Archivi tag: Ilaria Venturi

Il direttore del Censis: “Al bando i sovranismi, vince chi sa fare rete”

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato domenica 7 luglio 2019 da la Repubblica.

Il direttore del Censis: “Al bando i sovranismi, vince chi sa fare rete”

Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, non ha dubbi: «L’unico meccanismo che abbiamo per rimettere in moto l’ascensore sociale bloccato da troppo tempo e che colpisce i giovani è puntare sulla formazione e l’innovazione che passano dal sistema universitario».

Facile a dirsi, ma il contesto non aiuta: per formazione e istruzione l’Italia spende il 3,9 per cento del Pil, contro una media europea del 4,7. Siamo davanti solo a Slovacchia, Bulgaria e Romania.

«È questo il punto. E non è solo una questione di mancati investimenti. Imbarazzante è l’assenza dell’università nelle priorità di governo, e non da oggi. Non c’è solo un difetto di spesa pubblica, manca una programmazione politica su questo. Si vede il risultato: il Pil, ma non solo».

Lei ha sempre insistito sulla necessità per le università di essere internazionali: ne è ancora convinto?

«Più che mai, è l’altra strada da battere, non c’è spazio per nessun ritorno di sovranismi nazionali, il sistema accademico deve intessere sempre più reti europee. Invece siamo in ritardo».

Il nostro sistema è poco attrattivo oltre confine?

«Passi avanti sono stati fatti. I corsi di laurea in lingua inglese, per esempio, sono cresciuti negli ultimi tre anni del 37%: rappresentano ormai il 7 per cento dell’offerta formativa. Ma a trainare sono soprattutto gli atenei privati, che offrono il 24% dei corsi internazionali contro il 18% degli atenei statali. La Luiss ha il sito internet tradotto anche in cinese, per dire».

Cosa bisognerebbe fare di più?

«Siccome è difficile immaginare aumenti di spesa, gli atenei devono impegnarsi per costruire reti internazionali. Colpisce quanto le nostre università non siano attrattive per gli studenti europei. Non siamo nemmeno tra i primi cinque Paesi scelti dai giovani francesi, spagnoli e inglesi».

Censis – La pagella delle università

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato domenica 7 luglio 2019 da la Repubblica.

La pagella delle università

Bologna festeggia i dieci anni sul podio, Trento scalza Siena. Ma da Perugia a Camerino, la nuova classifica degli atenei nostrani premia le opportunità di lavoro post laurea e il respiro europeo

mega-atenei

grandi-atenei

medi-atenei

piccoli-atenei

Politecnici

Una formazione che parla inglese e si muove in Europa. E il lavoro. Lo sguardo del Censis sulle università italiane che esce dalla nuova classifica 2019-20 punta lo sguardo soprattutto su questo prima e dopo la laurea. Per la prima volta nel ranking, che ormai da diciannove anni guida i neo diplomati alla scelta dell’università, viene inserito l’indicatore dell’occupabilità.
E ancora una volta viene data rilevanza alla capacità degli atenei di essere autenticamente internazionali. Al bando i sovranismi, è il messaggio: se il sistema di formazione superiore vuole crescere a vantaggio dei giovani deve avere uno sguardo ben più largo dei confini nazionali.

La gara tra le migliori d’Italia

Tra i tanti ranking internazionali a cui siamo abituati, stavolta la gara si gioca in casa. In questa edizione Bologna, Perugia e Camerino si confermano al primo posto, nelle rispettive graduatorie costruite per numero di studenti iscritti. Trento scalza Siena tra i medi atenei statali dove, per il terzo posto, il derby è tutto in Friuli Venezia Giulia, tra Trieste e Udine. Soffrono le università del Sud, sebbene la Calabria mantenga la seconda posizione tra i grandi atenei e Foggia rimanga salda dietro a Camerino tra i piccoli.

Il voto all’occupabilità

Si tratta di un’analisi articolata che giudica le università in base ai servizi offerti (mense e alloggi), le borse di studio – capitolo dolente, visto un sistema del diritto allo studio che non garantisce a tutti gli idonei il sussidio – le strutture, la comunicazione e i servizi digitali offerti, il grado di internazionalizzazione e, appunto, l’occupabilità, ovvero chi lavora tra i laureati magistrali 2017 dopo un anno. Perché «la scelta dell’ateneo in cui andare a studiare implica una valutazione anche del contesto in cui l’università opera e delle opportunità che può offrire».
Contesto che non aiuta ovviamente le università nei territori ad alto tasso di disoccupazione e motivo per cui, ricorda il Censis, nell’ultimo anno più del 23% di studenti del Sud è andato a studiare fuori regione. Il dossier completo, anche con la classifica dei corsi di laurea, è sul sito del Censis. Piccola novità: un’icona arcobaleno segnalerà gli atenei, ad oggi 42, che hanno attivato carriere alias per gli studenti che cambiano genere. Per misurare «l’impegno all’inclusione».

I rettori: chi sale e chi scende

Tra i mega atenei, l’Alma Mater festeggia i suoi dieci anni al primo posto, seguita da Padova che ha scippato la seconda posizione a Firenze. In una scala da 60 a 120, oltre 90 è il punteggio guadagnato da queste università rispetto alla spendibilità della laurea nel mercato del lavoro. «In un mondo semplificato, i ranking sono uno strumento utile a un primo orientamento, anche se non colgono l’esperienza formativa di una laurea a tutto tondo,» avverte il rettore di Bologna Francesco Ubertini, attribuendo il successo ai suoi docenti e ricercatori. «L’occupabilità? Risente del territorio – riconosce – quello che piuttosto vedo nel futuro delle università italiane è la dimensione internazionale: un percorso che deve continuare. E quello che ora occorre è innovare la didattica: dobbiamo concentrarci su nuovi metodi di insegnamento che sappiano coinvolgere gli studenti». Ultima tra i mega atenei è la Federico II di Napoli. Ma il rettore Gaetano Manfredi osserva: «Nelle classifiche con indicatori di contesto, le università del Sud sono penalizzate». Esulta Franco Moriconi, rettore di Perugia, da sei anni al primo posto: «Abbiamo scommesso sul potenziamento di strutture e servizi e sull’apertura di nuove frontiere». In questa classifica, Modena-Reggio Emilia scalza dal quinto posto Cagliari che scivola al nono per colpa di 13 punti persi sulle borse di studio, mentre Salerno guadagna otto posizioni, in fondo la Campania e Chieti-Pescara. «Buona ricerca, qualità nella didattica nei contenuti e come esperienza formativa» la ricetta di Paolo Collini, rettore di Trento, da sempre ateneo di frontiera aperto al centro Europa. Nella gara tra i medi scende Sassari perdendo 12 punti sull’internazionalizzazione. Invariato il podio tra i piccoli, dove si registra l’ascesa al quarto e quinto posto di Basilicata e Insubria.

Politecnici e privati

Milano, che ha debuttato tra le prime 150 università migliori al mondo nel QS Rankings 2020, guida i politecnici, seguita da Torino che fa retrocedere lo Iuav di Venezia al terzo posto. Tra le non statali la Bocconi si conferma sempre prima, davanti a Milano Cattolica, grazie a contatti internazionali e borse di studio.

Non statali 1

Non statali 2

Università di Bologna, Medicina raddoppia un corso in Romagna

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato mercoledì 3 luglio 2019 da la Repubblica ed. Bologna.

Medicina raddoppia un corso in Romagna

Il rettore Ubertini: “Si parte l’anno prossimo”. Ma il problema sono i fondi per realizzarlo

Un secondo corso di laurea in Medicina in Romagna. Ravenna e Forlì sono le candidate per quella che potrebbe essere la svolta nella possibilità di formare più medici all’Alma Mater. Se l’ateneo di Ferrara ha triplicato i posti a Medicina per il prossimo anno, arrivando a 600 – e non senza polemiche – Bologna pensa al raddoppio della laurea tra due anni.
Un progetto accarezzato dal rettore Francesco Ubertini che è qualcosa di più che un’idea: «Se vogliamo partire col primo anno di corso nel 2020-2021, dobbiamo andare in delibera entro quest’anno. I tempi ci sono. E pure le premesse».
Nel dibattito sull’urgenza di avere più medici Ubertini fa ordine, pur senza entrare in polemica con il collega dell’università estense Giorgio Zauli: «Il problema va preso dall’alto: serve avere più specializzati e poi, a scendere, più studenti. Ma formare più laureati in Medicina senza avere poi l’accesso alle specializzazioni è un boomerang, perché fai entrare più di quelli che potranno specializzarsi. Il sistema deve crescere in maniera armonica: più borse di specializzazione, e quest’anno sono cresciute anche se ancora non sono sufficienti. E rispetto a questo un aumento del numero di studenti». La Scuola di Medicina è già al massimo, ora, della capienza: «Per il nuovo anno abbiamo proposto un incremento del 20% pari alla corte di studenti che entrò in sovrannumero alcuni anni fa. Sappiamo dunque che il sistema regge. A me però piacerebbe poter aumentare ancora per andare incontro alle esigenze del Paese», spiega Ubertini. Di qui il progetto di un nuovo corso di laurea verso il mare, nei campus decentrati. «La decisione non è stata presa, ma ci stiamo ragionando. L’interesse locale c’è, ma per farlo occorrono risorse che non abbiamo, un tema che ho posto ai nostri interlocutori», ovvero l’Ausl Romagna, i Campus e la Regione.
«Un anno fa – ricorda il rettore- abbiamo deliberato negli organi un piano di sviluppo della Scuola di Medicina in Romagna, tant’è che abbiamo alcuni professori che esercitano là nelle unità operative, abbiamo specializzandi e siamo entrati nell’Istituto scientifico per la cura dei tumori di Meldola». Insomma, le strutture sanitarie per i tirocini ci sono. Mancano le risorse per aule e docenti. E il rettore batte cassa sia a livello locale che a Roma: «Spero che il Governo accompagni questo sforzo».

Medicina spalanca le porte, in Emilia centinaia di posti in più

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato martedì 2 luglio 2019 da la Repubblica ed. Bologna.

Medicina spalanca le porte in Emilia centinaia di posti in più

Resta il numero chiuso, ma crescono del 18 per cento i posti disponibili a Bologna e Parma. Il caso limite dell’Università di Ferrara che triplica le matricole: da 185 a 600 in un colpo solo

Medicina, c’è posto. Ferrara fa una fuga in avanti in regione e spalanca le porte per il prossimo anno ai futuri camici bianchi, quelli che il Paese sta disperatamente cercando. Lo fa più che triplicando i posti: da 185 a 600. È la rivoluzione del rettore Giorgio Zauli che mesi fa scosse il mondo accademico («aboliamo il numero chiuso a Medicina») e che ora parte con questo primo passo destinato a fare nuovamente discutere. Gli studenti sono già sul piede di guerra: «Non riusciamo a fare i tirocini adesso, figuriamoci triplicando il numero degli iscritti».
Lungo la via Emilia i posti a Medicina aumentano in quasi tutte le quattro le Facoltà mediche. Ma con moderazione. Il Miur quest’anno ha autorizzato 11.568 posti: erano 9.779 lo scorso anno, il 18% in più. E Parma e Bologna si adeguano. L’Alma Mater cresce complessivamente – sia nel corso tradizionale che in quello in lingua inglese – di 84 posti, passando da 380 a 464. Anche Parma ha deliberato un ritocco: da 201 a 240. A Modena-Reggio invece sono sostanzialmente confermati i posti dello scorso anno: da 147 a 150. Il boom è a Ferrara. Una sperimentazione che Zauli incassa a metà. La sua proposta iniziale era di partire con 600 studenti, farli iscrivere tutti senza test nazionale per poi selezionarli nel primo semestre con esami scritti e l’asticella per rimanere a Medicina di una media del 27. Il Miur non ha concesso il via libera temendo troppi ricorsi. Ma ha confermato i posti richiesti da Zauli – si continua dunque a entrare con il test nazionale, fissato il 3 settembre – che proprio ieri ha firmato il decreto rettorale. «Sono contento a metà, ma con il Miur abbiamo raggiunto un compromesso: ci hanno concesso i posti, ma rimaniamo nel sistema nazionale. L’obiettivo è arrivare a un accordo di programma che firmeremo entro l’estate».
Nel frattempo si muovono i parlamentari con più proposte di legge per cambiare l’accesso a Medicina. Si parla di una convergenza Lega-M5s per mettere la soglia dopo un anno. Zauli intanto, non senza l’imbarazzo degli altri Atenei e in Regione, tira dritto: «Non siamo dei matti, voglio dimostrare anche ai miei colleghi rettori che si può fare: aumentare i numeri e garantire qualità. Sono convinto che la nostra didattica migliorerà». Le aule? «Ne abbiamo tre da 250 posti, ruoteranno insieme a Odontoiatria e un indirizzo di Biotecnologie». I docenti? «Occorrono 18 professori ogni 60 studenti, dunque 180: noi ne abbiamo 195, divisi circa a metà tra quelli di ruolo e quelli a contratto. E così i posti letto negli ospedali saranno sufficienti per la pratica al quinto e sesto anno. È una questione organizzativa e di buona volontà, è chiaro che qualcuno si lamenterà, ci sarà il solito refrain dello scadimento della didattica. Ma io non la penso così».
Nella vicina Bologna i posti a Medicina sono aumentati del 20%. Ma la crescita che più soddisfa il prorettore alla didattica Enrico Sangiorgi è un’altra: i fondi ministeriali pagano quest’anno il 40% di borse di specialità in più: erano meno di 200 nel 2015, 254 l’anno scorso ora si arriva a 345. «Questo è grandioso perché l’imbuto è tra la laurea e l’accesso alle scuole di specializzazione. E poi avremo 12 borse finanziate dalle Ausl e mancano ancora da conteggiare le borse regionali. Ferrara? Avrà la sua strategia, ognuno fa i conti in casa propria, noi abbiamo chiesto i posti a Medicina in base a quanto potevamo permetterci in termini di risorse, ho chiesto uno sforzo ai dipartimenti medici. E abbiamo intenzione di crescere ancora l’anno prossimo. Ma ci vuole equilibrio. È vero che occorrono più medici, ma bisogna anche formarli bene».

Ivano Dionigi (Presidente AlmaLaurea): “La politica latita il sistema arranca e chi si laurea fugge all’estero”

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato lunedì 1 luglio 2019 da la Repubblica.

“La politica latita il sistema arranca e chi si laurea fugge all’estero”

La ripresa degli iscritti c’è però non riusciamo ancora a tornare ai livelli pre crisi di quindici anni fa

Giudica le immatricolazioni in aumento un bel segnale. Ma a preoccupare Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che analizza le performance dei laureati, sono i segni meno che ancora pesano sull’università italiana, dati che definisce «allarmanti e devastanti, soprattutto per quanto riguarda il Sud e la fuga dei laureati all’estero per i quali la laurea non è un passaporto, ma un vero e proprio foglio di via, l’unico Daspo del Paese».

Professore, le immatricolazioni tengono e in molti casi aumentano sebbene i rettori dicono che il sistema è al limite. La sua analisi?

«Il problema è che non riusciamo ancora a riportare le immatricolazioni a livello pre-crisi, avvenuta nel 2004. In questi 13 anni il saldo rimane negativo: abbiamo perso 45mila matricole. Il Nord ha guadagnato il 4,5%, il Centro ha perso il 13, il Sud il 26. Gli Atenei stanno svolgendo un enorme sforzo nel supplire una politica che latita su cultura e università che certo non sono nelle priorità neppure di questo governo».

Dal vostro Rapporto emerge che ancora oggi l’ascensore sociale è bloccato, perché?

«Purtroppo l’orientamento agli studi continua a farlo lo status sociale e culturale delle famiglie. Fra i laureati si rileva una sovra-rappresentazione dei giovani provenienti da ambienti familiari favoriti. Solo il 22% viene dalla classe operaia. E non ci sono spostamenti rispetto agli anni precedenti. Tra i laureati il 30% ha almeno un genitore in possesso di un titolo universitario, dieci anni fa era il 26,5%. Manca la cultura della laurea. Lo dimostrano anche i dati sulle aziende».

Si riferisce al fatto che i laureati manager in Europa sono il 58%, con una punta in Francia del 72, mentre in Italia siamo al 26%?

«Sì. E se pensiamo a che a parità di condizioni un imprenditore laureato assume il triplo dei laureati capiamo il problema, che è del Paese».

È per questo che non si arresta la fuga all’estero?

«La disponibilità a lavorare all’estero la dichiara il 47%: era il 40 nel 2008. Il 6% dei nostri laureati è partito principalmente perché non trovava lavoro in Italia e perché allettato da offerte più gratificanti. A cinque anni dal titolo un laureato all’estero guadagna 2.266 euro mensili netti, in Italia 1.407 euro. E guardo a un altro saldo negativo: negli ultimi 12 anni a fronte di 394 giovani italiani vincitori di bandi del Consiglio europeo della ricerca andati all’estero abbiamo avuto solo 42 stranieri che sono venuti in Italia. Perdiamo capitale umano, ovvero la testa del Paese. Formiamo delle Ferrari, anche grazie alla scuola superiore, e le regaliamo chiavi in mano».

Lei solleva anche una “questione meridionale” a partire dai dati AlmaLaurea: il 24,6% dei 19enni del Sud ha scelto l’università al Centro-Nord.

«È l’altra vera emergenza del Paese. A cinque anni dalla laurea il 42% dei laureati al Sud va via per cercare lavoro, la questione è drammatica, tra qualche lustro il Sud sarà un guscio vuoto. Ai giovani, anche ai più bravi, non garantiamo due diritti fondamentali che fanno la persona: studio e lavoro. Dovrebbero essere l’urgenza e la priorità per il Paese e non lo è».

Cari ragazzi posti esauriti all’università

Articolo di Ilaria Venturi e Corrado Zunino pubblicato lunedì 1 luglio 2019 da la Repubblica.

Cari ragazzi posti esauriti all’università

Sale il numero chiuso, strutture vecchie. Allarme dei rettori: siamo ormai saturi

Venturi e Zunino_1

Venturi e Zunino_2

L’università italiana scoppia. Cresce, ma poi deve stipare i ragazzi nelle aule. Riceve nuove matricole, ma si spaventa della sua stessa capacità d’attrazione. E così, per non allargarsi troppo – no, il sistema non ha le risorse – limita i suoi corsi migliori, ne programma i numeri, lascia fuori molti ragazzi appena diplomati. Troppi.
Per il quinto anno consecutivo “Repubblica” ha chiesto ai 61 atenei pubblici e statali del Paese i dati sulle singole immatricolazioni: è l’ingresso in ateneo dei post-diplomati (ai corsi di laurea triennali e magistrali a ciclo unico). La risposta singola (all’appello manca solo un ateneo) e collettiva è stata: quelli che varcano per la prima volta le soglie dell’università salgono ancora.
Dell’1,72 per cento. Sono 5.429 neostudenti in più, 89 (in più) in media per ogni università. Un colpo di reni con cui l’università italiana torna a quota 300mila, i livelli precedenti al 2008, la grande gelata che per sei anni ha ibernato il nostro Paese.
Sono cinque stagioni che il sistema accademico cresce nelle immatricolazioni. Un recupero di quasi 28mila ragazzi all’alta formazione che conforta, ma non riempie la voragine del quindicennio 2004-2018: nelle segreterie ancora mancano quasi 45 mila nominativi. La risalita, tuttavia, ha un valore profondo se si tiene conto che la ripresa economica nell’ultimo quinquennio non è mai arrivata e che in questo anno di governo gialloverde la crescita del Pil è stata intorno allo zero.
Il rettore uscente dell’Università di Trieste, Maurizio Fermeglia, spiega dal Nord-Est: «Sui corsi a numero chiuso abbiamo raggiunto i livelli massimi possibili». Da Perugia, e non solo, fanno sapere: «Il numero di domande per i corsi ad accesso programmato locale è superiore ai posti disponibili». Pavia segnala una riduzione delle immatricolazioni alla triennale in Lingue e culture moderne «a seguito dell’introduzione dei limiti». Ecco, le famiglie italiane hanno introiettato il concetto: laurearsi serve, su un piano economico e sociale. E ti rende un cittadino più consapevole. Senza un piano pubblico di investimenti su aule e professori, però, senza un progetto lanciato dalla politica e abbracciato dal Paese, oltre questi numeri il sistema accademico non potrà andare.
I numeri delle matricole nel 2018-2019 ricalcano e migliorano quelli dell’anno scorso: 41 università crescono, 19 diminuiscono. Salgono ancora e in modo deciso le piccole, ma l’exploit della Mediterranea di Reggio Calabria – cresce di oltre un terzo ed è la migliore – spiega bene le politiche costrette a cui si sottopongono i dipartimenti: l’ateneo reggino l’anno scorso era sceso di oltre tre punti percentuali. Sorte contraria alla vicina Magna Grecia di Catanzaro: terza la scorsa stagione, nel 2019 perde sei punti ed è la quinta peggiore. Difficile programmare un cammino forte e armonico con risorse limitate e spazi contingentati. Sull’università italiana c’è la domanda. Ma l’offerta è timida.
Si segnala l’aumento dei neoiscritti anche in provincia. Da due stagioni vanno bene Stranieri di Perugia, Cassino, Sannio e Basilicata. Sono in segno positivo gli atenei dei terremoti dell’Italia centrale: L’Aquila, Camerino, Macerata. Le incertezze di governo, però, e le mancate riforme di Valditara tengono le mani legate a università come Ca’ Foscari e il Politecnico di Milano, che avrebbero risorse interne per investire su se stesse e crescono meno rispetto alle possibilità. «Noi aumentiamo dal 2016, il trend nazionale si è invertito, ma senza uno sforzo su infrastrutture e servizi è difficile continuare a dare qualità, siamo vicini a un livello di saturazione», commenta Michele Bugliesi, rettore di Venezia. Molto bene la Federico II di Napoli. Ancora bene il gigante Sapienza, trainato dai suoi studi classici. Vanno in area negativa università storiche come Firenze, le due torinesi e le due milanesi (Bicocca e Statale).
Nell’Italia in coda alle classifiche europee dei laureati salgono in tanti casi le iscrizioni alla magistrale biennale (280 iscrizioni in più a Cagliari, per esempio): le famiglie sono disposte a sostenere anche un investimento prolungato sui cinque anni. Sembra un Paese maturo, pronto ad aprire una stagione di rinascimento universitario. Dall’Università di Verona spiegano: «I casi critici si limitano ai corsi ad accesso programmato, che tende a intimorire gli studenti». Da settembre all’Alma Mater di Bologna arriveranno i primi sbarramenti anche nell’area umanistica: Dams e Comunicazione (corso fondato da Umberto Eco). Un tetto è stato messo anche a Matematica: «Abbiamo instaurato i numeri programmati per non far crescere gli studenti», osserva il rettore Francesco Ubertini. «Siamo arrivati al limite, non ce la facciamo ad andare oltre. È tempo di decidere, il Paese ha bisogno di più laureati».

Concorsi pilotati, indagato un docente dell’Alma Mater

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato sabato 29 giugno da la Repubblica ed. Bologna.

Concorsi pilotati indagato un docente dell’Alma Mater

Nell’inchiesta denominata “Università bandita” che ha letteralmente travolto l’ateneo di Catania, con la sospensione del rettore, sono coinvolti anche venti professori di altri 14 atenei tra cui l’Alma Mater. Tutti indagati a vario titolo rispetto ai concorsi ritenuti truccati dalla procura catanese. Il nome bolognese che emerge dall’elenco dei docenti coinvolti è quello di Claudio Marchetti, ordinario di Chirurgia maxillo-facciale del dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie, un luminare nel settore. «Non ne so niente, lo imparo da voi. Nessun commento» replica il docente, membro del senato accademico per l’area medica. Marchetti è stato componente della commissione nazionale per l’abilitazione scientifica nel settore concorsuale “Neurochirurgia e chirurgia maxillo-facciale” dal 2016 sino allo scorso anno. L’inchiesta riguarda proprio i concorsi e tira in ballo docenti di tutte la parti d’Italia in quanto commissari nelle procedure concorsuali. Gli inquirenti hanno scoperchiato un vaso di Pandora facendo emergere un codice di comportamento sommerso per predeterminare nell’università di Catania gli esiti dei concorsi, che venivano cuciti addosso a chi doveva vincerli. Nessuno spazio per il merito. Gli altri candidati e chi faceva ricorso erano “da schiacciare”. In tutto questo sarà da capire cosa viene contestato al professor Marchetti, molto noto in particolare negli interventi chirurgici al volto. Da chiarire, e il professore ne avrà modo, il suo ruolo e in quale contesto. L’operazione è stata denominata “Università bandita” e i numeri sono imponenti: nel fascicolo aperto su accertamenti della Digos sono iscritti complessivamente 66 indagati.

Università di Bologna, quel concorso che non trova i commissari a Ingegneria

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato mercoledì 29 maggio 2019 da la Repubblica ed. Bologna.

Quel concorso che non trova i commissari

A Ingegneria già tre volte la gara per due posti da associato è stata bocciata dal Consiglio di Stato. Ora in 14 hanno rifiutato l’incarico

C’è un concorso all’Alma Mater, tormentatissimo, che non trova la parola fine. Esattamente a Ingegneria, dove l’ultimo colpo di scena l’hanno scritto i commissari: ben 14, professori di Scienza delle Costruzioni in cattedra in tutt’Italia, hanno rinunciato all’incarico. E il risultato di quella raffica di dimissioni è che all’oggi una commissione non c’è. Tutti si dicono indisponibili a giudicare i candidati, e a rimanere bloccata è questa vicenda che si trascina da quattro anni, tra battaglie legali e sofferenze, che hanno provocato un terremoto nel dipartimento di Ingegneria civile, chimica ambientale e dei materiali (Dicam): lo stesso del rettore Francesco Ubertini. Un caso spinoso, finito ora sul tavolo del ministro all’università Marco Bussetti.
Il caso scoppia quando una ricercatrice viene esclusa dal concorso per due posti da associato nella materia di Scienza delle Costruzioni. Tre sono i candidati, vincono gli altri due, lei fa ricorso al Tar, che lo rigetta. Il Consiglio di Stato invece l’accoglie, rilevando ogni volta un comportamento delle commissioni in violazione della par condicio nella valutazione, ai danni della ricercatrice. Per ben tre volte i giudici in appello annullano gli atti valutativi della commissione e prescrivono di rifare tutto. Nell’ultima sentenza il Consiglio di Stato fissa pure i criteri cui deve attenersi la commissione per i giudizi, pena il commissariamento. L’Ateneo si muove, dunque, secondo le indicazioni dei giudici. A marzo 2019 nomina una nuova commissione composta da tre membri, stavolta tutti esterni all’Alma Mater. Professori della materia del concorso, coi titoli per fare i commissari. Ma i primi tre docenti incaricati rinunciano, contestando il fatto che i giudici abbiano già indicato i criteri di valutazione, sempre cambiati dalle precedenti commissioni e sempre a svantaggio della ricercatrice. L’università accoglie le dimissioni e ne nomina altri tre. Niente da fare: no grazie, ci dimettiamo. Risposte tutte uguali, nella maggior parte dei casi i professori si trincerano dietro al fatto che c’è poco tempo, 15 giorni secondo la sentenza, per una nuova valutazione. E di tre nomine in tre si è arrivati a metà maggio a ben 14 docenti che hanno rinunciato all’incarico, mentre uno declina affermando di non aver ricevuto comunicazione dall’Ateneo.
Surreale. Mai visto. Al punto che l’avvocata Lucia Annicchiarico, che segue il ricorso della ricercatrice esclusa, scrive al ministro Bussetti e al sottosegretario Lorenzo Fioramonti per chiedere «un controllo di legalità» sulla vicenda. Oltre alla lettera, inviata nei giorni scorsi, parte un nuovo ricorso in cui viene chiesto ai giudici di sostituirsi all’amministrazione universitaria: «È venuto meno il rapporto di fiducia, chiediamo che sia il Consiglio di Stato a nominare direttamente la ricercatrice nel ruolo di associata e solo in subordine un commissario ad acta», spiega la legale.
«I tre candidati interni stanno vivendo una situazione di estrema incertezza che va risolta: questo impasse ci mette in difficoltà anche nella gestione dei corsi», osserva il direttore del dipartimento Alberto Montanari. «Dopo la terza sentenza abbiamo pensato di avvalerci solo di commissari esterni: abbiamo fornito all’Ateneo una prima lista di nove nomi, poi una seconda di altri nove. Ora siamo arrivati agli ultimi tre: se si dovessero dimettere anche loro, dovremmo chiamare docenti dall’estero o di settori affini. Intanto il dipartimento ha deliberato ulteriori due posti da associato per interni, per contribuire a risolvere la situazione. Ma non sarà sufficiente se prima non si sblocca questa storia che vede coinvolti tre candidati che stimo, persone che lavorano da una vita con noi. La situazione che s’è creata è complessa e inusuale: va trovata una soluzione che garantisca imparzialità nei giudizi e tempi brevi».

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Articoli di Ilaria Venturi e Corrado Zunino pubblicati lunedì 26 febbraio 2018 da la Repubblica.

Cosa propongono di fare i partiti per la scuola e l’università?

Sul grande “no” al referendum del 2016 la scuola ha lasciato le sue tracce. Molti docenti si sono vendicati lì della Legge 107, la Buona scuola appunto, subita a colpi di fiducia. E hanno innescato un corto circuito nel governo Renzi che si è ripercosso sull’attuale esecutivo nonostante gli aggiustamenti della ministra Fedeli: abbiamo investito 4 miliardi nell’istruzione, è stato il ragionamento della maggioranza, assunto come non si faceva da anni, fatto ripartire i concorsi, svuotato le graduatorie eppure molti professori ci contestano. Forse perché, come racconta Gaetano da Bologna, in aula restano i problemi di sempre. Nella primavera 2015 si è registrato il più grande sciopero del mondo della scuola e anche il recente rinnovo del contratto è stato motivo di polemiche. Sull’università nelle ultime due stagioni sono tornati i finanziamenti. Ma l’impoverimento degli atenei post-Gelmini (i docenti sono calati del 20% tra il 2008 e il 2013) e la precarizzazione dei ricercatori, vedi Alessandra da Bari, sono diventati ragione per un inedito sciopero dei prof d’università. In questo quadro, ecco le proposte dei partiti per il 4 marzo.

“Stipendi bassi e classi affollate nessuno ci ascolta”

Delusi nonostante il nuovo contratto. Quanti nodi irrisolti per chi sta in aula

Gaetano Passarelli, 49 anni, originario di Potenza, due figli, insegna a Bologna in un istituto tecnico. Il suo percorso è emblematico: supplenze subito dopo il diploma, la laurea e il dottorato di ricerca in Ingegneria elettrotecnica, la doppia abilitazione (docente di laboratorio e insegnante di fisica), dieci anni di precariato prima di ottenere la cattedra di ruolo. Ha quasi trent’anni di anzianità e uno stipendio di 1.580 euro, «più alto della media perché insegno da tanto». «Premetto: stare a scuola è un’avventura meravigliosa. Ma rimaniamo pagati poco rispetto ai colleghi europei, nonostante il recente aumento. E il nostro riconoscimento sociale è sceso a picco, con classi sempre più difficili da gestire. E poi ogni governo cambia le regole, dalla Maturità al reclutamento, senza ascoltare chi vive nella scuola. Pesantissima è la situazione dei precari. La collega dell’aula accanto, supplente, è considerata dagli alunni uguale a me: ma ha meno diritti. Mi aspetto stabilità per lei, stipendi adeguati per tutti. Vorrei insegnare in classi meno numerose, con più strumenti a disposizione: formazione, supporto di pedagogisti e psicologi, aiuti per far crescere professionalmente tutti gli insegnanti».

Partito Democratico

Assunzioni e nuovo contratto, ora più maestri e tempo pieno

Quattro miliardi investiti sulla scuola, 10 nell’edilizia. L’assunzione in tre anni di 132mila docenti, 80 mila con la Buona scuola. Ogni istituto ne ha avuti in media sette in più per potenziare la didattica. E in busta paga? Il contratto bloccato da 10 anni è stato firmato in extremis (con scadenza a fine anno) dalla ministra Fedeli: 96 euro lordi mensili in media di aumento da marzo. Confermati il bonus per i prof migliori (che passa da 200 a 130 milioni nel 2018, il resto torna nello stipendio di tutti) e la card di 500 euro. Infine concorsi nel 2018 per stabilizzare i precari. Non è una lista di impegni elettorali: il Pd punta sulle cose fatte con la Legge 107 per dare risposta agli insegnanti. Sulla mobilità Renzi fa autocritica: «L’algoritmo per i docenti del Sud non ha funzionato come avremmo voluto». Obiettivi? La crescita professionale degli insegnanti, più maestri nelle scuole per combattere la povertà educativa, meno burocrazia e più tempo pieno.

Liberi e Uguali

Stabilizzare tutti i precari, bonus merito da abolire

Gli insegnanti? «Eroi del nostro tempo», premette Leu. L’obiettivo principale è smantellare la riforma della Buona scuola targata Pd. Da qui parte il programma. Grasso ricorda che ci sono ancora 83mila precari. Che fare? «Stabilizzare tutti attraverso un piano pluriennale». E ancora: adeguare gli stipendi che, nonostante il rinnovo del contratto, «rimangono tra i più bassi in Europa»; cancellare il bonus- merito; offrire formazione «continua e di qualità». Nel programma non vengono indicate le risorse per attuare le proposte rivolte ai docenti. Mano tesa ai trasferiti con le immissioni in ruolo attuate nel 2016: «Occorre dare risposta alle vittime di un algoritmo impazzito». La proposta è di un percorso partecipato per “un’altra scuola” che contempli la gratuità degli studi, l’aumento del tempo pieno e l’estensione dell’obbligo scolastico dall’ultimo anno della materna (che si vuole per il 100% dei bimbi in età) all’ultimo delle superiori.

Movimento 5 Stelle

Basta chiamate dirette e stipendi a livello europeo

Per la scuola (e università) il M5S promette nel programma uno stanziamento aggiuntivo di 15 miliardi (senza dire dove prenderli). Di Maio lo ha spiegato a parte: «Eliminando gli sprechi, rilanciando il piano Cottarelli e incentivando il gettito fiscale». L’attacco è alla Legge 107: da abrogare. Il capitolo dedicato al personale accontenta tutti: insegnanti già in cattedra, supplenti, laureati e con il diploma magistrale. «Censire i precari», l’indicazione. Tra le promesse, un piano di assunzioni in base al fabbisogno delle scuole; stipendi adeguati alla media europea con abolizione della card e del bonus premiale (da restituire a tutti in busta paga); l’eliminazione della chiamata diretta dei docenti da parte dei presidi; il monitoraggio del percorso introdotto dal governo (e votato dal M5S) per l’accesso al ruolo: concorso, tre anni di formazione, tirocinio e supplenze prima dell’assunzione. Sulle scuole private: via i fondi, non alle materne.

Coalizione di Centro-Destra

Neoassunti su base regionale, più poteri ai presidi

Nel triennio 2009-2011 la Tremonti-Gelmini ha tagliato 8 miliardi di euro alla scuola: 87.400 cattedre e 44.500 posti per il personale Ata (amministrativi e bidelli) perduti con il centrodestra al governo. Ora il programma sulla scuola sta in una pagina e pochi punti che partono dalla «libertà di scelta delle famiglie nell’offerta educativa». Dunque fondi alle private. E poi abolizione delle “storture” della Buona scuola (non si precisa quali). Salvini invece twitta: «Sarà una delle prime leggi che cambieremo». E così Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia: «Legge da asfaltare». Rispetto agli insegnanti la Lega propone una vecchia idea dei tempi di Bossi: il federalismo scolastico, con stipendi dei docenti legati a quelli dei funzionari regionali. I neoassunti saranno assegnati a una Regione, spiega Elena Centemero (Fi) che aggiunge: più poteri ai presidi nella chiamata dei docenti.

“Precaria in facoltà da dodici anni datemi un futuro”

La trafila infinita di chi aspira a entrare. L’incubo di tornare a casa a fine contratto

Alessandra Operamolla ha 40 anni ed è una chimica con un buon curriculum (un brevetto depositato) e dodici anni di precariato. Si è laureata all’Università di Bari, ha preso il dottorato di ricerca e per otto stagioni ha infilato una litania di collaborazioni, assegni di ricerca e contratti al Dipartimento di chimica e poi a Farmacia. «Per un periodo sono rimasta disoccupata, otto mesi senza reddito. Non esisteva ancora la Dis.coll., l’indennità mensile, e per rifinanziarmi sono andata a cercare una borsa di studio in Austria». La continua ricerca di denaro toglie tempo alla ricerca scientifica. «Adesso lavoro da sola a un progetto sulla cellulosa. Credo che tutti, a partire dai partiti, dovrebbero considerare i ricercatori come normali lavoratori, non sognatori che devono fare la fame per inseguire la loro passione. Abbiamo bisogno di tranquillità, e di poter progettare. Tra dieci mesi finisce il mio contratto di Tipo A, 1.800 euro netti al mese: li paga la Regione Puglia e per ora non ci sono fondi per un rinnovo di altri due anni. In Puglia siamo in 170 in questa situazione. Al prossimo ministro? Chiedo solo di aumentare i finanziamenti per la ricerca».

Partito Democratico

Altri diecimila ricercatori nei prossimi cinque anni

Gli ultimi due governi di centrosinistra nelle Leggi di bilancio ‘16 e ‘17 hanno iniziato a reinvestire sull’università. Con la Finanziaria 2017 sono stati reclutati 1.300 nuovi ricercatori (altri 300 negli enti di ricerca). Il Pd ha sostenuto il premio per i dipartimenti di eccellenza e le chiamate dall’estero per i docenti, ma sono state fermate le Cattedre Natta (500 assunzioni dirette degli atenei). Il Fondo Ffo nel 2017 è passato da 6,957 miliardi a 7,011. Niente tasse per gli studenti con redditi familiari fino a 13.000 euro. Rivalutate le borse di dottorato e cresciute le borse di studio: molti studenti idonei, però, ancora non la ricevono. Sono stati sbloccati gli scatti dei docenti. Il programma Pd prevede: 10mila ricercatori di Tipo B in più nei prossimi 5 anni, soppressione dei punti organico e un’Agenzia nazionale della ricerca. Replica a Napoli dello Human Technopole di Milano e piano per l’edilizia.

Liberi e Uguali

Via le tasse per gli studenti e aumentare le borse di studio

Per le università italiane Liberi e uguali chiede “l’obiettivo della gratuità”: abolizione delle tasse per gli studenti e potenziamento del diritto allo studio (in Italia solo il 10 per cento degli universitari hanno borse di studio). Leu chiede di far crescere il finanziamento ordinario del sistema negoziando con l’Unione europea un aumento di Pil “fuori dal patto di stabilità”: in cinque anni 20.000 nuovi ricercatori negli atenei e 10.000 negli Enti di ricerca. Ridefinire dalle fondamenta l’Agenzia di valutazione Anvur: “Autonomo dalla politica e con personalità inattaccabili”. Sulla valutazione si chiede una Conferenza nazionale: “Basta con la logica di competizione tra gli atenei”. Superare il numero chiuso nei corsi di laurea e “no” alla scadenza dell’Abilitazione scientifica. “Il 3+2 si può rivedere”. Bisogna tornare al ministero dell’Università e della ricerca (Murst) e nuovi fondi per la ricerca di base, anche umanistica.

Movimento 5 Stelle

Risorse maggiori per gli atenei con criteri diversi da oggi

Il programma per università e ricerca del M5S è il più esteso e articolato. Il Movimento intende aumentare la quota del Fondo ordinario, ma non indica di quanto. La “quota premiale” deve diventare aggiuntiva e non “a sottrazione”. Nel riparto delle risorse per ogni ateneo si dovrà tener conto del successo dei laureati nel mondo, del reclutamento di giovani ricercatori, della diminuzione dei docenti di ruolo improduttivi. Si prevedono “specifici finanziamenti” per gli atenei in zone depresse. Il programma M5S vuole reintrodurre il ricercatore a tempo indeterminato, obbligarlo ad attività didattiche e sopprimere i ricercatori di Tipo A e Tipo B e gli assegnisti di ricerca. Viene ipotizzata un’unica figura di docente (oggi sono due: associati e ordinari) e si indica la necessità di limitare i ruoli extra-accademici dei professori verificando lo svolgimento dei compiti didattici.

Coalizione di Centro-Destra

Ministero solo per l’università e azzeramento del precariato

Il Decreto Brunetta, ministro della Pubblica amministrazione dell’ultimo governo di centrodestra del Paese, ha tagliato un miliardo e 441 milioni di euro al Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) delle università, tra il 2009 e il 2013. La Legge Gelmini, approvata nel dicembre 2010, ha limitato gli incarichi di rettore (sei anni non rinnovabili), soppresso diversi corsi di laurea (alcuni pleonastici), avviato il taglio del 20 per cento delle cattedre universitarie e reso strutturale il ricercatore precario (assegnista rinnovato ogni anno e ricercatore di “Tipo B”, tre anni non rinnovabile). Oggi nei dieci punti del programma del centrodestra al punto 7 si legge: “Azzeramento progressivo del precariato”, quindi: “Rilancio dell’università per farla tornare piattaforma primaria della formazione”. Renato Brunetta ha dichiarato che università e ricerca devono avere un ministero separato dalla scuola.

Maurizio Bettini (Università di Siena): “Il latino è una garanzia di flessibilità per il lavoro”

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato mercoledì 14 febbraio 2018 da la Repubblica.

Maurizio Bettini: “È una garanzia di flessibilità per il lavoro”

Maurizio Bettini, docente di filologia classica all’università di Siena, non è sorpreso dal boom degli iscritti ai test per la certificazione del latino.

Perché professore?

«Questo fenomeno si inserisce nella grande ripresa dell’interesse per gli studi classici. Aumentano gli iscritti nei licei dove si studiano greco e latino, ma è cresciuto anche l’impegno dei professori nel portare fuori dalle aule queste materie in modo intelligente. Penso alla Notte dei licei classici o all’aver messo in scena al mercato di Ballarò a Palermo la rappresentazione dell’Odissea fatta dai ragazzi».

Questa certificazione può aver un’utilità anche nel mondo del lavoro?

«Se fossi un datore di lavoro non avrei dubbi: la conoscenza del latino è una garanzia».

Di cosa?

«Di flessibilità, capacità di affrontare rapidamente problemi complessi. Il latino è una materia impegnativa che serve a far riflettere sulla propria lingua e che ti costringe a mobilitare categorie cognitive».

E dire che viene considerata una lingua morta

«È un’idea davvero sbagliata. Il latino continua a vivere nelle lingue romanze, parlate nella maggior parte del mondo. Anche nell’inglese è alta la percentuale del lessico che viene dal latino. Alcune università americane chiedono una conoscenza di un certo numero di parole nei test di accesso e per la maggior parte sono parole latine, perché quello che si vuole verificare è la conoscenza di un lessico intellettuale».

Ma cosa spinge a partecipare a queste prove per ottenere una certificazione?

«Motivazioni più profonde. Il latino non è solo una lingua, ma un patrimonio culturale. Che non si vuole perdere».