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Ivano Dionigi (Presidente AlmaLaurea): “La politica latita il sistema arranca e chi si laurea fugge all’estero”

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato lunedì 1 luglio 2019 da la Repubblica.

“La politica latita il sistema arranca e chi si laurea fugge all’estero”

La ripresa degli iscritti c’è però non riusciamo ancora a tornare ai livelli pre crisi di quindici anni fa

Giudica le immatricolazioni in aumento un bel segnale. Ma a preoccupare Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario che analizza le performance dei laureati, sono i segni meno che ancora pesano sull’università italiana, dati che definisce «allarmanti e devastanti, soprattutto per quanto riguarda il Sud e la fuga dei laureati all’estero per i quali la laurea non è un passaporto, ma un vero e proprio foglio di via, l’unico Daspo del Paese».

Professore, le immatricolazioni tengono e in molti casi aumentano sebbene i rettori dicono che il sistema è al limite. La sua analisi?

«Il problema è che non riusciamo ancora a riportare le immatricolazioni a livello pre-crisi, avvenuta nel 2004. In questi 13 anni il saldo rimane negativo: abbiamo perso 45mila matricole. Il Nord ha guadagnato il 4,5%, il Centro ha perso il 13, il Sud il 26. Gli Atenei stanno svolgendo un enorme sforzo nel supplire una politica che latita su cultura e università che certo non sono nelle priorità neppure di questo governo».

Dal vostro Rapporto emerge che ancora oggi l’ascensore sociale è bloccato, perché?

«Purtroppo l’orientamento agli studi continua a farlo lo status sociale e culturale delle famiglie. Fra i laureati si rileva una sovra-rappresentazione dei giovani provenienti da ambienti familiari favoriti. Solo il 22% viene dalla classe operaia. E non ci sono spostamenti rispetto agli anni precedenti. Tra i laureati il 30% ha almeno un genitore in possesso di un titolo universitario, dieci anni fa era il 26,5%. Manca la cultura della laurea. Lo dimostrano anche i dati sulle aziende».

Si riferisce al fatto che i laureati manager in Europa sono il 58%, con una punta in Francia del 72, mentre in Italia siamo al 26%?

«Sì. E se pensiamo a che a parità di condizioni un imprenditore laureato assume il triplo dei laureati capiamo il problema, che è del Paese».

È per questo che non si arresta la fuga all’estero?

«La disponibilità a lavorare all’estero la dichiara il 47%: era il 40 nel 2008. Il 6% dei nostri laureati è partito principalmente perché non trovava lavoro in Italia e perché allettato da offerte più gratificanti. A cinque anni dal titolo un laureato all’estero guadagna 2.266 euro mensili netti, in Italia 1.407 euro. E guardo a un altro saldo negativo: negli ultimi 12 anni a fronte di 394 giovani italiani vincitori di bandi del Consiglio europeo della ricerca andati all’estero abbiamo avuto solo 42 stranieri che sono venuti in Italia. Perdiamo capitale umano, ovvero la testa del Paese. Formiamo delle Ferrari, anche grazie alla scuola superiore, e le regaliamo chiavi in mano».

Lei solleva anche una “questione meridionale” a partire dai dati AlmaLaurea: il 24,6% dei 19enni del Sud ha scelto l’università al Centro-Nord.

«È l’altra vera emergenza del Paese. A cinque anni dalla laurea il 42% dei laureati al Sud va via per cercare lavoro, la questione è drammatica, tra qualche lustro il Sud sarà un guscio vuoto. Ai giovani, anche ai più bravi, non garantiamo due diritti fondamentali che fanno la persona: studio e lavoro. Dovrebbero essere l’urgenza e la priorità per il Paese e non lo è».

Ivano Dionigi (Presidente AlmaLaurea):«Servono figure rinascimentali»

Articolo di Eugenio Bruno pubblicato lunedì 24 giugno 2019 da Il Sole 24 Ore.

«Servono figure rinascimentali»

La sfida è umanesimo collegato alla tecnologia

«Le competenze trasversali sono fondamentali. Sono il pane quotidiano dei ragazzi. E bisogna rompere le gabbie disciplinari. Lo diceva già Steve Jobs: guai all’ingegnere monoculturale. Oggi abbiamo bisogno di figure rinascimentali. Prendiamo le lauree “Stem”, che negli Stati Uniti già dal 2006 sono diventate “Steam” perché hanno inserito la “a” di arts proprio ispirandosi al nostro Rinascimento. Finirà che noi li copieremo tra dieci anni». A sottolinearlo è Ivano Dionigi, presidente del consorzio universitario AlmaLaurea, che ritiene la scelta dell’università giusta soprattutto un fatto di «cultura».

Cultura che torna più volte nel suo ragionamento. Nel ribadire che «laurearsi conviene», come i dati di AlmaLaurea ricordano tutti gli anni, l’ex rettore di Bologna spiega: «Questo Paese ha bisogno di orientamento e di programmazione. Non può affidarlo alla buona volontà di qualche università o di qualche liceo. Ma deve farsene carico il ministero». E, a proposito dell’Italia ancora penultima per numero di laureati, aggiunge: «Serve una cultura della laurea. Che non significa solo più occupazione e più retribuzione, ma anche sapersi muovere meglio nei periodi di crisi. Chi più conosce meno ha paura e più se la cava nella vita». Ai ragazzi consiglia di seguire anche gli «interessi personali». E indica nei diritti umani, nel destino del pianeta e nel pensiero umanistico collegato alla tecnologia le nuove sfide che le università devono cogliere.

Ma lo stesso deve fare anche la politica, che ha eliminato la scuola e l’università dal suo orizzonte: «Non si può tollerare che questo Paese abbia ancora ombre medioevali per cui chi è figlio di farmacisti fa farmacia e chi ha un laureato in giurisprudenza in casa fa giurisprudenza». Perché, ricorda Dionigi urbi et orbi, lo studio «era e resta un diritto di tutti».

Il latino ora fa curriculum, la nuova vita della lingua morta

Articolo di Ilaria Venturi pubblicato mercoledì 14 febbraio 2018 da la Repubblica.

Il latino ora fa curriculum, la nuova vita della lingua morta

Oltre tremila studenti si presenteranno ad aprile, in tutta Italia, ai test che certificano le conoscenze dell’antico idioma. Sul modello degli esami “Cambridge”, forniranno crediti

Il latino fa curriculum. Crescono gli studenti iscritti ai test che certificano le conoscenze dell’idioma degli antichi romani: in oltre tremila si presenteranno alla prova, dalla Sicilia alla Lombardia, fissata nelle scuole e università in aprile per ottenere un attestato sul modello degli esami Cambridge per l’inglese. Da spendere per ottenere crediti per la Maturità e per avere “sconti” negli esami a Lettere. Ma anche da inserire tra le competenze da presentare in un colloquio di lavoro: lingue conosciute? Inglese, francese e perché no, latino. Quello che è partito in Liguria quasi in sordina da alcuni anni, con 300 iscritti, è diventato un fenomeno che si è allargato a macchia d’olio. La Lombardia traina, con oltre mille candidati, stessi numeri in Veneto. In Sicilia gli iscritti, triplicati in tre anni, ora sono 600. Il Piemonte ha aperto le iscrizioni per l’esame che si terrà per la prima volta il 12 aprile. L’Emilia Romagna si prepara a una prova in cui saranno ammessi 600 studenti. La supervisione è affidata alla Consulta dei professori universitari di latino e passa attraverso protocolli firmati con gli uffici scolastici regionali. I prossimi a partire o in dirittura d’arrivo sono in Lazio, dove c’è la percentuale più alta di iscritti al liceo classico, Campania, Puglia e Basilicata. «L’obiettivo è arrivare a un’intesa col ministero per fare diventare questo test una prova di carattere nazionale», spiega Paolo De Paolis, presidente della Consulta. «L’approccio della certificazione mette il latino vicino alle lingue moderne». Sono quattro i livelli, da quello base all’intermedio (A1, A2, B1 e B2). La prova non prevede traduzioni, ma parafrasi, domande sul significato di cuius, ut, sibi. Tra i tanti liceali e universitari, si presenta al test anche chi vuole verificare studi fatti in passato. Ma i latinisti scommettono anche sulla spendibilità nel mondo del lavoro. Non solo loro. «Vediamo in modo favorevole la certificazione del latino in un curriculum. Significa che il candidato ha la capacità di “problem solving”, sa affrontare situazioni complesse e ha capacità logiche», spiega Isabella Covili Faggioli, presidente dell’associazione dei direttori del personale. È il segnale di ripresa di una lingua data per morta, che passa anche dall’aumento degli iscritti nei licei classici, sino al fiorire nella letteratura per l’infanzia di volumi di successo come la traduzione in latino del Diario di una schiappa e Latin Lover di Mino Milano, novità della Fiera del libro per ragazzi. «Anche se fosse una moda meglio questa di altre», osserva il latinista Ivano Dionigi. «Oltre all’utilità, dietro al fenomeno delle certificazioni intravvedo la ricerca, anche inconsapevole, dei ragazzi di un maggior rigore, di un antidoto al video-analfabetismo e alla fragilità imperante».

Altro giro, altra vergogna: siamo l’unico Paese al mondo in cui i laureati sono un problema

Articolo di Francesco Cancellato pubblicato mercoledì 4 ottobre 2017 dal sito di Linkiesta.

Altro giro, altra vergogna: siamo l’unico Paese al mondo in cui i laureati sono un problema

Orientamento inesistente, stipendi da fame, tasso di occupazione in calo persistente: ecco come l’Italia sta bruciando i migliori cervelli che ha a disposizione. Per pigrizia. E perché, evidentemente, del futuro non gliene frega nulla

Se il sapere è la chiave per entrare nel futuro, l’Italia rimane fuori. No, non stiamo esagerando. Perché se è vero che altrove – più o meno ovunque nel mondo, dalla Cina all’India, dagli Stati Uniti all’Africa – le nuove generazioni mordono il freno a colpi di master e Phd, facendo dello studio la loro arma di emancipazione e la loro scala per il successo, in Italia si è scelta la strada diametralmente opposta.

Riassunto delle puntate precedenti: già siamo penultimi in Europa per il numero di laureati e con un abbandono universitario monstre, che si aggira attorno al 38%. A questo, aggiungeteci pure che noi, dal basso della nostra crescita asfittica e della nostra disoccupazione da record, ci permettiamo pure di prendere a pesci in faccia i laureati. Lo spiega brutale il Rapporto Almalaurea 2017, presentato pochi giorni fa, che ha elaborato nella sua analisi le risposte di oltre 270mila laureati in 71 atenei italiani. Che raccoglie numeri che fanno rabbrividire. E dei quali, ancora peggio, in pochi sembrano averne compreso la gravità.

Primo: non garantiamo loro un posto di lavoro, anzi. E farebbe sorridere, se non ci fosse da piangere, che negli ultimi dieci anni il tasso di disoccupazione dei laureati sia addirittura aumentato di otto punti percentuali. Che dopo un anno, due laureati magistrali su dieci siano ancora senza lavoro. E che l’Italia sia l’unico Paese tra i grandi d’Europa ad aver visto decrescere, negli ultimi dieci anni, gli occupati in posti ad alta specializzazione. Due numeri: nel Regno Unito sono passati dal 28,1% al 36,1% sul totale. Da noi sono diminuiti dal 18,8% al 18%.

Secondo: li paghiamo un tozzo di pane. Anzi, mezzo. A un anno dalla laurea la retribuzione di un laureato magistrale che è riuscito a trovare lavoro è pari a 1153 euro, 143 euro in meno rispetto a quanto avrebbe preso nel 2007. Ancora: fatta 100 la retribuzione di un diplomato, quella di un laureato italiano è pari a 142, quella di un laureato tedesco (in proporzione a un diplomato tedesco) è pari a 158.

Farebbe sorridere, se non ci fosse da piangere, che negli ultimi dieci anni il tasso di disoccupazione dei laureati sia addirittura aumentato di otto punti percentuali. Che dopo un anno, due laureati magistrali su dieci siano ancora senza lavoro. E che l’Italia sia l’unico Paese tra i grandi d’Europa ad aver visto decrescere, negli ultimi dieci anni, gli occupati in posti ad alta specializzazione

Che si fa, quindi? Una modesta proposta potrebbe arrivare, ancora, dai dati Almalaurea. Che racconta pure di una mandria di diciottenni che sceglie l’università al buio e che si ritrova nella maggioranza dei casi – il 52% lo scorso anno – a frequentare proprio i corsi di laurea che garantiscono meno possibilità di occupazione, più precisamente quelli che afferiscono all’ambito sociale e umanistico. Sembra un problema da poco, ma l’ex rettore dell’Università di Bologna Ivano Dionigi, che di Almalaurea è presidente, ha detto che «l’orientamento è il problema dell’Italia».

Sembra un problema da poco, ma è sintomatico dei guai dell’Italia: per pigrizia, conservatorismo, o per motivi che nulla hanno a che vedere con la trasmissione del sapere, sprechiamo un sacco di tempo e un sacco di soldi per condannare i ragazzi alla disoccupazione o a lavori sottopagati. Semplicemente, perché non abbiamo tempo e voglia per comprendere insieme a loro cosa sono bravi a fare e cosa convenga a loro fare. O peggio ancora perché non ce ne frega nulla. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un futuro da badanti e camerieri, se ci va bene. Ma con la laurea in lettere.

Tutte le lauree che fanno trovare lavoro

Articolo di Catia Baroni pubblicato lunedì 2 ottobre 2017 dall’inserto Affari&Finanza di la Repubblica.

Tutte le lauree che fanno trovare lavoro

Studiare ingegneria, infermieristica, fisioterapia, tecniche di radiologia medica, ostetricia è diventato un investimento sicuro per il futuro: si trova lavoro e si guadagna di più. Il tasso di occupazione è superiore al 90% e le retribuzioni vanno dai 1.717 euro per gli ingegneri ai 1.509 euro per le professioni sanitarie. Li seguono, a breve distanza, i laureati in ambito economico-statistico, scientifico, chimico e architettura. Maglia nera, invece, per gli psicologi, i letterati e gli insegnanti che oltre ad avere più difficoltà a trovare un impiego, non raggiungono neanche i 1.200 euro al mese. La fotografia scattata da AlmaLaurea è chiara, eppure la scelta degli studenti va spesso in un’altra direzione: nell’anno accademico 2015/2016 (dati Ministero Istruzione) il 52,8% delle nuove matricole si è concentrato proprio nelle macro-aree disciplinari che faticano a offrire opportunità di lavoro adeguate: l’ambito sociale (33,8%) e umanistico (19%).

Che cosa non funziona? Secondo gli esperti del settore manca un percorso ragionato che aiuti i ragazzi a identificare l’università più idonea nell’ottica di trovare un impiego: «L’orientamento è diventato “il problema” dell’Italia: gli studenti non scelgono consapevolmente, le famiglie spendono soldi e il Paese si indebolisce», dice l’ex rettore bolognese Ivano Dionigi, oggi presidente di AlmaLaurea. Per giunta i giovani non sanno più a chi rivolgersi, come conferma Gianmarco Manfreda, portavoce nazionale della Rete degli studenti medi: «Chiedono aiuto ai fratelli maggiori o agli amici che studiano fuori sede, e mentre schizzano da un open day all’altro si affidano spesso ai ranking degli atenei sull’occupazione dei laureati». E’ l’Italia dei disorientati, il Paese che si distingue per l’alto tasso di abbandono universitario (pari al 38,7%, rapporto Anvur 2016) ed è penultimo in Europa per il numero di laureati (il 18% nella fascia 25-64 anni e il 26% tra i 25 e i 34 anni, rapporto Ocse Education at a glance 2017).

«L’orientamento universitario in Italia è inesistente, sono pochi gli atenei che mettono in campo competenze scientifiche per poter fare un lavoro di qualità», aggiunge Elisabetta Camussi, presidente della Rete servizi di orientamento dell’Università Bicocca di Milano. «Tra i delegati all’orientamento delle accademie italiane ci sono biologi, storici del diritto, ingegneri – sottolinea Camussi – tutti colleghi con una visione strategica, a cui però va affiancata una competenza specialistica: la psicologia dell’orientamento è una disciplina scientifica a livello internazionale, ed abbiamo figure formate». Nel nostro Paese ci sono atenei che lavorano bene, ma è il quadro nel suo complesso a preoccupare: «Le operazioni di orientamento universitario sfociano nella migliore delle ipotesi in un buon marketing, nella peggiore delle ipotesi in un “ti dico e poi deciderai”, ma tutto questo non basta, manca una vera progettualità di Life Design».

La nostra progettualità assente, che aggrava l’ingresso nel mondo del lavoro, all’estero è una prassi. Gli inglesi hanno dei centri servizi di orientamento che partono prima dell’entrata all’università. Sui siti delle principali scuole del Paese c’è un assessment center, la struttura che prende in carico tutti i potenziali aspiranti: «La loro filosofia è mettere risorse per tutti. Un mio collega inglese, che è stato consulente del lavoro del governo Blair, diceva sempre ‘noi non potremo mai salvare tutti ma potremo sempre fare moltissimo per moltissimi”», ricorda Elisabetta Camussi. «In Germania sono addirittura gli insegnanti stessi a scegliere quale studio secondario far intraprendere agli alunni – aggiunge Attilio Oliva, presidente dell’Associazione TreeLLLe – il consiglio di classe si riunisce e decide». Dulcis in fundo, alla Nelson Mandela Metropolitan University (Sudafrica) si sta sperimentando lo sviluppo di carriera dei bambini. che non significa far fare test di medicina a 4 anni, ma partire da una idea e ragionare su un percorso possibile.

E in Italia? Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea, sostiene che in questi anni le università hanno svolto un’opera di supplenza, ma non basta: «In Italia manca una vera politica di orientamento, che significa anche stabilire il numero esatto di medici, laureati in lettere e in ingegneria necessari alle nostre esigenze. Le istituzioni cominciano a sentire il problema, ma si dovrebbe fare molto di più». Sulla stessa linea si posiziona la professoressa Elisabetta Camussi: «A parte una generica declaratoria dove si dice che bisogna fare orientamento, non c’è un mandato ministeriale su questo, un modello di riflessione. Lo dimostra l’incongruenza assoluta tra l’aumentare del numero chiuso, legato alle risorse dell’università, e il fatto che ci chiedano di crescere come numero di laureati». Spesso, infatti, in Italia si pensa che dare informazioni significhi fare orientamento.«Ma non è così, è solo la parte di un processo molto più ampio – mette in luce Stefania Milani, capo settore Orientamento, Comunicazione ed Eventi dell’Università Milano-Bicocca – noi, ad esempio, abbiamo educatori, formatori, psicologi per accompagnare gli studenti non solo nel momento della scelta ma durante tutto il percorso di studi». E poi ci sono gli open day, ma anche le giornate in cui gli studenti delle scuole superiori possono vivere come una matricola dell’Ateneo, i laboratori dedicati solo ai genitori, i tutor per i nuovi iscritti. «Tutti fanno informazione, ognuno si occupa del suo pezzo di orientamento: nelle migliori delle esperienze si fa anche un po’ di rete, il problema è che non è ancora un sistema consolidato – conclude Stefania Milani – probabilmente anche questo ha un peso».

Lauree

Luigi Dei, Gaetano Manfredi, Giuseppe De Luca, Elisa Marchetti, Giovanni Brugnoli, Alessandro Pezzella, Carlo Ferraro, Francesco Verducci intervengono sui problemi dell’Università italiana (da La radio ne parla, Rai Radio 1, puntata del 12/09/2017, podcast)

La radio ne parla – puntata di martedì 12 settembre 2017.

In un Paese penultimo in Europa per numero di laureati, dove chi esce dall’università fatica a trovare un’occupazione adeguata alla sua preparazione, sono ancora tanti i nodi da sciogliere: dal numero chiuso, agli investimenti insufficienti, allo sciopero dei docenti e ricercatori che agita le facoltà.

Sono intervenuti: Luigi Dei, rettore dell’Università di Firenze; Gaetano Manfredi, rettore dell’Università Federico II di Napoli e presidente CRUI; Giuseppe De Luca, prorettore dell’Università Statale di Milano; Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale UDU; Giovanni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria; Alessandro Pezzella, ricercatore presso l’Università Federico II di Napoli; Carlo Vincenzo Ferraro, coordinatore del Movimento per la dignità della docenza universitaria; Francesco Verducci, responsabile Università e Ricerca del Partito Democratico. Con l’intervista di Maria Teresa Bisogno a Ivano Dionigi, presidente di Almalaurea.

Puoi scaricare il podcast qui