto che nel piano anticorruzione dell’ANAC di quest’anno fa capolino l’università. Ma non basta: è necessario lavorare sulla trasparenza degli atti e delle procedure che, invece, risultano sempre più complesse. Serve una preparazione tecnica sempre più avanzata anche solo per comprendere le singole procedure interne all’università, appesantite da una burocrazia che, invece di essere utile a contrastare l’illegalità, spesso crea una pesante coltre di fumo.

L’ipertrofia valutativa, poi, è un argomento a sé stante: non potrà mai essere uno strumento utile a contrastare comportamenti clientelari e, oltre ad aver portato un dilagante malcontento nell’Università, ha acuito quella competizione che sta alla radice culturale dei comportamenti baronali. La valutazione deve trasformarsi in assicurazione della qualità: l’utilizzo di una presunta valutazione per l’assegnazione delle risorse risulta essere solamente un inutile artificio tecnico.

Dentro alle università c’è una parte sana, che vuole semplicemente “svolgere un proprio ruolo”: vuole studiare, vuole fare Ricerca, vuole fare Didattica, vuole portare il sapere al di fuori delle mura dell’Università. È quella parte sana che chiede di superare la competizione malata, dai test d’ingresso per i corsi a numero chiuso fino alla gara tra Università per il finanziamento statale. Bisogna invece instaurare una cooperazione virtuosa dove tutti coloro che vogliano proseguire gli studi e tutti coloro che vogliono dedicare la propria vita all’accademia come insegnanti o ricercatori possano farlo, senza dover affrontare continue frustrazioni e ingiustizie.

La voce sana dell’Università, maggioritaria, deve prevalere. Non ci appartiene e non ci rassegniamo alla logica dell’inesorabilità dell’esistente, della conservazione dello status quo, del sottofinanziamento che va accettato a capo chino, del fatto che per completare gli studi sono necessari sacrifici economici enormi, del fatto che per diventare professori universitari sia inesorabile affrontare un precariato di 30 anni. Non ci appartiene la logica per cui tutto il sistema universitario sia marcio.

“È un mondo di merda”. Sì, e la colpa è proprio degli stessi che lo accettano.

Ma noi studenti non smetteremo di lottare, ogni giorno, con chi sarà al nostro fianco affinché da questo letame nascano i fior.

Giuseppe Ortoleva (Università di Torino): “Il ’68 ha cambiato l’esercito e la polizia più che l’università”

Articolo di Gianni Barbacetto pubblicato mercoledì 27 settembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

“Il ’68 ha cambiato l’esercito e la polizia più che l’università”

Non ha dubbi, Giuseppe Ortoleva, professore ordinario di Comunicazione all’Università di Torino ed esperto di televisione e massmedia. “Non possiamo stupirci per i concorsi truccati, per l’abilitazione scientifica nazionale fatta su misura per mettere in cattedra gli amici: l’università italiana è sempre stata così, o almeno un pezzo di università italiana è da molti decenni che funziona così”.

Niente di nuovo sotto il sole, professor Ortoleva?

Prima c’erano i vecchi baroni che decidevano la propria successione, poi sono stati introdotti nuovi sistemi, ma fatta la legge (male), trovato l’inganno: e le cose sono continuate come prima, o peggio di prima. È una cosa disgustosa, lo so, ma accade da sempre. Soprattutto nel campo del Diritto e della Medicina, in cui essere professore è una ciliegina sulla torta e l’attività universitaria porta solo una piccola parte dei guadagni complessivi; ma una parte importante, perché aggiungere Prof. davanti ad Avv. o a Dott. permette di incassare parcelle più consistenti.

Lei dunque non si stupisce per niente di questo scandalo e di questa inchiesta…

E invece sì, mi stupisco. Perché mi chiedo: come mai i magistrati si accorgono solo ora di un problema che c’è sempre stato? Intervengono solo ora che l’università italiana è trattata da tutti come una schifezza e i professori universitari sono vilipesi da tutti. È questo il vero problema: l’università italiana è la più maltrattata del mondo, la più sottofinanziata d’Europa e, in rapporto al Pil, del mondo. Guardi, considerando il Pil, i Paesi che al mondo mettono più risorse nell’università sono: primo lo Zimbabwe, secondo la Namibia. Da noi invece ha vinto Giulio Tremonti con il suo “la cultura non si mangia”. La destra odia la cultura, la sinistra la dà per scontata, “tanto quelli votano già per noi”. Così niente più soldi. Questo è per l’università italiana il momento peggiore di tutta la sua storia.

Però i professori universitari sono scesi in sciopero: come fossero tranvieri, ha replicato qualcuno dentro la vostra categoria.

Fanno bene a scioperare, perché sono la categoria peggio trattata di tutta la Pubblica amministrazione. Altro che tranvieri. Sono gli unici che non sono riusciti a rimuovere il blocco degli scatti allo stipendio imposto dal governo Monti. E nelle università la Cgil penalizza i professori a vantaggio del personale amministrativo. Detto questo, però, lo sciopero dei professori universitari non ha senso: gli scioperanti poi lavorano di più per recuperare il tempo dello sciopero.

Oggi a Torino anche gli studenti universitari si schierano con i professori, con un’iniziativa per “cercare prospettive comuni” e cercare di unire studenti, professori, precari “contro il definanziamento e la aziendalizzazione dell’università”.

Le rappresentanze degli studenti, in generale, sono un problema grave dentro l’università. Le vota solo una minoranza degli studenti veri e quelli che sono eletti, per esempio nel Cda, sono di solito al traino del sindacato. Bisognerebbe ripensare radicalmente il sistema di rappresentanza nelle università, la attuale governance è una piccola truffa.

L’iniziativa a Torino del gruppo Studenti Indipendenti è convocata oggi a Palazzo Campana, dove prese l’avvio la rivolta del Sessantotto. Cinquant’anni dopo…

Ma lasciamo stare il Sessantotto, per favore. Parliamo di quello che succede adesso. La verità è che il Sessantotto, nato nell’università, ha cambiato più l’esercito o la polizia che non l’università. La mia generazione, che ha fatto il Sessantotto, ha poi conquistato posizioni di potere e ha finito per accettare le vecchie regole contro cui aveva lottato. Ripeto, restiamo al presente: questi scandali sono vecchi come l’università italiana, ma la magistratura se ne accorge solo ora che l’università italiana è la più maltrattata del mondo.