Archivi tag: Luigi Berlinguer

Umberto Ruggiero – Rinnoviamo le Università con nuovi compiti

Articolo pubblicato venerdì 3 luglio 2020 da La Gazzetta del Mezzogiorno ed. Bari.

L’ articolo del Prof. Bronzini, Rettore dell’Università di Bari, sulla Gazzetta del 28 giugno,
induce qualche riflessione aggiuntiva. Si nota evidente come il Rettore abbia solo accennato e poi dimenticato i gravissimi danni causati da almeno due decenni dalle tante improvvide riforme governative citando solo la legge Gelmini del 2010 che obbligò le Università a gravi “trasformazioni strutturali…. scompaginandole… con esito disastroso”.
L’accenno del disastro, ancora attuale, non è servito per le proposte di riabilitazione per il dopo Covid-19. Purtroppo invece sono numerosi gli interventi governativi che hanno portato alla attuale anormale e complessa gestione delle Università. Basta ricordare le varie statistiche e gli studi pubblicati dalla Svimez; qualcosa è stato riproposta sulla Gazzetta dall’eminente giornalista Dott. Patruno (nello scorso novembre) con il commento dell’emerito Preside Prof. Sollazzo ed i successivi chiarimenti dello scrivente.
Nel mondo accademico da cui non è stato risolto razionalmente il problema della necessaria formazione professionale e del titolo intermedio, nell’intento di scopiazzare i sistemi anglosassoni, iniziò il Ministro Ruberti con Legge 241/90 ad istituire presso le Università i Diplomi Universitari (3 anni) utili per la successiva qualificazione dei tradizionali professionisti (geometri, periti, ragionieri, infermieri, ecc) ad imitazione delle Scuole tedesche o francesi in Europa, spesso non Universitarie.
Dopo pochi anni interpretando male il “Bologna process”, il Ministro Berlinguer peggiorò tutto con la riforma detta del 3+2 (laurea junior di 3 anni e laurea “magistrale” dopo altri 2 anni) imposta a costo zero, come la precedente, a tutte le Facoltà (dissidenti Medicina, Giurisprudenza e Architettura e forse altri).
Questa (assurda) riforma ha sicuramente inguaiato le Università rivoluzionando tutta l’organizzazione didattica. Ma all’acquiescienza irrazionale di Rettori e Presidi dell’epoca, i docenti reagirono inventando tanti nuovi insegnamenti e la conseguente proliferazione dei corsi. Con l’intervento politico decentrandoli in Provincie e in Comuni anche a soli 50 km, raccogliendo le seconde e le terze scelte di docenza. Le Università statali e private diventarono ben 95 di cui 11 telematiche e con la complicità del Ministero fu notevole lo sperpero di denaro (altro che costo zero) incrementando ovviamente il debito pubblico.
REVISIONE DELLA SPESA – In seguito i Governi afflitti dalla crisi generale e dalle leggi per la spending review, dovettero ridurre del 15% (da 7, 5 a 6,5 miliardi) il finanziamento (FFO) delle Università e bloccando il turn-over, inventarono i ”punti organico” (P.O.) per distribuire con parametri strani i posti e gli stipendi dei docenti e personale andato in pensione. I Comuni conservarono l’autonomia, alle Università fu negata, nonostante la Costituzione.
Ricordo ancora che sempre per copiare le strutture anglosassoni (tutti Dipartimenti) e nella concezione dell’Università come impresa, costruì un apparato burocratico di
controllo con i Comitati di valutazione (ANVUR) togliendo ogni autonomia, imponendo nuovi Statuti e, fatto gravissimo, abolendo le Facoltà, le nostre strutture secolari, ammirate all’estero. Rimasero i soli Dipartimenti, spesso ad ampio spettro scientifico, obbligati anche ad accorparsi (in 2 o 3) per garantire le “Scuole” necessarie per la formazione nei tanti corsi di laurea.
Quanto ricordato giustifica la problematica e complessa organizzazione attuale delle Università e ne ha comportato il declino specie al Sud ma non al Nord già più ricco,
come dimostra l’esodo ormai numeroso dei nostri giovani. Se è vero che per l’epidemia COVID-19 oggi ci ritroviamo, come dopo una guerra, a programmare il futuro in tutti i settori, dall’industria alla Scuola e all’Università con l’esperienza negativa del passato e programmando riforme adeguate per un rapido sviluppo, ebbene non bastano le due richieste del Rettore Bronzini, cioè il necessario aumento dei docenti e l’indispensabile finanziamento anche per aule e laboratori.
Tutti i Rettori specialmente i pugliesi come il Prof. Bronzini e il Prof. Cupertino, solerte Rettore del Politecnico, dovrebbero impegnarsi a rimuovere le improvvide riforme ormai condannate dall’esperienza negativa. Oltre a provvedere razionalmente ad investire nella formazione professionale e nei Titoli intermedi fuori dall’Università
(ITIS e Regioni), ritengo urgente e indifferibile:
– l’abolizione nelle Università del 3+2, avendo sperimentato inutile e onerosa la laurea breve a 3 anni (che non rappresenta il desiderato Titolo intermedio);
– il ripristino dell’autonomia delle Università (L.168/89) abolendo il burocratico apparato di controllo e impositivo sul turn-over;
– il ripristino delle Facoltà essenziali per la gestione strategica moderna dei corsi di Laurea.
In un mondo con treni a 500 Km/h, grattacieli di mezzo chilometro, ICT, meccatronica, robot capaci di sostituire medici e chirurghi, nanotecnologie, satelliti ecc., chi se non l’Università potrà preparare le risorse umane con alta formazione, ricerca e innovazione, creando i nuovi Centri di ricerca multidisciplinari e specialistici? Per essere grande un paese deve avere grandi Scuole e grandi Università.

Giulio Cavalli – I banditi del sapere dell’Università di Catania

Articolo pubblicato martedì 2 luglio 2019 dal blog di Giulio Cavalli.

I banditi del sapere dell’Università di Catania

Viene la pelle d’oca a leggere i verbali dell’operazione “Università bandita”, dove ne esce un’università (quella di Catania) che è il cenacolo di una banda di amichetti intenti a sistemarsi e a sistemare i propri compari. Che i bandi universitari siano spesso un “taglia e cuci” a disposizione del familismo accademico è cosa ormai pubblica da tempo (l’anno scorso a Firenze, ci fu un’indagine simile) ma ciò che turba più di tutto è come il malaffare sia figlio di un quadro normativo che rende possibili e quasi legali queste pratiche indegne. E che tutto questo avvenga nel luogo che dovrebbe essere la massima rappresentazione della cultura e del sapere sottolinea come questo Paese sia incrostato dai potentati e dalle baronie in tutti i suoi settori.

Prendete il caso di Vincenza D’Agata, candidata al concorso di professoressa di prima fascia in Anatomia. D’Agata in città è un cognome che conta, il padre Vincenzo è l’ex procuratorie di Catania: ci sono coinvolte persone che dovrebbero essere classe dirigente nel settore della Giustizia e del Sapere. Per fare ottenere il posto a Vincenza D’Agata viene costruito un bando su misura modificando i criteri di assegnazione del posto ma la presenza di un altro candidato che rientra nei parametri e che dovrebbe meritare di più della figlia dell’ex procuratore manda in subbuglio il piccolo clan affaristico tanto da spingere il direttore di dipartimento (secondo quanto raccontato da Sergio Castorina, l’altro papabile candidato) a spingere perché si ritiri. Badate bene: non ci sono minacce, solo promesse. “Nel giro di sei mesi sistemo tutto e ti bandisco un altro posto, sono io d’accordo con il Rettore”, dice il direttore di dipartimento. E in questa frase c’è tutta la facilità con cui viene aggirato il merito e vengono calpestate le regole.

Però non si può negare che il disastro accade anche perché il quadro normativo sulle università italiane non è all’altezza del cambiamento da tempo: la legge Gelmini del 2010 ha assegnato a Rettori e Direttori Generali un ampio potere manageriale che li rende capi incontrastati e assoluti. Mica per niente l’inchiesta di Catania nasce proprio dagli screzi di queste due figure, onnipotenti e onnipresenti nelle scelte dell’ateneo. Il Senato Accademico negli anni è stato svilito a semplice organo di ratifica: ora conta semplicemente assicurarsene una comoda maggioranza per potere agire senza problemi. L’autonomia universitaria (che sta nelle legge dell’ex ministro Berlinguer) ha favorito le logiche localistiche rispetto ai concorsi nazionali.

È, insomma, un quadro complesso che richiede complesse soluzioni che devono per forza andare oltre agli semplici slogan. Che le denunce al sistema universitario italiano sono cicliche e molteplici: sono quasi nove anni che nella vicina università di Palermo ad esempio si è suicidato Norman Zarcone, il giovane dottorando schiacciato proprio dal peso delle baronie e delle logiche familistiche. «La morte non fa più notizia se non c’è dietro un fatto scabroso, contorsioni sentimentali, perversioni mentali o uno dei valori-cornice di questa società che non premia i talenti, sbeffeggia le ambizioni e insulta i sogni», disse qualche mese fa il padre di Norman. E viene difficile non dargli ragione.

Lettera di Dario Antiseri e Flavio Felice sui problemi della scuola

Appello pubblicato mercoledì 17 gennaio 2018 dal sito del Centro Studi e Ricerche “Tocqueville-Acton”.

Lettera di Dario Antiseri e Flavio Felice sui problemi della scuola

Ai politici:

Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Pietro Grasso, Stefano Parisi, Vittorio Sgarbi, Beatrice Lorenzin, Paolo Gentiloni, Valeria Fedeli, Raffaele Fitto, Lorenzo Cesa, Rocco Buttiglione, Luigi Zanda, Mario Adinolfi

Sui problemi della scuola

Illustri Signori,

È sconcertante constatare come nel corso della campagna elettorale tra i più urgenti problemi da loro affrontati – e che interessano centinaia di migliaia di famiglie e milioni di cittadini – sia sostanzialmente assente “il grande tema” della scuola e dell’università. Ed è proprio per questo che ci permettiamo di sottoporre alla Loro attenzione il seguente non eludibile interrogativo: uno Stato di diritto può avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola?

  1. La scuola di Stato è un patrimonio grande e prezioso che va protetto, salvato; solo che quanti difendono il monopolio statale dell’istruzione non aiutano la scuola di Stato a sollevarsi dalle difficoltà in cui versa. Nessuna scuola sarà mai uguale all’altra – un preside più attivo, una segreteria più operosa, una biblioteca ben fornita, un laboratorio ben attrezzato, insegnanti più preparati, ecc. bastano a fare la differenza. Me se nessuna scuola sarà mai uguale all’altra, non sarà allora che tutte potranno migliorarsi attraverso la competizione? In breve, non esistono forse buone ragioni per affermare che è tramite la competizione tra scuola e scuola che si può sperare di migliorare il nostro sistema formativo: la scuola statale e quella non statale?

         La realtà è che, è bene insistervi, il monopolio statale dell’istruzione è la vera, acuta, pervasiva malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola. E favorisce l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non pochi genitori.

Il monopolio statale dell’istruzione è negazione di libertà: unicamente l’esistenza della scuola libera garantisce alle famiglie delle reali alternative sia sul piano dell’indirizzo culturale e dei valori che sul piano della qualità e del contenuto dell’insegnamento.

Il monopolio statale dell’istruzione viola le più basilari regole della giustizia sociale: le famiglie che iscrivono il proprio figlio alla scuola non statale pagano due volte; la prima volta con le imposte – per un servizio di cui non usufruiscono – e una seconda volta con la retta da corrispondere alla scuola non statale.

Il monopolio statale dell’istruzione devasta l’efficienza della scuola: la mancanza di competizione tra istituzioni scolastiche trasforma queste ultime in nicchie ecologiche protette e comporta di conseguenza, in genere, irresponsabilità, inefficienza e aumento dei costi. La questione è quindi come introdurre linee di competizione nel sistema scolastico, fermo restando che ci sono due vincoli da rispettare: l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione.

  1. Chi difende la scuola libera non è contrario alla scuola di Stato: è semplicemente contrario al monopolio statale nella gestione della scuola. E questa non è un’idea di bacchettoni cattolici o di biechi e ricchi conservatori di destra. É la giusta terapia per i mali che necessariamente affliggono un sistema formativo intossicato dallo statalismo. Scriveva Gaetano Salvemini su «L’Unità» del 17 ottobre 1913: «Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere». Sempre su «L’Unità» (17 maggio 1919), Salvemini tornerà ad insistere sul fatto che «il metodo migliore per risolvere il problema […] è sempre quello escogitato dai liberali del nostro Risorgimento: non vietare l’insegnamento privato, ma mantenere in concorrenza con esso un sistema di scuole pubbliche». La verità è che la concorrenza è la migliore e più efficace forma di collaborazione; è, come dice F.A. von Hayek, una macchina per la scoperta del nuovo da cui scegliere il meglio – e questo vale nella ricerca scientifica, nella vita di una società democratica e sul libero mercato. Nell’ambito del sistema formativo strutturato su linee di competizione, la scuola privata – è ancora Salvemini a parlare – «rappresenterà sempre un pungiglione ai fianchi della scuola pubblica. Obbligandola a perfezionarsi senza tregua, se non vuole essere vinta e sopraffatta». Di conseguenza: «se nella città, in cui abito, le scuole pubbliche funzionassero male, e vi fossero scuole private che funzionassero meglio, io vorrei essere pienamente libero di mandare i miei figli a studiare dove meglio mi aggrada. Lo Stato ha il dovere di educare bene i miei figli, se io voglio servirmi delle sue scuole. Non ha il diritto di impormi le sue scuole, anche se i miei figli saranno educati male». Insomma, con Salvemini si trova d’accordo Luigi Einaudi allorché afferma che il danno creato dal monopolio statale dell’istruzione «non è dissimile dal danno creato da ogni altra specie di monopolio». E non è da oggi che contro le disastrose conseguenze del monopolio statale dell’istruzione si sono schierati, in contesti differenti, grandi intellettuali come Alexis de Tocqueville, Antonio Rosmini e John Stuart Mill e, dopo di loro e tra altri ancora, Bertrand Russell, Luigi Einaudi, Karl Popper, don Luigi Sturzo e don Lorenzo Milani.

  1. «È tempo di chiudere questo conflitto del Novecento: scuole statali contro private. Non esiste, non è più tra noi, ci ha fatto perdere tempo e risorse». E ancora: «Basta guardarsi in giro e si scopre che l’insegnamento è pubblico, fortemente pubblico, ma può essere somministrato da scuole pubbliche, private, religiose, aconfessionali in una sana gara a chi insegna meglio». Questa una coraggiosa e lungimirante dichiarazione fatta tempo addietro da Luigi Berlinguer, al quale è legata la Legge 62/2000, in cui si definisce il passaggio dalla “Scuola di Stato” a “Sistema Nazionale di Istruzione” costituito dalla “Scuola Pubblica Statale” e la “Scuola Pubblica Paritaria”. Solo che dichiarare giuridicamente uguali Scuola Statale e Scuola Paritaria finanziando solo la prima e lasciando morire di inedia la seconda è un ulteriore inganno perpetrato da una politica cieca e irresponsabile. E qui va detto che tra le diverse proposte – tese a sradicare in ambito formativo il diffuso, insensato e deleterio pregiudizio stando al quale è buono solo ciò che è pubblico ed è pubblico solo ciò che è statale – la migliore è sicuramente quella del “buono-scuola”. Idea avanzata da Milton Friedman e ripresa successivamente Friedrich A. von Hayek e sulla quale, da noi, ha insistito negli anni passati Antonio Martino. Con il “buono-scuola” i fondi statali sotto forma di “buoni” non negoziabili (vouchers) andrebbero non alla scuola ma ai genitori o comunque agli studenti aventi diritto, i quali sarebbero liberi di scegliere la scuola presso cui spendere il loro “buono”. Ed è così, che pressata nel vedere diminuire l’iscrizione alla propria scuola o vedere allievi già iscritti scappare da essa, ogni scuola sarà spinta a migliorarsi, e sotto tutti gli aspetti. In poche parole: quella del “buono-scuola” è una misura in grado di coniugare libertà di scelta, giustizia sociale ed efficienza del sistema formativo. Una domanda ai politici di sinistra da sempre ostili all’idea del “buono-scuola”: ma quando riuscirete ad aprire gli occhi e capire che il “buono-scuola” è una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti? E una domanda ai politici liberali e a tutti gli altri sedicenti tali: uno Stato nel quale un cittadino deve pagare per conquistarsi un pezzo di libertà è ancora uno Stato di diritto?

  1. La questione se lo Stato di diritto possa avanzare la pretesa del monopolio statale nella gestione della scuola è, dunque, un problema ineludibile. Di seguito, alcune proposte “classiche” a tale nevralgico interrogativo:

Alexis de Tocqueville: «[…] voglio che si possa organizzare accanto all’Università una seria concorrenza. Lo voglio perché lo richiede lo spirito generale di tutte le nostre istituzioni; lo voglio anche perché sono convinto che l’istruzione, come tutte le cose, ha bisogno, per perfezionarsi, vivificarsi, rigenerarsi all’occorrenza, dello stimolo della concorrenza».

Antonio Rosmini: «I padri di famiglia hanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed educatori della loro prole quelle persone nelle quali ripongono maggiore confidenza».

John Stuart Mill: «Le obiezioni che vengono giustamente mosse all’educazione di Stato non si applicano alla proposta che lo Stato renda obbligatoria l’istruzione, ma che si prenda carico di dirigerla: è una questione completamente diversa».

Antonio Gramsci: «Noi socialisti dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai Comuni. La libertà nella scuola è possibile solo se la scuola è indipendente dal controllo dello Stato».

Bertrand Russell: «Lo Stato è giustificato nella sua insistenza perché i bambini vengano istruiti, ma non è giustificato nel pretendere che la loro istruzione proceda su un piano uniforme e miri alla produzione di una squallida uniformità».

Karl R. Popper: «L’interesse dello Stato non deve essere invocato a cuor leggero per difendere misure che possono mettere in pericolo la più preziosa di tutte le forme di libertà cioè la libertà intellettuale».

Luigi Einaudi: «In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori, ognora rinnovati, abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura».

Luigi Sturzo: «Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità».

  1. È del 14 marzo 1984 la Risoluzione “sulla libertà di insegnamento nella Comunità europea”. Con essa il Parlamento europeo ha inteso rendere chiaro che «il diritto alla libertà di insegnamento implica per sua natura l’obbligo per gli Stati membri di rendere possibile l’esercizio di tale diritto anche sotto il profilo finanziario e di accordare alle scuole le sovvenzioni pubbliche necessarie allo svolgimento dei loro compiti e all’adeguamento dei loro obblighi, in condizioni uguali a quelle di cui beneficiano gli istituti pubblici corrispondenti senza discriminazione nei confronti degli organizzatori, dei genitori, degli alunni e del personale». Successivamente, il 4 ottobre 2012, una ulteriore Risoluzione del Parlamento europeo stabilisce: «1. L’Assemblea parlamentare richiama che il godimento effettivo del diritto all’educazione è una condizione preliminare necessaria affinché ogni persona possa realizzare ed assumere il suo ruolo all’interno della società. Per garantire il diritto fondamentale all’educazione, l’intero sistema educativo deve assicurare l’eguaglianza delle opportunità ed offrire un’educazione di qualità a tutti gli allievi, con la dovuta attenzione non solo di trasmettere il sapere necessario all’inserimento professionale e nella società, ma anche i valori che favoriscono la difesa e la promozione dei diritti fondamentali, la cittadinanza democratica e la coesione sociale. A questo riguardo le autorità pubbliche (lo Stato, le Regioni, e gli Enti locali) hanno un ruolo fondamentale e insostituibile che garantiscono in modo particolare attraverso le reti scolastiche che gestiscono; 2. È a partire dal diritto all’educazione così inteso che bisogna comprendere il diritto alla libertà di scelta educativa».

Ebbene, nei Paesi post-comunisti entrati nell’Unione Europea – come nel caso di Slovenia, di Slovacchia, Repubblica Ceka, Polonia – la parità tra scuole statali e scuole non statali è stata introdotta in modo pieno. Questa, per scuola non statale, la situazione nei Paesi della Vecchia Europa: in Belgio gli stipendi di tutto il personale sono a carico dello Stato; in Spagna sono a carico dello Stato tutte le spese; in Portogallo è erogato dallo Stato l’equivalente del costo medio di un alunno di scuola statale; in Lussemburgo sono a carico dello Stato tutte le spese; in Inghilterra nelle maintained schools sono a carico dello Stato tutti gli stipendi e le spese di funzionamento, oltre all’ 85% delle spese di costruzione; in Irlanda le spese di costruzione degli immobili sono a carico dello Stato, in misura completa per le scuole dell’obbligo e dell’ 88% per le scuole superiori; in Germania sono a carico dello Stato e delle Regioni (Länder) lo stipendio dei docenti (85%), gli oneri previdenziali (90%), le spese di funzionamento (10%) e la manutenzione degli immobili (100%); in Francia sono possibili quattro alternative: a) integrazione amministrativa, con tutte le spese a carico dello Stato; b) contratto di assunzione, con spese di funzionamento e per i docenti a carico dello Stato, a condizione che i docenti abbiano gli stessi titoli dei colleghi statali; c) contratto semplice, con spese per il solo personale docente a carico dello Stato; d) contratto di massima libertà che non prevede alcun contributo.

  1. Dove il diritto alla parità tra Scuola statale e Scuola non statale è stato e viene tradito è in Grecia e in Italia. Qualche dato sulla situazione italiana. Nel 2012-2013 il totale degli studenti iscritti era di 8.943.701, di cui 7.763.964 iscritti alla Scuola statale e 1.036.403 iscritti alla Scuola paritaria. Nell’anno 2013-2014 gli studenti frequentanti la Scuola in Italia ammontavano a 8.882.905, con 7.746.270 iscritti alla Scuola statale e con 993.544 iscritti alla Scuola paritaria (di questi iscritti alla scuola paritaria 667.487 sono alunni delle Scuole cattoliche). Nei due anni scolastici 2012-2013 e 2013-2014 la spesa per ogni allievo della Scuola statale è stata rispettivamente di € 6.411,16 e di € 6.414,57; mentre il contributo medio dello Stato per ogni alunno della Scuola paritaria è stato rispettivamente di € 481,47 e di € 497,21: una autentica elemosina. E nel frattempo, in questi anni di crisi economica, molte famiglie, non potendo permettersi di pagare la retta, sono state costrette a ritirare il proprio figlio dalla Scuola paritaria e iscriverlo alla Scuola statale, con la conseguente chiusura di Scuole non statali, anche di grande prestigio. Tra il 2012-2013 e il 2014-2015 si sono perse 349 scuole e 75.146 alunni delle Scuole paritarie e 423 scuole e 48.066 alunni delle Scuole cattoliche. Nell’anno scolastico 2015-2016 sono state chiuse 415 scuole non statali.

In Italia la scuola libera è solo libera di morire. E mentre non ci sono manifestazioni sindacali, occupazioni di scuole o convegni sulla scuola in cui non vengano lanciati slogan contro la Scuola paritaria che succhierebbe risorse a scapito delle Scuole statali, non ci si rende conto che le rette pagate dalle famiglie che iscrivono i loro figli alla Scuola paritaria fanno risparmiare allo Stato circa sei miliardi di € ogni anno. E, dunque, è la Scuola paritaria a danneggiare la Scuola statale, oppure è una politica cieca e irresponsabile di destra e di sinistra – intossicata di statalismo – a danneggiare sia la Scuola statale che quella non statale?

  1. Se poi ci rivolgiamo al più specifico problema dell’Università – con tutte le continue denunce di corruzione soprattutto in relazione ai concorsi per professore – non Le pare che la soluzione più ragionevole, per rimettere sulla giusta strada il nostro sistema formativo superiore, possa proprio consistere nell’abolizione del valore legale del titolo di studio? Un governo dopo l’altro, con una riforma dopo l’altra, non hanno portato al disastro gran parte della nostra Università? Si pensi al 3+2 applicato in maniera meccanica e non oggettiva (dove e solo dove davvero serviva); o si pensi alle varie proposte di regole per i concorsi – tutte fallite!; con le ultime in base alle quali Einstein non sarebbe neppure ammesso al concorso e Kant (avendo pubblicato monografie e non articoli su “riviste accreditate”) verrebbe sicuramente bocciato.

  1. Sono ormai decenni, nel corso dei quali si è insistito, inascoltati, contro i guai generati dal monopolio statale sulla gestione della scuola. All’inizio fu la Destra ad impegnarsi per il buono-scuola – impegno che ben presto venne tuttavia dimenticato. Nel mondo cattolico il card. Camillo Ruini si espose, con ben argomentate considerazioni, per la giusta causa di una effettiva parità tra scuole di Stato e scuole non-statali – la sua, però, fu una battaglia che non durò a lungo. La Sinistra (insieme ai fondamentalisti anticlericali e alla massoneria) è stata sempre semplicemente cieca di fronte ai danni generati dal monopolio statale nella gestione della formazione – e ciò nonostante lo scossone dato da Luigi Berlinguer con la Legge 62/2000. E a proposito di Sinistra, non va dimenticato quel battagliero comunista romagnolo il quale, parecchi anni fa, in un dibattito a Milano sulla parità scolastica, confessò pubblicamente il suo grande disagio nel constatare che alla Sinistra non fosse entrata in testa una semplice e profonda “verità di sinistra”, e cioè che l’introduzione del buono-scuola equivarrebbe ad una carta di liberazione per le famiglie meno abbienti.

Insomma: un fallimento dopo l’altro. Quello della conoscenza è un diritto primario senza del quale una democrazia muore. Con tante buone ragioni per non cedere più ad illusioni, ci siamo permessi di inviare questa lettera, spinti dal desiderio di sapere la Loro risposta a questi due interrogativi: 1. Quali sono le ragioni per non essere d’accordo sulla proposta del bono scuola (o su quella forma articolata di buono scuola elaborata dalla dott.ssa Suor Anna Monia Alfieri – che è il “costo standard di sostenibilità per allievo”)? 2. È ragionevole rifiutare, per quanto riguarda il sistema universitario, quella terapia consistente nell’abolizione del valore legale del titolo di studio? E, da ultimo, signora Ministro, la pregheremmo di ritirare la deplorevole proposta di sperimentazione di licei ridotti a quattro anni – un ulteriore furto di conoscenza nei confronti dei nostri giovani.

Cordiali saluti

Dario Antiseri

Flavio Felice

Superiori a 4 anni: l’esperimento viene esteso da 100 a 192 scuole

Articolo di Claudio Tucci pubblicato sabato 3 febbraio 2018 da Il Sole 24 Ore.

Superiori a 4 anni: l’esperimento viene esteso da 100 a 192 scuole

Firmato il decreto: prime classi al via dal 1° settembre

La ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, “raddoppia” il numero di scuole superiori che, dal 1° settembre, potranno sperimentare percorsi di studio di quattro anni, anziché dei canonici cinque. Ai 100 istituti già autorizzati a fine dicembre, se ne aggiungono adesso altri 92, facendo così salire il totale dei plessi interessati all’abbreviazione di un anno di corso a 192, sparsi su tutto il territorio nazionale (144 sono licei, ma ci sono pure 48 tecnici – 127 sono le scuole statali, 65 quelle paritarie; tutte hanno presentato un progetto altamente innovativo, approvato dal Miur).

Il decreto firmato ieri dalla ministra Fedeli conferma il debutto della sperimentazione dal prossimo anno scolastico (famiglie e studenti, quindi, avranno tempo fino a martedì 6 febbraio per le iscrizioni online); ciascuna scuola potrà attivare una sola classe (che in media sarà all’incirca di 20 alunni, pertanto la novità didattica interesserà in tutt’Italia intorno ai 4mila studenti, su una platea complessiva di 2,6 milioni di alunni delle superiori; una percentuale dello 0,45 per cento). L’idea di introdurre percorsi secondari di durata quadriennale non è nuova. Ad avanzarla per la prima volta, nel 2000, fu l’ex ministro Luigi Berlinguer. Quella riforma non venne mai attuata, ma nel 2013 una commissione istituita da Francesco Profumo riprese il tema. Maria Chiara Carrozza diede il via ad alcune sperimentazioni. Stefania Giannini non si oppose, e ora si imprime la svolta: «anche per poter consentire al ministero – sottolinea la titolare Fedeli – una valutazione complessiva della sperimentazione con un campione adeguato di licei e istituti tecnici, distribuiti in differenti realtà territoriali» (delle 192 scuole “campione”, infatti, 85 sono al Nord, 43 al Centro e ben 64 nel Mezzogiorno). La riduzione di un anno del percorso di studi (finora la sperimentazione ha interessato una manciata di istituti, 12 per l’esattezza) consente un primo avvicinamento al cuore dell’Europa visto che in 12 Stati membri su 28 l’età per il diploma già oggi è fissata a 18 anni anziché a 19 (parliamo di Belgio, Francia, Grecia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito oppure Germania, ma limitatamente alle scuole tecniche, «Fachoberschule», solo per fare qualche esempio). Aiuterà inoltre le medie ad allenare meglio i ragazzi che poi si affacciano ai percorsi superiori quadriennali; e servirà a contrastare l’abbandono scolastico: sono centinaia gli studenti che vanno all’estero al quarto anno di scuola. Il corso di studi “quadriennale” deve garantire, anche attraverso la flessibilità didattica e organizzativa, l’insegnamento di tutte le discipline previste dall’indirizzo di riferimento in modo da assicurare agli alunni il raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e delle competenze previste per il quinto anno di corso (ora, entro quattro). Insomma, «non è un nuovo indirizzo di studi, non c’è nessuno sconto sugli obiettivi formativi, e l’organico delle scuole rimane invariato», spiega il capo dipartimento del Miur, Carmela Palumbo.

Diverse le “novità” che emergono tra i 192 progetti autorizzati dal ministero: «All’istituto Leopardi di Milano, per esempio – racconta il preside, Roberto Pasolini – partiremo con il percorso quadriennale nell’indirizzo tecnico, Amministrazione e marketing. L’orario settimanale resterà di 32 ore. Raggiungeremo l’obiettivo allungando l’anno di due settimane, una all’inizio, l’altra alla fine. Spostiamo, poi, parte dell’alternanza annuale dal 15 al 30 giugno; e facciamo una revisione dei programmi». «A settembre anche noi debutteremo con la sperimentazione quadriennale in chimica e materiali per le tecnologie tessili; siamo apripista in Italia – aggiunge Roberto Peverelli, dirigente del Carcano di Como -. Lavoriamo a stretto contatto con le industrie tessili del territorio. Tutto ciò è sinonimo di garanzia per genitori e ragazzi». Le superiori di quattro anni «aiuteranno a migliorare didattica e rapporto tra docenti e studenti – sintetizza Paola Artioli, presidente della fondazione Aib, che gestisce il liceo Carli di Brescia -. Nei nostri corsi ci focalizziamo sulla qualità delle competenze acquisite dai ragazzi; un modello innovativo che può essere replicato in tutt’Italia».

 

Abolire le tasse universitarie, la vera uguaglianza si vede da qui

Articolo pubblicato venerdì 19 gennaio 2018 dal sito di il Fatto Quotidiano.

Abolire le tasse universitarie, la vera uguaglianza si vede da qui

Durante una maratona di Mentana su La 7, in occasione delle elezioni politiche in Gran Bretagna un ospite (in)esperto, un ex dalemiano passato poi, come molti comunisti, a destra, realizzando finalmente la sua vera vocazione di sempre, partorì una riflessione che molti commentatori ripeterono anche sui giornali. Non so se per lodarlo o per denigrarlo, fu trovata una delle ragioni dell’affermazione elettorale di Corbyn proprio nelle critiche energiche al pazzesco costo delle università inglesi. In Inghilterra, come altrove, il divario di reddito tra ricchi e poveri è aumentato a dismisura. E noi in Italia non siamo secondi a nessuno. Tasse universitarie così care comportano l’annullamento del diritto allo studio. Corbyn ne ha fatto una bandiera, e il nostro ospite televisivo non trovò di meglio che dire che eravamo di fronte alla “rinascita del marxismo”. Lo so che la disinformazione di massa è talmente diffusa che non ci si fa più caso. E qualunque scemenza trova il suo spazio e i suoi imitatori. Ma recenti proposte elettorali rendono necessario un chiarimento.

Il diritto allo studio è il principale strumento del welfare state, dello Stato sociale, che è il frutto più maturo delle politiche lib-lab nate proprio in Inghilterra nel secondo dopoguerra. Si trattò, e si tratta, del più serio tentativo per cercare di rimediare alle disuguaglianze più vergognose. Sono passati decenni, l’Inghilterra ha comunque conservato un certo welfare efficiente, ma come dimostrano Corbyn e il voto, gli inglesi lo considerano, a ragione, insufficiente. In Italia, Pietro Grasso forse ha sbagliato i tempi e soprattutto i modi (non ha spiegato troppo e non ha iscritto la sua proposta in una cultura politica che non è assolutamente massimalista, utopistica o improvvisata, e quindi è sembrata estemporanea). Ma la sua tesi di abolizione delle tasse universitarie è molto fondata. Purtroppo questa campagna elettorale si svolge in un contesto di bufale a mitraglia creato da Berlusconi, Renzi e Di Maio. Superando ogni livello di ridicolo. Non credo che si possa discutere seriamente in questo clima.

Riportiamo il tema coi piedi per terra. Molti critici hanno sbeffeggiato Grasso per la mancata indicazione della copertura finanziaria. Come se gli altri competitori lo avessero fatto. Ma soprattutto non si è capito che una proposta di questo tipo non può essere paragonata a una boutade elettoralistica, bensì – se chi l’ha proposta ci crede davvero – è la pietra miliare di una rivoluzione, di una concezione politica che è l’opposto di quelle che da destra come da centrosinistra hanno ridotto il Paese in un marciume intollerabile. Lasciamo perdere la Destra (che in Italia ha solo versioni delinquenziali e demagogiche), ma la Sinistra non si presenta meglio, intrisa com’è di residui di sub culture fondate sul paternalismo , sulla concessione caritatevole o clientelare, sul buonismo, sul massimalismo, sul settarismo. Non sulle regole, sui diritti e sulla realizzazione di questi. La sinistra italiana purtroppo non è davvero pluralista, è distante mille miglia dalla civiltà liberale, non la conosce ed è incapace di conviverci.

Il vecchio Einaudi, nello scritto che qui riportiamo, insiste sull’”ascensore sociale”, cioè sulla necessità che tutti abbiano la possibilità di superare la prigione sociale in cui sono nati e possano esprimere tutta la loro potenzialità. È questa l‘idea della vera uguaglianza. Altro che marxismo. Il laburismo inglese, insieme con quello nordico, è la forza politica che, facendo suoi i progetti liberali, ha fatto più passi avanti in questa direzione. E il welfare o è universalistico o non è. Ed è fuorviante ridurre il problema alle risorse. Le risorse esistono, è solo questione di scelte e di gerarchia di spesa.

Certo che in Italia i problemi sono più gravi. L’Università, massacrata da Luigi Berlinguer e da Mariastella Gelmini, è allo sfascio. Le riforme, passo passo, vanno assieme, altrimenti è inutile che l’ascensore porti tutti al piano Università, se questa non sa aggiungere nulla alle capacità critiche e al bagaglio di conoscenze. Ugualmente tutto è da discutere, se l’assenza delle tasse possa bastare, se ci voglia una copertura per i libri, per la permanenza fuorisede ecc.. Tutto si deve legare al merito. Altrimenti rimaniamo alle elemosine renziane.

Ma prima di tutto bisogna avere idee chiare e ferme sul modello di società che si vuole. Ed essere credibili nel proporle.

Dario Braga (Università di Bologna) – Tutte le sfaccettature dell’eccellenza

Articolo pubblicato giovedì 28 dicembre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Tutte le sfaccettature dell’eccellenza

Il fenomeno dei Collegi e delle Scuole Superiori

Nel corso degli ultimi venti anni molte università italiane hanno costituto Collegi o Scuole Superiori destinate a studenti particolarmente motivati e capaci, selezionati annualmente sulla base esclusiva del merito.

Un buon numero di queste iniziative sono nate sul finire degli anni 90 a seguito di accordi di programma con il ministero – all’epoca retto da Luigi Berlinguer – finalizzati alla «sperimentazione di percorsi formativi avanzati e di alta qualificazione diretti a integrare l’attuale offerta di studi universitari nella fase pre- e post-laurea». Scuole d’eccellenza furono così costituite in diverse università (Lecce, Catania, Pavia, tra le altre). Il Collegio Superiore di Bologna fu invece costituito autonomamente dall’Università di Bologna nel ’99 con finanziamenti iniziali della Fondazione Cassa di Risparmio. In anni successivi scuole e collegi analoghi, anche con accordi con la Scuola Normale di Pisa, sono nati a Padova, Roma, Torino, Venezia, Udine e in altre sedi ancora.

Sicuramente ne dimentico qualcuno anche perché si tratta, nel complesso, di esperienze molto diversificate. Diverse sono le modalità di ammissione degli studenti (tutte per concorso), i requisiti di permanenza e i “benefit” concessi agli ammessi (residenzialità, borse di studio e via dicendo), come diverse sono le modalità di accertamento del profitto, l’organizzazione dei corsi integrativi e il modo di costituire il corpo docente. Questa grande diversità – che riflette la autonomia dei singoli atenei nella conduzione di queste importanti sperimentazioni – è forse anche una delle ragioni per cui le procedure di accreditamento ministeriale avviate con il Dm 338 del 2013 del ministro Profumo stentano a decollare. In fondo, l’idea stessa di individuare criteri comuni che consentano il riconoscimento ministeriale di queste iniziative è, in un certo qual modo, in contraddizione con il concetto di sperimentazione. Una sperimentazione formativa, per essere tale, deve riflettere le “condizioni al contorno” nelle quali viene implementata (dimensioni degli atenei, aree disciplinari, obiettivi strategici, presenza o meno di sponsor sul territori ecc.) e deve essere coerente con gli obiettivi strategici dell’Ateneo. La diversità organizzativa è, in questo caso, un valore e va salvaguardata.

Alcune scuole hanno adottato in questa sperimentazione un modello che richiama quello della Scuola Normale Superiore di Pisa. Il modello “normalista” prevede che lo studente sia selezionato nell’ambito di una classe (scienze umane, sociali ecc.) e sia portato ad approfondire la preparazione con corsi aggiuntivi che possono anche avere carattere interdisciplinare, ma che sostanzialmente tendono a rafforzare la formazione specialistica.

Il modello alternativo, adottato per esempio all’Università di Bologna, è invece basato su un paradigma fortemente multidisciplinare. Il reclutamento degli studenti non avviene su base disciplinare e tutta la programmazione didattica è basata sulla “convergenza formativa”: scelto un argomento, docenti di aree diverse concorrono a svilupparlo in lezioni rivolte a studenti di tutte le discipline. Si tratta di lezioni che si aggiungono a quelle curriculari e che si svolgono per lo più in orario serale e che prevedono esami, voti alti e tempi regolari come per i corsi normali. L’idea è quella di “costringere” lo studente a rimanere in contatto con temi anche molto lontani da quelli curriculari con l’obiettivo di mantenere vivo il ragionamento laterale e rafforzare la capacità di cogliere l’inatteso e generare nuove idee.

Questo tipo di scuola è quindi una sorta di laboratorio R&D della formazione dove l’università può assemblare “pacchetti formativi” innovativi, sperimentarli su un gruppo di studenti particolarmente bravi e motivati e, quando utile, estenderli a tutto l’ateneo.

Quale che sia il modello adottato – le differenze sono esse stesse un valore ed esistono anche soluzioni intermedie – scuole e collegi superiori non sperimentano solo nuove forme didattiche ma anche nuove forme di interazione tra studenti e studenti e tra studenti e docenti e anche tra docenti e docenti. Sono luoghi dove docenti di aree anche lontane, incontrandosi, mantengono vivo quel linguaggio comune che rischia di perdersi nell’isolamento disciplinare che affligge le nostre università. Anche per questo è importante che scuole e collegi siano in osmosi con i dipartimenti e coinvolgano ampiamente il corpo docente dell’Ateneo.

In questi tempi difficili per la formazione, sperimentano una “università a tendere”.

Il ritorno della lentezza, all’Università

Articolo di Paolo Ceccarelli pubblicato giovedì 21 dicembre 2017 dal Corriere Fiorentino.

Il ritorno della lentezza, all’Università

A marzo incontro ispirato alla slow science. «Troppa attenzione alla quantità, poca alla qualità». L’anno scorso è uscito il libro «The Slow Professor: Challenging the Culture of Speed in the Academy» di Maggie Berg e Barbara K. Seeber, due professoresse che raccontano le difficoltà e le frustrazioni vissute per i ritmi imposti dall’università

All’università serve una lezione sulla lentezza, perché oggi tutto corre troppo veloce. Gli studenti devono imparare in tre mesi quello che fino a 20 anni fa imparavano in un anno e i professori hanno tempi molto più stretti per prepararsi ad andare in aula, ai ricercatori si chiede di dimostrare più la quantità che la qualità delle loro ricerche e gli uffici amministrativi soffrono le conseguenze di tutte queste accelerazioni. Per questo l’Ateneo deve prendersi «il tempo di pensare». Si intitola proprio così il seminario lanciato dal Comitato unico di garanzia dell’Università di Firenze, il cui compito è vigilare sul rispetto delle pari opportunità e del benessere di chi lavora in Ateneo (è un organo, istituito nel 2010, che hanno tutte le amministrazioni pubbliche).

L’appuntamento è per il 23 marzo, ma prima entro il 30 gennaio il Comitato chiede a tutti coloro che vivono l’università (dai professori ai dipendenti degli uffici, passando per studenti, ricercatori, tecnici di laboratorio) un contributo sul tema. E lancia un «call for paper», come si dice in gergo universitario, che servirà a selezionare i relatori della lezione sulla lentezza che si svolgerà nell’aula magna di piazza San Marco alla presenza del rettore Luigi Dei. «Vorremmo vedere la partecipazione di tutti coloro che pensano di avere un contributo da dare, qualcosa da dire di significativo, a partire dal loro specifico punto di vista. Lanciare una “call for papers” ci è sembrato il modo più aperto e inclusivo per selezionare i relatori», spiega Brunella Casalini, presidente del Comitato e professore associato di filosofia politica all’Ateneo fiorentino (le riflessioni, massimo sei cartelle da 2.000 battute ciascuna, vanno inviate all’indirizzo cug@unifi.it entro fine gennaio).

Il seminario trae ispirazione dal manifesto per la «slow science» lanciato in Germania nel 2010, che ha fatto tesoro delle intuizioni del più famoso movimento slow food per portare la sfida della lentezza all’interno delle università. Una sfida rilanciata ultimamente nel libro «The slow professor» in cui due docenti canadesi, Maggie Berg e Barbara K. Seeber, raccontano il proprio malessere e la propria frustrazione rispetto ai ritmi che l’università impone a chi ci lavora.

Un tema difficile da affrontare in Italia dove, dice Casalini, «la stampa e l’opinione pubblica sono così affezionate allo stereotipo del professore universitario come persona privilegiata per la grande quantità di tempo a sua disposizione ed è difficile parlare di una “scienza lenta” e di una “accademia lenta”. Si corre il rischio di rafforzare l’idea che gli accademici non facciano nulla e quindi siano fondamentalmente inutili».

Ma non è così e, sostiene Casalini, sul banco degli imputati va semmai messo il modello manageriale che si è imposto negli ultimi anni (con la riforma firmata da Maria Stella Gelmini, anche se l’accelerazione parte probabilmente con la riforma del 3+2 di Luigi Berlinguer).

«Il modello manageriale ha influito in modo determinante in questi processi: la spinta alla continua rendicontazione di tutte le fasi della ricerca, e in particolare dei prodotti della ricerca e della didattica, hanno creato un meccanismo perverso per cui la quantità, che sola è misurabile, viene ad essere scambiata per qualità. Dobbiamo produrre di più in tempi sempre più compressi tra un’infinità di altre piccole e grandi cose da fare», dice la professoressa. «Siamo passati da una totale assenza di valutazione delle attività dei docenti/ricercatori ad una valutazione costante che crea non solo ansia da prestazione – sottolinea Casalini  – ma incrementa la spinta alla competizione e all’individualismo, in un mondo – quale quello della ricerca – in cui la regola dovrebbe essere piuttosto la comunicazione, lo scambio critico e la cooperazione». E l’elogio della lentezza, quella che serve per studiare e pensare.

Alessandra Ciattini (Università La Sapienza di Roma) – La finta scoperta della corruzione universitaria

Articolo pubblicato sabato 14 ottobre 2017 sul sito di la Città futura.

La finta scoperta della corruzione universitaria

Corruzione universitaria: la scoperta dell’acqua calda

Dopo il chiassoso ed inutile battage suscitato dallo sciopero dei docenti universitari – una categoria che non sciopera mai, ligia ai suoi doveri verso lo Stato – ecco un nuovo clamore stimolato dalla denuncia di un ricercatore che sarebbe stato invitato a ritirarsi da un concorso per cedere il passo a un suo collega più vicino ai commissari. Concorso nel quale sarebbe coinvolto anche un ex-ministro. Si potrebbe dire anche in questo caso “tanto rumore per nulla”, giacché tutti sanno, anche fuori del mondo universitario, che il criterio che regge il reclutamento e quello del passaggio da un livello all’altro della carriera universitaria è quello della cooptazione personale. D’altra parte, – ciò viene taciuto – si tratta di meccanismi estesi a tutte le istituzioni in una società capitalistica e non è soltanto un vizio italiano; affermazione con cui si vuole ribadire che il sistema in sé funziona, sono gli italiani che cercano sempre di fare i furbi. Così, “l’America” sarebbe il luogo in cui la meritocrazia effettivamente è rispettata, dove se tu vali, se sei “talentuoso” hai successo e fai carriera. Tale mito è così radicato che ci sono ancora quelli che, nonostante tutto, parlano di “sogno americano” e chiamano gli emigrati deportati da Obama e che saranno scacciati da Trump dreamers.

Come il principio della cooptazione sia invece il pilastro regolatore in tutte le sfere, in cui si tratta di partecipare a una qualche forma di potere o di spartirlo, basti soffermarsi sulla composizione della “squadra” di governo messa su da Trump, che potrebbe tranquillamente essere accusato di familismo amorale, ossia di anteporre gli interessi dei suoi parenti e amici a quelli della collettività. Comportamento che negli anni ‘50 alcuni studiosi statunitensi attribuivano ai nostri meridionali e da cui sarebbe scaturita la mafia.

Questo procedimento con il quale si separa un presunto fatto criminoso da altri consimili che si verificano in altre sfere della società ha un ben preciso scopo ideologico: non mettere in discussione il sistema complessivo e additare all’obbrobrio l’eventuale mela marcia (riferimento trito e ritrito), ribadendo che tutte le altre mele sono saporose e commestibili.

Ora, anche ammesso che l’università sia corrotta, ciò non costituisce in nessun modo una novità; ed infatti, notizie di denunce e di ricorsi contro l’esito di certi concorsi sono assai frequenti, ma c’è di più: è lo stesso sistema che favorisce e implementa la corruzione che si vuole rendere ancora più manipolabile dal potere accademico proponendo ancora una volta – come in questi ultimi decenni – una soluzione “all’americana”. Quest’ultima è identificata con assunzioni libere, più “trasparenti”, che rispettino le esigenze dei diversi atenei, i quali automaticamente diverrebbero responsabili delle scelte fatte, pagandone le conseguenze con ipotizzate ma mai praticate penalizzazioni. Come è ovvio, ciò ha comportato e comporta la deregolamentazione e quindi lo sprofondare nel mondo della jungla.

Direi che, molto probabilmente, il clamore suscitato dal nuovo episodio di corruzione universitaria, ha proprio l’obiettivo di favorire questa ulteriore svolta già avviata da tempo, gettando un velo oscuro sulla realtà universitaria statunitense, nella quale domina il precariato e sono privilegiate le carriere tecniche, tecnocratiche ed economiche e le opinioni anti-sistema sono penalizzate con l’allontanamento. È quanto si ricava, per esempio, da un articolo di Paul Street, il quale scrive, tra l’altro, che i docenti scomodi dal punto di vista politico sono licenziati assai facilmente, quando sono contrattati per un solo corso, un semestre o un anno accademico. Insomma, “l’America” non è affatto il regno del bengodi e del riconoscimento del valore dei singoli.

Tornando al meccanismo della cooptazione, che porta con sé la corruzione, si può evincere da un documento dell’ANDU (Associazione nazionale docenti universitari), intitolato significativamente “Corruzione. Tu vu’ fa’ l’americano ma”, nel quale si può leggere: “… da sempre l’ingresso in tutte le figure pre-ruolo e in ruolo (prima l’assistente e poi il ricercatore a tempo indeterminato) sono avvenute e avvengono attraverso scelte locali e dal luglio del 1998 sono localmente scelti anche i professori ordinari e associati, così come stabilito da una legge voluta da Luigi Berlinguer”.

Naturalmente bisogna spiegare a chi non conosce la vita universitaria cosa significa “scelta locale”, a suo tempo sostenuta da personaggi assai noti come Umberto Eco, Angelo Panebianco e Marcello Pera tra gli altri. “Scelta locale” significa che, all’interno delle facoltà e dei dipartimenti, ogni professore ordinario, d’accordo o in conflitto con i suoi colleghi, si darà da fare per ottenere i finanziamenti con cui bandire un concorso di vario livello, il cui vincitore è già deciso prima dello svolgimento dello stesso e sarà sicuramente un membro dell’entourage di detto professore. Ciò significa per esempio che dovrà essere affine ideologicamente al suo mentore e che tutta la sua carriera sin dall’ingresso iniziale sarà scandita dalle sue relazioni con il docente di riferimento. Una prima conseguenza di tale condizione è un forte limite alla libertà di ricerca e spesso lo svolgimento di un lavoro subalterno e di supporto al “capo”. Non è quindi un caso che anche l’università è popolata di quelli che sono chiamati metaforicamente “portaborse” e che, come ho avuto già modo di scrivere, rispetto ai loro “baroni” corrispondono ai valvassori e ai valvassini. Metafora medievale assai calzante, giacché per chi non lo sapesse la categoria dei docenti universitari, pur svolgendo sostanzialmente le stesse mansioni, non ha gli stessi diritti e prerogative, dal momento che, per esempio, vi sono casi in cui tutti i docenti votano, altri in cui votano associati e ordinari, e altri in cui votano solo gli ordinari. Una delle richieste tradizionali dei sindacati universitari, ormai cadute nel dimenticatoio, era quella del ruolo unico per superare questa assurda e antidemocratica organizzazione categoriale.

Bisogna aggiungere che, in certi casi limitati, il principio della cooptazione poteva anche avere un senso e in particolare quando dava vita alla formazione di una “scuola”, che si caratterizzava per la sua produzione di alto livello e per un determinato orientamento culturale. Ovviamente questo modo di procedere non avrebbe dovuto ostacolare la formazione di altre “scuole”, ossia di altri punti di vista teorici e metodologici in uno stesso settore disciplinare. Oggi, direi, gran parte di tutto questo si è perso anche per l’aziendalizzazione delle università e la cooptazione è praticata in forme assai deteriori.

Nonostante dal mio punto di vista il panorama universitario sia così sconfortante, non voglio concludere senza una nota ottimistica. Mi riferisco in particolare al documento elaborato dal Politecnico di Torino (“In difesa dell’Università pubblica”) [1], nel quale si propone ancora una volta una serie di provvedimenti che dovrebbero intervenire sui vari aspetti del funzionamento dell’università, dal de-finanziamento al diritto allo studio, dal reclutamento straordinario all’abbandono della logica concorrenziale tra atenei. Tale documento, insieme ad un altro documento sindacale, che ripropone una corretta visione complessiva, ha turbato il Movimento per la Dignità della docenza universitaria, proclamatore dello sciopero appena concluso e che certamente è riuscito a coagulare una parte significativa di docenti di diverso orientamento, il quale si è lamentato dei tentativi di spezzare il fronte dei docenti e ha rivendicato l’elaborazione di un suo pacchetto di proposte, che saranno presentate a tempo debito. D’altra parte, tale Movimento sembra essere caratterizzato da una struttura verticistica, i cui militanti ricevono comunicazioni e documenti dal centro, senza nessuna forma di discussione e di dibattito. E pensare che i docenti universitari hanno sempre accusato i sindacati di essere poco rappresentativi!

Note

[1] Mi chiedo se può ancora definirsi pubblica dal momento che nei Consigli di amministrazione degli atenei siedono due membri esterni, che dovrebbero rappresentare le esigenze della società nel suo complesso.

La guerra all’istruzione produce laureati precari e docenti sottopagati

Articolo di Roberto Ciccarelli pubblicato mercoledì 13 settembre 2017 da il manifesto.

La guerra all’istruzione produce laureati precari e docenti sottopagati

I risultati della guerra all’istruzione, all’università e alla ricerca nel rapporto Ocse 2017. Nove miliardi di euro sono stati tagliati a scuola e università tra il 2008 e il 2011. Da allora questi fondi non sono stati recuperati. L’Italia è un caso unico tra i paesi Ocse. Gli unici ad opporsi contro queste politiche catastrofiche sono stati i movimenti tra il 2008 e il 2010 e nel 2015 contro la «Buona Scuola». Da qui si potrebbe ripartire oggi

Maglia nera per la spesa pubblica nell’istruzione nei paesi Ocse, penultima per numero di laureati e ultima per occupati con il questo titolo di studio, l’Italia conferma anche il record dei giovani «Neet»: un ragazzo su 4 tra i 15 e i 29 anni non è impegnato nello studio, in un lavoro retribuito ufficialmente, né in un percorso formativo.

IL RAPPORTO OCSE «Uno sguardo sull’istruzione 2017» rappresenta il bilancio di due tendenze che hanno trasformato radicalmente la scuola e l’università nell’ultimo ventennio. La prima tendenza è misurabile sul tempo relativamente breve. Tra il 2008 e il 2012, regnante Berlusconi, nel nostro paese è stata condotta la più efferata guerra sociale contro l’intelligenza diffusa, i saperi e l’istruzione pubblica. Nessun paese Ocse, in coincidenza con la crisi più devastante dal 1929, ha tagliato 9 miliardi di euro ai bilanci di scuola e università. A questi bisogna aggiungere i miliardi risparmiati con il blocco degli stipendi degli insegnanti e personale: 12 mila euro a testa in sette anni. Oggi, sostiene l’Ocse, la retribuzione lorda di un prof di liceo con 15 anni di anzianità è inferiore di 9 mila dollari rispetto alla media (37 mila contro 46 mila). In termini generale, ancora nel 2014, era investito il 7,1% in istruzione (siamo ultimi tra i paesi Ocse) e l’1,6% in educazione terziaria a fronte di una media del 3,1%. La percentuale del Pil dedicato all’istruzione è del 4% contro il 5,2% nell’Ocse. Rispetto al 2010, il taglio è stato del 7%.

SUGLI STUDENTI SI INVESTE sempre meno: 9317 dollari a testa a fronte di una media europea di 10.897 dollari (media Ocse 10.759 dollari). Sull’educazione universitaria, l’Italia impiega 11.510 dollari. In Francia sono quasi cinquemila in più: 16.422 dollari. La Germania è irraggiungibile: 17.180 dollari. Dal 2014 a oggi, è ragionevole pensare, questi dati non sono cambiati di molto. Nell’ultimo triennio, quello per intendersi del governo Renzi-Gentiloni, all’istruzione sono andate briciole rispetto ai tagli inflitti nel triennio precedente e non sono stati rovesciati i devastanti effetti dell’offensiva berlusconiana. Il cospicuo bottino ottenuto dalla «flessibilità» concessa dall’Unione Europea al nostro paese è stato usato per i bonus alle imprese (i 18 miliardi di euro bruciati inutilmente per aumentare l’occupazione fissa con il Jobs Act) o per dare spiccioli al ceto medio del lavoro dipendente in crisi (i 9 miliardi degli «80 euro»). Nell’orizzonte politico del renzismo-Pd non rientrano gli investimenti pubblici su istruzione e ricerca. La plateale assenza del tema nella campagna elettorale nascente è una conferma.

LA SECONDA TENDENZA rilevata dal rapporto Ocse riguarda il tempo lungo, quello della riforma dei cicli e dei crediti voluta dal centro-sinistra Prodi-D’Alema-Amato, con ministri dell’Istruzione Berlinguer e Zecchino, dal 1996 al 2001. Non occorreva aspettare gli ultimi dati sui laureati per capire che quella riforma neoliberale è stata un fallimento. Vale la pena allora rispolverarli, considerata la forte capacità di rimozione delle responsabilità politiche e culturali in questo paese. Nel 2016, tra i 25 e 64enni, il 18% aveva una laurea. La media europea è del 33%. Tra i 25-34enni il 26% aveva una laurea. La media europea: 40%. Solo il Messico fa peggio con il 22% di laureati. Dati da scolpire nella pietra perché i «riformatori» neoliberali del «centro-sinistra» avevano un unico obiettivo: aumentare i laureati, riducendo i saperi a competenze («soft skills») usa-e-getta su un mercato che sta sostituendo il lavoro dipendente con quello precario a breve e brevissimo termine, mentre gli «inattivi», i «neet» e gli «scoraggiati» sono arrivati alla cifra choc di 13 milioni (dati Istat di ieri). A questo risultato ha contribuito il combinato disposto dell’esplosione della bolla formativa creata dagli anni Novanta e i tagli degli anni Dieci.

L’UNICO «SUCCESSO» è l’età media della prima laurea, 25 anni, in linea con l’Europa e inferiore ai paesi Ocse. Il prossimo ministro dell’Istruzione che insulterà i «fuori corso» come «costi sociali» o «choosy» è avvertito: non è vero. Cosa fanno questi (pochi) laureati? Sono precari. In più il tasso di occupazione è del 64% contro la media dell’83%, il più basso tra i paesi industrializzati, e inferiore a quello dei diplomati. Un caso raro nei paesi Ocse.

L’ENORME MOVIMENTO che, al tempo della «riforma Gelmini» tra il 2008 e il 2010, animò una contro-offensiva di massa è stato l’unico soggetto sociale a opporsi contro queste politiche catastrofiche. Un ritorno di fiamma è stato quello contro la «Buona Scuola» di Renzi nel 2015, un provvedimento che ha rafforzato l’approccio neoliberale all’istruzione dopo averlo aggravato nel mercato del lavoro. Da qui si potrebbe ripartire. Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio, ha scritto Samuel Beckett. Una massima che vale anche oggi.

 

 

Guido Crainz – La scuola e i limiti della democrazia

Articolo pubblicato sabato 2 settembre 2017 da la Repubblica.

La scuola e i limiti della democrazia
E’ realmente democratica la nostra università? Questa domanda chiama in causa nel suo insieme la nostra istruzione pubblica: aiuta realmente a rimuovere le differenze sociali e culturali di partenza? Due interrogativi suggeriti dalla sentenza dell’onnipresente Tar del Lazio che ha dichiarato illegittimo il “numero chiuso” alle facoltà umanistiche della Università Statale di Milano. Un “numero chiuso” o “programmato” è normalmente previsto per Medicina e altre facoltà nelle quali siano centrali i laboratori o altri strumenti, ed era stato motivato invece in questo caso dalla carenza di docenti (in coerenza anche con le indicazioni ministeriali sul rapporto docenti-studenti). Per molti versi la scelta che era stata compiuta fra tanti contrasti dall’ateneo milanese chiama in realtà in causa un insieme di nodi che vanno ben al di là di essa. Rinvia al più generale ridursi del numero dei docenti (oltre che alla carenza di strutture e spazi adeguati, soprattutto nei grandi atenei) ma costringe a una riflessione molto più profonda.
È stata ricordata quest’anno la Lettera a una professoressa di don Milani di cinquant’anni fa, e le parti più efficaci di quel testo erano le tabelle che traducevano in modo “visivo” i risultati di un’indagine del Censis appena compiuta. Risultava così in modo icastico che la presenza dei “figli di papà” (quello era il linguaggio e quella era l’epoca) cresceva in maniera esponenziale nel corso degli studi e altrettanto drasticamente diminuivano i ragazzi di famiglie povere. Ampliando almeno un po’ le categorie (e inserendovi ad esempio l’istituto superiore frequentato) le conclusioni non sarebbero oggi molto diverse: il che significa che la nostra istruzione pubblica disattende ancora i dettami del terzo articolo della Costituzione, secondo il quale è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano la reale uguaglianza dei cittadini.
Di questo stiamo parlando, e anche discutere della decisione presa a suo tempo dall’Università Statale di Milano ci costringe a misurarci con nodi immensamente più grandi e assolutamente ineludibili. Senza ignorare naturalmente gli elementi più diretti sottesi in questo caso alle opposte opzioni: da un lato il “principio di democrazia” che verrebbe incrinato dal “numero chiuso” o “programmato” (pur presente, come s’è detto, in altre facoltà), e sul versante opposto la necessità appunto di una “programmazione” che renda effettiva e fungibile (o perlomeno, un po’ meno aleatoria e precaria) la partecipazione degli iscritti alla vita dell’università. Un’utopia assoluta, certo, ove si pensi alla realtà dei grandi atenei, e certamente non risolvibile con l’adozione o meno del numero chiuso (ma forse in questo più generale scenario anche questa scelta potrebbe cessare di essere un tabù).
In realtà sarebbero oggi fuori luogo disfide o tenzoni su questo singolo aspetto, e anche questa vicenda potrebbe favorire invece una riflessione che guardi al futuro e al tempo stesso vada a fondo sul passato. Ci si interroghi cioè senza reticenze sul percorso che ha portato alla situazione attuale. E si inizi da lontano: dalla mancata riforma universitaria degli anni Sessanta, e dalla “liberalizzazione degli accessi” all’università che ne costituì il disastroso surrogato, sino alla inerzia degli anni Ottanta e poi alle vicende più recenti (ivi compresa la disattenzione per quegli aspetti che la bistrattata “riforma Berlinguer” pur richiamava: in primo luogo la necessità di sostegni didattici integrativi capaci di attenuare le carenze di partenza).
È cresciuto così in modo abnorme il numero di giovani che si sono iscritti all’università ma non sono riusciti a completare gli studi: in questo modo un numero crescente di cittadini ha avuto un’esperienza negativa della nostra massima istituzione culturale, e non possono sfuggire le conseguenze civili di questa delusione. E come in Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, in questa storia non vi è un unico colpevole ma tutti gli attori vi appaiono in varie forme responsabili: dal ceto politico a quello accademico e sino alle rappresentanze studentesche. A esser chiamate in causa dunque non sono solo le scelte realmente compiute, le riforme rinviate o combattute, ma anche i silenzi e le inerzie. Di questo stiamo parlando: o perlomeno, di questo dovremmo parlare.