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Fino a 30 scuole per un preside. “Così diventiamo passacarte”

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato giovedì 4 gennaio 2024 da il Fatto Quotidiano.

Tagli e Istituti: di cosa stiamo parlando. Nel Pnrr è stata prevista la riorganizzazione del sistema scolastico che include l’assegnazione dei dirigenti scolastici (e quindi delle autonomie) sulla base della popolazione scolastica regionale invece che per istituto, come finora. È legato alla prospettiva del calo demografico e alla necessità di eliminare le reggenze, ovvero la gestione multipla da parte dei presidi degli istituti sotto i 600 alunni (400 in piccole isole e comuni montani). Comuni e Regioni hanno promosso diversi ricorsi contro la nuova norma, ma la Consulta ha stabilito che sul tema specifico prevale la competenza statale.

Ecco cosa accadrà, racconta Andrea Codispoti, dirigente scolastico cosentino: dall’accorpamento amministrativo dei plessi scolastici di Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, e Scigliano, potrebbero esserci 65 chilometri da percorrere se un genitore volesse incontrare con urgenza il dirigente scolastico. O ancora, i docenti potrebbero dover scegliere tra queste due sedi per continuare a insegnare nella stessa scuola. Già, perché gli edifici non saranno tagliati ma la loro gestione sì: molti dirigenti e personale amministrativo, con il dimensionamento scolastico in arrivo a settembre, vedranno aumentare la platea di lavoro, lavoratori e studenti e sedi da gestire. Ufficialmente in nome dell’efficienza, in realtà in nome del risparmio.

I Comuni, le Regioni e anche (una parte dei) dirigenti scolastici si oppongono al piano che, inserito nel Pnrr, riduce le autonomie scolastiche da circa 8mila a poco più di 7mila in un triennio, per poi proseguire fino al 2032. Una battaglia senza esclusione di colpi: ricorsi e sentenze di Tar, Consiglio di Stato e Consulta. Alla fine la ragione è andata al ministero di Giuseppe Valditara: il dimensionamento va fatto, lo Stato ha competenza in materia, gli enti locali decidono come. Pur di non assumere nuovo personale, meglio dunque prevedere maxi scuole da almeno 900 alunni (finora il limite minimo per avere un dirigente era 600) salvo casi eccezionali. Chi sostiene la riforma dice che è un modo per eliminare le reggenze e ottimizzare il sistema: in realtà è un modo per razionalizzare, accorpando, il personale invece di assumerne di nuovo. Con non poche difficoltà. Al punto che in molti casi è stata FdI stessa a spingere perché in CdM si approvasse una deroga del 2,5% delle istituzioni da tagliare almeno per il primo anno e si prorogasse fino a domani la scadenza per la presentazione dei piani mentre il ministro dell’Istruzione annunciava 21 milioni l’anno per l’arrivo dei vicari, docenti esautorati dall’insegnamento per fare da stampella dirigenziale dove ce ne sia bisogno. Uno strano gioco delle tre carte, ma a ribasso visto che comunque non basteranno.

Basti pensare al caso calabrese raccontato da Tuttoscuola. Qui, alla fine del procedimento, saranno soppresse quasi un quarto delle istituzioni esistenti. “Le 360 istituzioni scolastiche funzionanti in questo anno scolastico si ridurranno di 79 unità già dal 2024/25…attestandosi alla fine a 276″. Saranno soppresse in tutto 84 istituzioni scolastiche, il 23,3%, e gli accorpamenti sfoceranno in situazioni al limite del controllo e della gestione da parte della dirigenza scolastica preposta e dei Direttori dei Servizi Generali e Amministrativi coinvolti”. Con un ulteriore aggravio: se nel 2001 ciascun dirigente scolastico si occupava in media di 3,9 sedi scolastiche, nel 2022 era arrivato a 5,2. Nel 2032, è la prospettiva, ciascuno ne seguirà in media 6,1. “Qualcuno si dividerà anche tra 20 o 30 sedi a decine di chilometri di distanza” conclude Tuttoscuola.

“Il dimensionamento è stato poi fatto davvero male – continua Codispoti, che è anche segretario regionale Uil Scuola -: ci saranno degli istituti che manterranno la loro autonomia con poco più di 200 alunni, nonostante non siano in zone ad alto rischio e altri che raggiungeranno quote di 1.600 alunni e in cui sarà impossibile concentrarsi sulla qualità della formazione e della relazione con docenti e famiglie. Saremo semplici firma carte”. La libertà lasciata agli enti locali di redigere i piani ha favorito infatti scelte arbitrarie o basate sul colore politico. O scontri. A Vibo Valentia, per dire, la Provincia non aveva approvato il piano, i consiglieri hanno abbandonato l’assemblea in protesta e hanno fatto cadere il numero legale. La Provincia di Cosenza ha invece dovuto correggerlo. Nel resto d’Italia non va meglio: in Puglia, l’Itet dell’istituto Bozzini Fasani di Lucera, che quest’anno compie un secolo, perderà la sua autonomia; in Basilicata le scuole delle aree interne sono in subbuglio. Ovunque, vince chi grida di più o chi, nel peggiore dei casi, ha colore politico favorevole.

Vince il candidato unico, i prof congelano il concorso all’Università di Perugia

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato martedì 25 giugno 2019 da il Fatto Quotidiano.

Vince il candidato unico, i prof congelano il concorso

Sospesa dal Senato accademico la nomina di un ricercatore di Diritto privato, segnalate “anomalie” nel bando e “assenza dei requisiti”. Chiesto un parere all’Avvocatura, informati Anac e ministero. Una docente: “Non c’è trasparenza”

Non c’è pace per l’Umbria: dopo le inchieste sulla sanità e le dimissioni della governatrice del Pd Catiuscia Marini, ora è un concorso universitario per un posto da ricercatore in Diritto privato ad agitare le acque. “Un concorso con modalità anomale – spiega al Fatto Simona Carlotta Sagnotti, ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Perugia – al punto da spingermi a fare richiesta di accesso agli atti per verificare i miei dubbi. Le mie perplessità non sono risolte”. Anzi: l’esito è stato sospeso e il Senato accademico ha chiesto un parere all’Avvocatura di Stato per un parere. “Come se non bastasse – dice la Sagnotti – non mi hanno voluto dare spiegazioni in consiglio di dipartimento. Non c’è trasparenza”.

Ma andiamo con ordine. Parliamo di un bando per un posto di ricercatore di tipo “b” in Diritto privato. È uno di quei posti che, dopo tre anni e l’abilitazione nazionale, permette di diventare professore associato e quindi è fra i più ambiti per chi vuole fare carriera universitaria. L’avviso per la selezione, ad agosto del 2018, è così dettagliato e così targhettizzato che il sito www.trasparenzaemerito.org segnala subito l’anomalia dei requisiti, ritenuti troppo stringenti e legati a una profilatura specifica. Insieme all'”Osservatorio indipendente sui concorsi universitari” lo segnala con una lettera al rettore, al direttore del dipartimento di Giurisprudenza, al ministro dell’Istruzione e all’Autorità anticorruzione (Anac). Ci sono diversi problemi: il ritardo o la mancata pubblicazione dei verbali del concorso, l’eccessiva specificità del titolo (“Profili civilistici della Global Value Chains”), la dettagliata descrizione sintetica (“La ricerca intende studiare i problemi giuridici posti dalle GVC … Riemerge il problema del diverso regime fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, nonché della scelta fra hard e soft law … gli effetti sull’ambiente … sull’accesso alla giustizia dei danneggiati e sulle regole risarcitorie …”), la conoscenza della sola lingua tedesca come requisito. Così, alla gara partecipa un solo candidato. “Fin qui nulla di irregolare – spiega Trasparenza e Merito – Solo l’amara constatazione che, a fronte di una nuvola di abilitati nel settore, il bando disincentivasse la partecipazione”.

Il candidato viene prima ammesso alla discussione dei titoli e delle pubblicazioni. Non ha l’abilitazione nazionale né assegni di ricerca o borse post-dottorato. Vince. Ma al momento della verifica dell’autocertificazione e delle documentazioni presentate, gli uffici vanno in difficoltà. I requisiti non rispondono ai canoni richiesti. Da lì rallentamenti, verifiche, addirittura la riconvocazione della commissione e nuovi verbali. Infine la conferma dell’assegnazione del posto. Ma quando il decreto rettorale arriva al Senato accademico che deve approvarlo, infatti, si arena perché i docenti non sono convinti. Gli atti un mese fa sono stati mandati all’Avvocatura di Stato e da allora si attende. “Ho fatto l’accesso agli atti per questo concorso – spiega la professoressa Sagnotti – anche se avevo approvato il concorso a livello di consiglio di dipartimento. Poi ho avuto qualche dubbio” . Come i docenti del Senato accademico. “Non voglio accusare nessuno, noto fatti che mi lasciano dubbiosa. Come il consiglio di dipartimento di qualche giorno fa, durante il quale ho chiesto chiarimenti al direttore di dipartimento, Giovanni Marini, che è il marito della professoressa che presiedeva la commissione del concorso. La risposta è stata verbalmente violenta nei miei confronti e mi è stato detto che non era all’ordine del giorno. Mi chiedo se un fatto di questa rilevanza non potesse essere discusso tra le “Varie ed eventuali”, quantomeno per una questione di trasparenza? Come è possibile, ad esempio, che mi si chieda di firmare tutti insieme quattro verbali dei consigli precedenti, di cui uno di ottobre? Avevo votato contrario, mi è stato chiesto di giustificare il voto: come potevo ricordare di cosa si era parlato otto mesi fa?”.

Fondi per gli atenei: l’agenzia Anvur nega le informazioni sulla valutazione

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato martedì 13 febbraio 2018 da il Fatto Quotidiano.

Fondi per gli atenei: l’agenzia Anvur nega le informazioni sulla valutazione

No al Foia. Mostrerebbe come sono stati assegnati 271 milioni

Secretati: i criteri che hanno in gran parte contribuito ad assegnare nei mesi scorsi i fondi per gli atenei di eccellenza non possono essere consultati. A riferirlo è l’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e della Ricerca, in risposta a una richiesta di accesso tramite Foia (Freedom of Information Act) che permette l’accesso civico a tutti gli atti della Pubblica amministrazione.

“In riferimento alla richiesta di accesso civico generalizzato – è stata la risposta dell’Anvur agli autori di Roars, il sito specializzato su ricerca e università – concernente l’acquisizione dei dati… con la finalità di riprodurre e verificare la correttezza dell’indicatore (Ispd) utilizzato per la predisposizione dell’elenco dei dipartimenti, non è possibile accogliere la richiesta in quanto verrebbe arrecato pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali di singoli docenti e ricercatori”.

L’Anvur spiega che sarebbe possibile “risalire alla valutazione conseguita dal singolo docente/ricercatore” qualora appartenga a settori disciplinari con un numero limitato di membri per ogni dipartimento. “L’ostensione dei dati consentirebbe, in un terzo dei casi, l’associazione della valutazione al singolo”. Si appella quindi all’articolo 5bis della norma che prevede, tra gli altri casi di esclusione (come la sicurezza nazionale) la protezione dei dati personali. In questo modo, però, non sarà mai possibile valutare come siano state assegnate le premialità.

A gennaio sono stati attribuiti 271 milioni di euro a 180 dipartimenti universitari “d’eccellenza”. In 106 casi su 180 i fondi sono andati al nord, come già previsto, a maggio, proprio da Roars. Ma ci sarebbe anche un problema con il metodo con cui si calcolano i punteggi. In estrema sintesi, i risultati sulla valutazione della ricerca nelle diverse aree disciplinari non sono direttamente comparabili. Così, per ovviare al problema è stata elaborata una formula, l’Indicatore standardizzato di performance dipartimentale (Ispd) che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rendere comparabili dipartimenti che hanno aree di ricerca miste e che, invece, secondo Roars è riuscita a premiare alcuni ambiti più di altri.

“Abbiamo chiesto di avere accesso ai dati di base per la costruzione dell’indicatore – spiegano gli autori di Roars – per replicare i calcoli di Anvur. Il ministero dell’Istruzione sta distribuendo 1,35 miliardi senza che nessuno possa controllare la correttezza dei dati su cui è basata la distribuzione”.

Le carte ottenute grazie alla legge Madia

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato domenica 4 febbraio 2018 da il Fatto Quotidiano.

Le carte ottenute grazie alla legge Madia

Ventotto documenti scansionati e inviati in formato pdf tramite Pec, la posta elettronica certificata: sono quelli che riguardano venti richieste di accesso inviate all’Imt di Lucca per avere informazioni sulle analisi effettuate sulla tesi di dottorato del ministro della Funzione Pubblica, Marianna Madia e ottenute grazie al Foia, il Freedom of Information Act introdotto proprio dal ministro Madia a fine 2016 con la riforma della Pubblica Amministrazione.

La richiesta del cosiddetto “Accesso generalizzato” a informazioni, dati e atti che riguardano la pubblica amministrazione può essere effettuata da tutti i cittadini: le nostre richieste sono state inviate, sempre tramite posta elettronica certificata e secondo quanto previsto dalla legge (con apposito formato e allegando la scansione di un documento d’identità) all’indirizzo di posta certificata dell’Istituto di Lucca l’11 novembre 2017.

La prima risposta è arrivata il 29 novembre: erano stati individuati (come previsto dalla legge) dei controinteressati, ovvero la Madia stessa e il perito incaricato di valutare la tesi, Enrico Bucci. Imt ci avvisava che era stata loro trasmessa la nostra richiesta. Era loro facoltà opporsi al nostro accesso agli atti: a quel punto – secondo la norma – avrebbero dovuto fornire, entro dieci giorni, una “motivata opposizione” che avrebbe generato una ulteriore valutazione della richiesta da parte dell’Imt di Lucca o del garante della Privacy, a seconda delle motivazioni. Va ricordato che, in caso di rifiuto, il cittadino può presentare ricorso al responsabile dell’Anticorruzione, al difensore Civico, al garante della Privacy (se il diniego è legato ai dati) o al Tar.

L’opposizione in questo caso non c’è stata e l’Imt ha accolto quasi tutte le richieste, respinto e motivato quelle che non potevano essere soddisfatte (perché non esistevano i documenti richiesti), aggregato quelle coincidenti: abbiamo così ricevuto centinaia di pagine di testo ben prima della scadenza dei 30 giorni fissata dalla legge (nei dieci giorni concessi al controinteressato, infatti, si sospendono i tempi della procedura). Uno dei documenti, oltretutto, non risultava completo: anche in questo caso, dopo una semplice sollecitazione (sia via Pec che telefonica) siamo riusciti ad ottenerne la versione integrale nel giro di un’ora. Senza problemi. La legge Madia ha funzionato anche per accedere ai documenti che riguardavano il ministro Madia.

 

Università, l’algoritmo che manda l’87% dei soldi agli atenei del Nord

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato domenica 14 gennaio 2018 da il Fatto Quotidiano.

Università, l’algoritmo che manda l’87% dei soldi agli atenei del Nord

A Chieti c’è la miglior ricerca in fisica. Ma non esiste neanche il corso
Un esito profetizzato: nei giorni scorsi sono stati assegnati 271 milioni di euro a 180 dipartimenti universitari definiti d’eccellenza. Fondi distribuiti in base alla valutazione della qualità della ricerca e dei progetti presentati da 350 dipartimenti (su circa 800 totali) inseriti in un elenco stilato dall’Agenzia nazionale di valutazione dell’Università e della Ricerca (Anvur) sulla base di un indicatore individuato dalla stessa agenzia. Risultato: in 106 casi su 180 i fondi sono andati al nord, in 49 al centro, 25 al sud.
LA PROFEZIA. La disparità era già stata prevista, a maggio, dal blog specializzato Roars (Return on Academic Research): “I dipartimenti del centro e del nord – si legge – si aggiudicheranno l’87% delle risorse pari a quasi 1,2 miliardi in cinque anni. Al Sud ed Isole resterà il 13%”. Ed è andata proprio così: la percentuale è dell’86,67%. Tanto che la Fedeli ha rassicurato: “Ora proseguiremo (…) con la programmazione di interventi che rafforzino il reclutamento di giovani ricercatori nelle università meridionali”.
IL PROBLEMA. Alla base c’è il metodo. Il ruolo di giudice è affidato all’Anvur che, periodicamente, effettua una valutazione nazionale di tutti gli atenei e degli enti di ricerca pubblici. In base ai risultati, vengono distribuiti i finanziamenti alle università legati alla cosiddetta “quota premiale” del Ffo, il Fondo di Finanziamento Ordinario (la quota base tiene conto invece di altri parametri, come lo storico dell’ateneo, dei suoi numeri e del costo standard). “Abbiamo dimostrato – spiega Giuseppe De Nicolao, ordinario di ingegneria all’Università di Pavia – che con questo tipo di valutazione la variazione nell’assegnazione della quota premiale è minima rispetto a una distribuzione basata sul numero dei docenti. Il problema nasce quando la Vqr (ovvero la Valutazione della qualità della ricerca, ndr) dopo essere già stata usata per dividere i fondi tra tutte le università, viene usata una seconda volta per indire un torneo con pochi vincitori come per i dipartimenti d’eccellenza”. Con l’inevitabile accentuazione delle differenze Nord-Sud.
IL DIVARIO. Pesa la differenza tra le due parti del Paese. “Inutile aspettarsi una gara alla pari – spiega De Nicolao – a pagare le conseguenze della diminuzione dei finanziamenti sono state soprattutto le università del Sud. Le regioni in cui la crisi ha colpito più duramente le famiglie e le imprese sono quelle in cui è più difficile supplire a ciò che non arriva dal governo autofinanziandosi con le tasse universitarie e contratti con le imprese”. Gli atenei del sud, che rappresentano il 31% del corpo docente, sono state penalizzate anche nella gestione del turn over con percentuali inferiori alla media nazionale. “Riduzione di organico significa chiusura dei corsi, meno studenti e meno tasse in entrata. Darwinismo accademico”.
CHI VINCE E CHI PERDE. L’idea di indire una gara tra i vari dipartimenti è stata inserita nella legge di stabilità del 2017: “271 milioni di euro sulla apposita sezione del Ffo (“Fondo per il finanziamento dei Dipartimenti universitari di eccellenza”). Lo stanziamento, invece, incide sul Ffo del 2018 (che dovrebbe ammontare a 7,3 miliardi rispetto ai 6,958 del 2017). Il ministero parla di una quota a parte. “Maggiori finanziamenti in passato riservati alla quota premiale e ora ai cosiddetti ‘Dipartimenti di eccellenza’ …” , ha detto in un intervento il capo dipartimento del Miur, Marco Mancini.
IL PROBLEMA FORMALE. C’è poi un errore di valutazione. I risultati della ricerca nelle diverse aree disciplinari non sono direttamente comparabili: fisica ha una procedura di valutazione diversa rispetto a filosofia, mentre nell’area scientifica certe discipline danno più peso ad alcuni parametri che ad altri. La stessa Anvur sottolinea che c’è bisogno dell’utilizzo di “differenti metodologie di standardizzazione”. Si riferisce a una formula che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rendere comparabili dipartimenti che hanno aree di ricerca miste e che, invece, è riuscita a premiare la ricerca in alcuni ambiti più che in altri. Esempio: due articoli, giudicati entrambi eccellenti, hanno un punteggio diverso a seconda del loro ambito scientifico.
IL PARADOSSO DI CHIETI. Così, come raccontato dal blogger del Fatto Quotidiano e docente universitario, Marco Bella, accade che tra le eccellenze nell’ambito della Fisica spicchi il dipartimento di Chieti – Pescara. Dove però non c’è un corso di laurea in Fisica. “Singoli dipartimenti – spiega De Nicolao – avevano ricevuto più di un voto, uno per ciascuno dei diversi settori di ricerca che li compongono. La formula doveva servire a renderle omogenee e invece fa il contrario”. In certe aree mediche, ad esempio, come dimostrato dal professore Lucio Bartoli-Bersotti, docente universitario di Statistica, un articolo giudicato eccellente può valere 2.7 punti mentre in alcuni settori della fisica un articolo giudicato ugualmente eccellente ne può valere solo 0.44. E proprio questi calcoli, incomprensibili ai più, hanno decretato il 70 per cento del punteggio.

In Italia poche borse di studio e tasse tra le più alte d’Europa

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato martedì 31 dicembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

In Italia poche borse di studio e tasse tra le più alte d’Europa

Meno di dieci giorni fa lo aveva denunciato il coordinamento universitario Link sulla base delle analisi svolte regione per regione: in Italia c’è un problema con le borse di studio. Troppo poche rispetto agli aventi diritto. La conferma `istituzionale’ è arrivata nei giorni scorsi, con il rapporto Eurydice (la rete europea di informazione sull’istruzione fondata dalla Commissione Europea) che mette a confronto i dati di tutti i Paesi Ue: siamo al terzo posto per l’ammontare delle tasse universitarie (tra i 1.001 e i 3.000 euro) insieme a Irlanda, Spagna, Belgio, Portogallo, Svizzera e Liechtenstein. Prima di noi solo Olanda e Regno Unito, dove la cifra a carico dello studente raggiunge i 10.027 euro. “Fra i paesi in cui le tasse vengono pagate praticamente da tutti e in cui la percentuale di assegnazioni di borse di studio è piuttosto irrilevante – si legge nel testo – ci sono alcune eccezioni: in Italia, Belgio (Comunità francese), Francia, Spagna e Irlanda alcuni studenti economicamente svantaggiati sono esentati dal pagare le tasse e hanno diritto a borse di studio”. Bene. Peccato che solo nove studenti su cento hanno diritto alla borsa di studio, mentre sono 30 su cento in Spagna e 39 in Francia. “La conseguenza della scarsa disponibilità di borse di studio – si legge ancora – è che gli studenti restano economicamente dipendenti dalla famiglia oppure sono costretti a lavorare. Ciò può ostacolare l’accesso all’istruzione superiore, in particolare nel caso di studenti svantaggiati”. Anche per affrontare il tema del diritto allo studio, Link si riunirà in assemblea nazionale il 6 novembre a Torino: “Serve un’inversione di rotta – spiega Andrea Torti, il coordinatore nazionale -. I dieci milioni di euro per il diritto allo studio che sono stati inseriti nella legge di Stabilità non possono bastare, ne servono almeno 150”.

Scuola, il concorso è bacato: 500 euro solo per provarlo

Articolo di Virginia Della Sala e di Lorenzo Giarelli pubblicato domenica 10 settembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

Scuola, il concorso è bacato: 500 euro solo per provarlo

Per chi è già laureato, il ministero prevede 24 crediti per accedere alla selezione, ma non tutti li hanno maturati durante l’università

Pagare fino a 500 euro per partecipare al concorso per insegnare e, dopo, affrontare due anni di tirocinio pagato meno di mille euro: gli insegnanti italiani continuano a pagare per entrare in classe. Dopo i percorsi abilitanti degli anni scorsi ormai sospesi (al costo, in media, di 3mila euro l’uno), ora tocca ai prerequisiti per il concorso a cattedra del 2018. Alcuni potranno dover pagare per accumulare 24 crediti universitari in discipline antropo–psico–pedagogiche e in metodologie e tecnologie didattiche. Ovviamente, senza la certezza di vincerlo.
CHI PAGA E CHI NO. “Stiamo studiando il decreto, le faremo sapere”: per le università, la grana di settembre è dover capire come risolvere la questione. Chi si è laureato prima del 10 agosto, infatti, potrebbe dover pagare per sostenere alcuni esami aggiuntivi per partecipare alla selezione. Il ministero ha fissato a 500 euro il tetto massimo di spesa, a 12 i crediti conseguibili online. “Mi sono laureata prima dell’emanazione del decreto – spiega Luisa Alessi, 27 anni, ex studentessa di Lettere di Palermo – ma non trovo giusto pagare, ora, per accumulare crediti che avrei potuto prendere durante gli anni universitari”. Chi è ancora iscritto all’università, invece, potrà maturarli gratuitamente durante il percorso.
LE UNIVERSITÀ. Quasi tutti gli atenei sono in alto mare. A Urbino, dove affrontare gli esami fuori dal piano di studi costa tra i 155 e i 172 euro a prova, non sanno ancora nulla. Alla statale di Milano, di solito si pagano 180 euro per il primo esame e 126 euro per gli altri. Qui si stanno muovendo gli studenti del coordinamento studentesco Link: “Ci è stato garantito che ci sarà un pacchetto a costo basso per i crediti post lauream e che verranno attivati i corsi mancanti. Chiederemo che l’ateneo velocizzi il più possibile, almeno entro la sessione di esami invernale”. A Tor Vergata, Roma, gli esami costano 150 euro fino ogni sei crediti, 300 euro oltre. Anche qui, nessuna indicazione per gli aspiranti docenti. Stessa situazione a Bologna (gli esami fuori piano costano 670 euro), a Venezia (tra i 169 e i 233 euro), a Napoli (181 euro per ogni corso), a Genova, Trento, Siena e alla Sapienza di Roma. A Parma dicono che occorre riaggiornarsi tra quindici giorni mentre a Catania (30 euro a credito), spiegano che dovranno coordinarsi con le altre università.
ORGANICO. Non tutti gli atenei hanno infatti docenti e corsi che riguardino quegli specifici crediti. C’è chi ne dovrà attivare di nuovi, chi cercare docenti esterni, chi gestirsi con gli altri atenei, creare dei poli, master o percorsi di alta formazione. Sono in corso riunioni e stesure di ordini del giorno dei senati accademici. “Sarebbe stato molto più semplice farli acquisire dopo il concorso – spiega un funzionario – e quindi durante i tre anni di tirocinio”. Il Cun, il Consiglio Universitario Nazionale, aveva messo in guardia sui problemi che avrebbe potuto creare questo obbligo. Tanto che, dopo il suo parere, è stato introdotto il cosiddetto “semestre bonus” per gli studenti universitari in corso. “È ingiusto far pagare a studenti già laureati o iscritti in terza fascia altre centinaia di euro per conseguire crediti resi obbligatori solo con la nuova normativa, e di cui erano quindi ignari – spiega Link -. Continueremo a mobilitarci per la gratuità anche post lauream”. Dal ministero assicurano di aver previsto regole più flessibili sul riconoscimento degli esami già fatti. “Abbiamo lavorato per tenere insieme qualità e limite di spesa”, spiegano. E le università hanno comunque autonomia nel decidere se e quanto far pagare.
TIROCINI. Chi supererà la selezione, poi, non avrà immediatamente la cattedra ma dovrà affrontare il cosiddetto Fit, Formazione iniziale e tirocinio, che dura tre anni. Il primo anno, svolto principalmente nelle università con momenti di tirocinio nelle scuole, servirà per il diploma di specializzazione all’insegnamento. Solo dal secondo anno si passerà al tirocinio nelle scuole, con qualche breve supplenza. Al terzo anno, sarà assegnata una cattedra. “Prima ci usano come bancomat per acquisire i crediti e senza neanche dirci quanti posti saranno banditi – dice Annalucia Lepidi, 35 anni di Pavia e prossima al concorso – poi ci pagano una miseria per due anni”. Ai tirocinanti, infatti, durante il primo anno saranno assegnati circa 600 euro lordi al mese. Soldi che saranno integrati, a partire dal secondo, con le brevi supplenze. “Hanno abolito i corsi a pagamento, è vero – spiega Anna Lucia – ma almeno dopo il concorso si aveva un tempo indeterminato. Così, invece, per due anni saremo sottopagati. Ancora una volta”.

 

 

 

Scuola, in 7 anni “scippati” 12 mila euro a lavoratore

Articolo di Virginia Della Sala pubblicato sabato 9 settembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

Scuola, in 7 anni “scippati” 12 mila euro a lavoratore

È il costo medio del blocco dei contratti calcolato dalla Cgil. Ora si tratta per il rinnovo

Stipendio perso
Una perdita salariale di oltre 12 mila euro negli ultimi sette anni causata dal mancato rinnovo del contratto, dal mancato adeguamento all’andamento dei prezzi e dall’inefficacia dell’indennità di vacanza contrattuale. Tutto nel solco di decreti e riforme, inclusa la Buona Scuola: i dati sono stati presentati ieri a Torino nel corso di un’assemblea che ha riunito Rsu e delegati della Flc Cgil del Piemonte, ma riguardano i lavoratori delle scuole di tutta Italia.
La cifra lievita di anno in anno. Si parte dai docenti, oggi i meno pagati d’Europa (tanto che la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli si è formalmente impegnata ad aumentare gli stipendi): tra il 2010 e il 2017, la differenza retributiva ovvero la perdita subita da un maestro elementare o delle scuole materne varia dai 10 mila ai 16 mila euro, a seconda degli anni di servizio prestati. Si va dai 12 mila ai 18 mila euro, invece, per i docenti delle scuole medie, tra i 12 mila e i 19 mila per quelli delle scuole superiori. In media, gli insegnanti degli Itp, gli istituti tecnico – professionali, hanno perso 13.240 euro.
Il calcolo include anche i collaboratori scolastici, il personale Ata e i dirigenti: i primi hanno perso tra gli 8mila e gli 11mila euro (i coordinatori tecnico amministrativi 12.854 euro), gli assistenti amministrativi e tecnici tra i 9 mila e i 13 mila e infine i dirigenti tra i 13 mila e i 20 mila. Già solo il mancato adeguamento all’inflazione degli ultimi sette anni (calcolato sulla base dell’Ipca, l’Indice dei prezzi a consumo armonizzato con una comparazione comunitaria) ammonta, mediamente, intorno ai 2.200 euro. A peggiorare la situazione, anche la riduzione del Fondo Istituzione Scolastica, ovvero quello strumento di retribuzione accessoria collegata all’ampliamento dell’offerta formativa: il blocco della progressione di carriera del 2011-2012, infatti, è stato recuperato anche attingendovi. Di conseguenza, ci sono stati meno soldi per le attività autonome delle scuole.
Numeri, va detto, che vengono diffusi nel pieno delle trattative per il rinnovo dei contratti degli statali, bloccati dal 2009.
I docenti italiani, poi, sono ai primi posti in Europa per il numero di ore settimanali di insegnamento: 22 rispetto a una media di 19,6 per la scuola primaria (superano Spagna e Francia, rispettivamente con 25 e 24 ore), 18 ore per le scuole medie (la media Ue è di 18,1) e 18 per le scuole superiori (per una media europea di 16,3). È invece il rapporto Eurydice del 2013 che racconta il confronto con le retribuzioni: un docente della scuola primaria guadagna tra i 23 mila e i 33 mila euro lordi all’anno. In Spagna, si va da 28 mila ai 40 mila. In Germania dai 40 mila ai 53 mila. Molto simile la proporzione per gli altri livelli.
Perdite salariali e livelli retributivi hanno anche effetti sul calcolo della pensione e della liquidazione: entrambe sono calcolate sul montante retributivo. Se si perdono, ad esempio, 8 mila euro sulla pensione se ne perderanno tra i 68 mila e i 70 mila.
“Il salario – spiega Igor Piotto, segretario generale Flc Cgil Torino – non è solo retribuzione, ma anche un rapporto di potere. Si è però ridotto lo spazio di contrattazione nei luoghi di lavoro, ancora di più con l’approvazione del decreto Madia. Per questo, il rinnovo deve prevedere maggiore possibilità, per i delegati sindacali, di intervenire sull’organizzazione del lavoro e sulla distribuzione del salario, ma anche risorse aggiuntive”. Per la scuola, la richiesta è che i 200 milioni del bonus premiale dei docenti (in base all’efficienza e alla valutazione) siano destinati alla contrattazione di istituto e che i 500 euro del bonus siano disciplinati dal contratto. Senza dimenticare il personale Ata, lo stesso che dovrà gestire anche le pratiche dell’obbligo vaccinale. Per loro, non c’è stato aumento, se non dei carichi di lavoro.