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Ricercatori: troppi cervelli in fuga, Italia tredicesima nella classifica dei più citati al mondo

Articolo di Corrado Zunino pubblicato lunedì 12 febbraio 2018 dal sito di la Repubblica.

Ricercatori: troppi cervelli in fuga, Italia tredicesima nella classifica dei più citati al mondo

La nostra nazione paga il solito prezzo: molti studiosi sono assoldati da atenei stranieri. L’Università di Bologna in testa con cinque citazioni. La rete scientifica di Milano a quota dieci

Nella classifica dei ricercatori più citati al mondo, l’un per cento dell’élite scientifica certificato dalla Thomson Reuters, nel 2018 l’Italia annovera 46 studiosi in una lista di 3.539 (l’1,3 per cento). Restiamo al 13° posto. Siamo dietro, oltre a una grande potenza scientifica come gli Usa, largamente in testa con 1.644 “Highly cited researchers” (il 46,4 per cento del totale), a Gran Bretagna (344 ricercatori citati) e Cina (249). Siamo alle spalle anche – in ordine – di Germania, Australia, Olanda, Canada, Francia, Svizzera, Spagna (che ci ha superati nel 2014) e Arabia Saudita (ci ha passati nel 2015). Tutte queste nazioni, Arabia compresa, hanno iniziato a importare professori italiani alimentando la fuga dei cervelli, maturi e giovani. Chi sta davanti a noi cresce: tutti, a parte il Giappone (decimo). Nelle ultime quattro stagioni la Cina è salita in citazioni del 58 per cento. Anche gli investimenti pubblici e privati in ricerca sono aumentati nelle nazioni che migliorano le loro performance.

SETTIMI IN EUROPA
Ecco, il nostro Paese resta stabile (49, 44, 48, 46 i “researchers” che lavorano in strutture italiane citati dal 2014 ad oggi): è il settimo in Europa. Rischia di essere superato, per esempio, da una nazione medio-piccola come il Belgio, arrivata a quaranta scienziati in classifica e avvantaggiata dalla presenza degli uffici della Comunità europea a Bruxelles. L’Italia paga il solito prezzo, che si è visto in modo plateale nei premi alla ricerca Erc: molti riconoscimenti, in questo caso citazioni di lavori, vanno a grandi studiosi nazionali assoldati però da università, centri e ospedali stranieri. Nel 2017 sono stati 29 i ricercatori italiani “tra i più citati al mondo” e fuori dal nostro Paese. Tutti lavorano – a Harvard, Yale e Berkeley, a Melbourne, Amsterdan, Londra e Parigi – in posizioni di assoluta preminenza: guidano divisioni ospedaliere, team di ricerca sul cancro, prime istituzioni economiche.

I GRANDI SCIENZIATI ALL’ESTERO
Se si sommano i ricercatori citati in Italia e quelli in fuga (una fuga in alcuni casi stanziale, visto che i protagonisti hanno preso una seconda cittadinanza) l’Italia mette nella lista Reuters 75 studiosi “highly cited” (il 2,1 per cento del totale). In classifica, in questo modo, raggiungeremmo il Giappone al decimo posto. Per dire, tra gli italiani citati all’estero c’è Maurizio Corbetta, uno dei cento scienziati più conosciuti al mondo, neurologo laureato all’Università di Pavia ora in classifica per i suoi studi sul cervello portati avanti alla Washington School. Lo hanno chiamato a fine 2015 a dirigere la clinica neurologica dell’ospedale di Padova, ma i suoi “papers” arricchiscono ancora la bacheca dell’ateneo statunitense. Federico Capasso, 68 anni, si è laureato in Fisica alla Sapienza di Roma e, poi, ha firmato oltre 300 pubblicazioni e 50 brevetti (tra cui il laser a cascata quantica) negli Stati Uniti. Annamaria Lusardi, piacentina graduata alla Bocconi di Milano, oggi, insediata alla George Washington, guida il Comitato per l’educazione finanziaria, riferimento mondiale sul tema. Lo scienziato del cibo Vincenzo Fogliano dalla Federico II di Napoli è migrato all’Università di Wageningen in Olanda, da dove i suoi lavori hanno ricevuto oltre 12mila citazioni. Sono italiani, i ventinove, formati ad alto costo dalle nostre università (la Statale di Milano, la Bicocca, la Cattolica, Padova, Parma, il Politecnico di Bari, Palermo) e oggi danno prestigio e portano finanziamenti ad atenei, fondazioni e aziende straniere.

GLI EXPLOIT DI PAVIA, TORINO E CNR
Nella classifica Reuters l’ateneo italiano con i ricercatori più citati è Bologna (5), per la prima volta in testa. Seguono l’Università di Pavia (4), l’Università di Torino (3) e il Consiglio nazionale delle ricerche (3), che annovera l’unico italiano presente nella disciplina Informatica e che perde il primato nazionale di citazioni globali dopo averlo tenuto dal 2014 al 2016. Due “high citations” sono andate alla Statale di Milano, all’Istituto Mario Negri di Milano, all’Istituto oncologico europeo di Milano, all’Università di Parma, all’Osservatorio astronomico di Bologna, all’Irccs e a due ricercatori gestiti in Italia dalla Commissione europea. Con la sua rete di atenei, ospedali e centri studio è comunque Milano ad esprimere nel Paese il maggior numero di scienziati citati: dieci.

Dio ci scampi dal Consiglio di stato e dalle leggi del tempo del calesse

Articolo di Pierluigi Magnaschi pubblicato giovedì 8 febbraio 2018 da ItaliaOggi.

Dio ci scampi dal Consiglio di stato e dalle leggi del tempo del calesse

Una recentissima sentenza del Consiglio di stato ha vietato al Politecnico di Milano di impartire lezioni usando la lingua inglese. Il Consiglio di stato (che pure ha precise responsabilità anche in prima persona: basti guardare il balletto delle sue sentenze favorevoli e contrarie all’assunzione di sovrintendenti museali esteri) non ha tutte le responsabilità, visto che ha a che fare con una legislazione pletorica, arretrata, confusionaria, alluvionale e contraddittoria, nella quale chi ha qualcosa da difendere si infila baldanzoso ed eccitato come un topo nel formaggio.

Di fatto, l’Italia che conta, quella della ricerca, della globalizzazione, dell’economia 4.0, dell’innovazione, della crescita, dell’occupazione, della competizione internazionale è stata inesorabilmente azzoppata da una decisione che non sta né il cielo né in terra. Infatti nel mondo dell’interconnessione globale, istantanea e gratuita, di tutti i centri produttivi e di ricerca del mondo, grazie al web, ricercatori, studenti e imprenditori debbono essere in grado facilmente di interloquire con tutto il mondo, in tempo reale, per collocare (o acquisire) le loro merci, i loro servizi o le loro conoscenze da chiunque sia in grado di offrirle al meglio, dovunque egli viva.

L’inglese, oggi, non è più la lingua del Regno Unito, degli Stati Uniti o, se vogliamo, dell’Australia e della Nuova Zelanda ma è diventata la lingua del mondo globalizzato. A questa realtà incontestabile (basta chiederlo a chiunque non rimane imbozzolato nel suo mondo provinciale, prima ancora che nazionale) sono rimasti tetragoni quasi tutti i dipendenti pubblici e quindi anche i magistrati del Consiglio di stato (basterebbe verificare quanti di loro posseggono una conoscenza dell’inglese almeno a livello del Toefl per capire quanto essi siano estranei alla contemporaneità).

Oggi anche Paesi che erano rabbiosamente aggrappati al primato della loro lingua, per difendere il quale (guarda la Francia) avevano fatto carte false pur di riuscire a preservarne la diffusione (operazione riuscita solo in Italia dove infatti il francese è una lingua imposta a scuola alla povera gente, nel disinteresse delle forze di sinistra e dei sindacati; i benestanti infatti l’inglese l’imparano da soli nelle scuole private) questi paesi come la Francia, dicevo, hanno ceduto alla realtà dei fatti. Oggi infatti in Francia sono molti i corsi universitari e post universitari dove l’inglese è la lingua corrente.

Ma il colpo decisivo per la mondializzazione dell’inglese lo ha dato la Cina che pure ha un’autentica e millenaria venerazione per la sua lingua di cui, non a caso, conserva i caratteri logogrammatici, anche se questi ne complicano enormemente l’apprendimento. Questi caratteri non vanno certo in soffitta ma, molto più semplicemente, coabiteranno, nelle teste della classe dirigente cinese con le parole inglesi. Ebbene, questa Cina così nazionalista, così chiusa in se stessa e nelle sue tradizioni, ha contemporaneamente inaugurato, sette anni fa, 13 enormi post università sparse in tutto il suo immenso territorio nazionale nelle quali l’insegnamento si impartisce, e la ricerca si fa, solo in inglese.

Nel piano di questo colossale progetto (educativo, di ricerca ed economico) è stata spiegata, per filo e per segno, la ragione per cui, in queste mega università cinesi di punta, si è deciso di adottare, nell’insegnamento, soltanto la lingua inglese. I dirigenti di Pechino dicono (e hanno mille ragioni per pensarlo) che un’università di punta, già nel primo ventennio di questo secolo, deve essere in grado di attrarre, non solo i migliori insegnanti da tutto il mondo ma anche i migliori studenti da tutto il globo. Altrimenti essa resta un’università periferica, disancorata dal flusso impetuoso delle conoscenze e del benchmarking internazionale.

Ora, se uno straordinario studente di ingegneria di Zelo Buonpersico, di Ostia mare, o di Catanzaro, dovesse imparare il cinese per poter proseguire gli studi in una di queste post università cinesi, non prenderebbe nemmeno in considerazione l’ipotesi di un suo temporaneo trasferimento in Cina. Ma se, pagando i corsi un decimo di quello che costano gli analoghi studi di pari livello negli atenei statunitensi, potesse proseguire in Cina i suoi studi in lingua inglese, molto probabilmente coglierebbe al volo questa possibilità. Lo stesso, e a maggior ragione, capita ai professori universitari e, in genere, ai ricercatori, che sono diventati sempre più nomadi e si spostano da un centro di eccellenza all’altro, da una parte all’altra del mondo, proprio perché l’adozione generalizzata dell’inglese consente loro di facilissimamente superare le barriere linguistiche che, in caso contrario, diventerebbero insuperabili.

L’altro giorno ho incontrato un giovane italiano, specializzando in medicina, che era reduce da un soggiorno di sei mesi presso un grande e avanzatissimo ospedale danese. Un po’ meravigliato (e anche un po’ naïf, come se fossi un magistrato del nostro Consiglio di stato) gli ho chiesto: «Ma tu sai il danese?». «No», mi ha risposto con un po’ di condiscendenza, «non serve conoscere il danese perché in ospedale, a Copenhagen, tutti i medici conoscono perfettamente l’inglese e lo usano indifferentemente con il danese, a seconda delle loro necessità di comunicazione». Lo stesso medico italiano, oggi specializzando presso le migliori istituzioni europee, mi ha spiegato che ha passato altri sei mesi in un ospedale tedesco dove il suo lavoro di specializzazione è stato reso fluido e possibile perché la lingua usata dai medici dell’èquipe, inevitabilmente internazionale anche là, era l’inglese, che tutti i chirurghi (ma anche il personale paramedico) usavano senza difficoltà o esitazione.

Lo stesso mi è capitato con una giovane studentessa italiana che sta frequentando il quarto anno di un liceo classico milanese e che era reduce da un Erasmus in Belgio, dedicato all’analisi del latino nella semantica contemporanea. I partecipanti a questo corso dovevano sapere bene il latino e ottimamente l’inglese per poter lavorare insieme su un argomento così stimolante, anche perché il suo ruolo era arricchito dagli studi umanistici profondamente diversi nei due paesi, anche se ancorati alla stessa piattaforma latina. Se gli studenti belgi, per fare questo seminario, avessero dovuto apprendere l’italiano e quelli italiani avessero dovuto sapere il fiammingo o il vallone, un incontro così culturalmente interessante non avrebbe certo potuto avvenire.

Ecco perché la sentenza del Consiglio di stato rappresenta una sconvolgente palla al piede per lo sviluppo dell’Italia intera. Essa infatti colpisce la parte migliore del nostro Paese, punendo specificatamente quei professori italiani che, pur potendo placidamente insegnare nella sola loro lingua, hanno acquisito delle competenze aggiuntive, e non retribuite a parte (l’inglese), per potersi meglio esprimere, a vantaggio dell’Istituzione (il Politecnico di Milano) e dei suoi studenti.

Vade retro l’inglese lo può dire, oggi, solo un paese blindato nei suoi confini, autarchico, autosufficiente e isolato dal resto del mondo. Cioè un paese povero e inaridito. Non certo un paese di eccellenze come, nonostante tutto, è l’Italia; e un’istituzione (il Politecnico di Milano) che, dalla sua fondazione, è sempre stata, non un protagonista dell’innovazione, ma un promotore dell’innovazione stessa.

Questo succede, non perché l’Italia è pigra, come qualcuno, pigro sul serio, osa sostenere. Ma perché lo Stato italiano, nelle sue varie articolazioni (dalla politica all’alta burocrazia), si batte, purtroppo, perché il meglio e l’innovazione non si diffondano. Se infatti una certa burocrazia nostrana dovesse preparare il regolamento del Giro d’Italia, prevederebbe l’obbligo della partenza e dell’arrivo in gruppo e la squalifica dei ciclisti che volessero andare in fuga.

L’ateneo di Pechino compra casa a Milano. Sarà la base europea

Articolo di Luca Orlando pubblicato giovedì 8 febbraio dal sito di Scuola24.

L’ateneo di Pechino compra casa a Milano. Sarà la base europea

«Beh, non mi pare una brutta cosa, lei che dice?». Francesco Mendini preferisce l’understatement, anche se la soddisfazione è tangibile. Bovisa Tech, periferia nord-ovest di Milano, uno dei fiori all’occhiello del suo studio di architettura, è stato infatti scelto dalla Tsinghua University di Pechino come sede del proprio hub europeo per la ricerca e l’innovazione. Localizzazione del resto naturale, visto che l’intero progetto rappresenta la concretizzazione della partnership con il Politecnico di Milano, che proprio in Bovisa ha creato il nuovo polo di ingegneria, design e start-up. A sbarcare a Milano è il braccio operativo TusStar, il più grande incubatore al mondo, colosso attivo dal 1999, in grado di incubare oltre 5.000 aziende, una trentina delle quali già sbarcate in borsa. Realtà decisamente “pesante”, con un giro d’affari globale superiore agli otto miliardi di euro e più di un miliardo e mezzo di profitti. Al gruppo, un centinaio di siti in Cina e altre sedi in tutto il mondo (Usa, Canada, Brasile, Egitto, Malesia, Australia e Svizzera) mancava un approdo nell’Unione Europea, trovato ora a Milano, «rilevando uno spazio di 23mila metri quadri», ci racconta il direttore generale di TusStar Lin Jian. L’obiettivo è quello di creare a fianco del Campus Bovisa del Politecnico di Milano una piattaforma per l’attrazione di investimenti cinesi in innovazione, sostenendo le attività di trasferimento tecnologico fra le rispettive accademie e il mondo delle imprese, facendo leva sulla creazione di startup. Operazione appena concretizzata che tuttavia viene da lontano, sigillata lo scorso febbraio da un accordo tra i due rettori avvenuto alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del suo omologo cinese Xi Jinping. Joint platform tra Politecnico e Tsinghua partita ufficialmente lo scorso novembre e ora finalizzata con l’acquisto delle aree. Un vasto complesso a ridosso di Polihub, incubatore del Politecnico gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano, spazi che verranno a breve attrezzati per poter avviare le attività. Sulla base delle intese siglate i due atenei collaboreranno sul fronte della ricerca nella prospettiva di valorizzare i laboratori del Politecnico di Milano per progetti congiunti. Prenderà il via una attività di formazione post-laurea (corsi di formazione post graduate ed Executive PhD), rivolta anche a manager di aziende a proprietà cinese, a cui si aggiungono partnership nell’area del trasferimento tecnologico per agevolare lo sviluppo di progetti di collaborazione tra imprese italiane e cinesi, così come la promozione di start up grazie al coinvolgimento degli incubatori dei due atenei: Polihub e TusStar. L’obiettivo è dunque anche quello di aumentare il numero di aziende incubate, coinvolgendo realtà italiane e cinesi. Tra i progetti allo studio vi è anche l’avvio di master ad-hoc, sfruttando le potenzialità offerte dal Mip, graduate school of business del Politecnico di Milano, così come l’avvio di una base innovativa congiunta dedicata al design e alla progettazione. I benefici di questa joint platform saranno reciproci: studenti, manager e professionisti potranno entrare in contatto con potenziali partner di ricerca e affari, sfruttando le capacità formative reciproche. «Si procede sul modello del distretto – spiega il presidente della Fondazione Politecnico di Milano Gianantonio Magnani – aggiungendo nuovi soggetti in grado di portare contributi per innovare. Noi stessi come Polihub puntiamo a crescere, e in zona per fortuna ci sono ancora spazi disponibili per farlo». Per il quartiere, che ha visto negli anni l’apertura di nuovi spazi del Politecnico, così come dell’incubatore Polihub, si tratta di una sorta di “consacrazione” definitiva, una transizione finalmente compiuta dalla manifattura tradizionale all’economia della conoscenza,candidando il Campus Bovisa del Politecnico di Milano a diventare uno dei più importanti cluster d’innovazione d’Europa. «A quest’area – spiega ancora l’architetto Mendini – abbiamo voluto dare un’immagine molto tecnica inserendo vetri retrocolorati ma utilizzando anche materiali tradizionali, come il legno. Era un modo per creare un ponte tra la vecchia Bovisa industriale e le nuove attività. Ai tempi non sapevamo che qui sarebbe venuta un’università straniera. Che in effetti, riflettendo, si integra perfettamente con quello che abbiamo creato».

Università gratis: quella certa voglia di omologazione al ribasso

Articolo di Piero Cecchinato pubblicato venerdì 12 gennaio 2018 dal sito di Linkiesta.

Università gratis: quella certa voglia di omologazione al ribasso

Si definiscono “imposte” quei tributi richiesti per soddisfare bisogni pubblici giudicati indivisibili, che quindi vanno pagati da tutti i cittadini a prescindere dal fatto che si fruisca dei servizi finanziati con la relativa raccolta (Irpef, Ires, Irap, etc.).

Chiamiamo invece “tasse” quei tributi che il cittadino è tenuto a pagare a fronte di un certo servizio (si pensi alla vecchia TARSU), con la precisazione che non esiste comunque, in questo caso, un vero rapporto di corrispettività tra prestazione pecuniaria e attività pubblica. Solitamente la tassa è infatti inferiore al costo del servizio, che per il resto è coperto dalla fiscalità generale e dalla raccolta di imposte.

Si definiscono infine “tariffe” i prezzi di fruizione di un servizio che, anche se di rilievo pubblico (come il servizio di trasporto), dà origine a rapporti di diritto privato e non di rilevanza tributaria. Il vincolo che si instaura è contrattuale e non coercitivo: chi consuma paga.

Le rette universitarie rientrano nella seconda tipologia. Si tratta di tasse che il cittadino è tenuto a versare a fronte di un certo servizio. La fiscalità generale sarà poi chiamata ad integrare i costi necessari per erogare quel servizio laddove non coperti dalle rette versate dagli studenti.

Quanto utilizzare traendolo dalle imposte di fiscalità generale e quanto dalle rette versate dagli studenti è questione tutta politica.

L’Italia è uno dei paesi europei con le rette mediamente più elevate, attestandosi a circa 2.000 dollari all’anno (di seguito gli ultimi dati tratti dal rapporto Education at glance 2017 dell’OECD).

Tuition Fee Bachelor's Level (EACG 2017)

In Europa peggio dell’Italia solo Olanda, Spagna e Regno Unito (che però ha un sistema universitario difficilmente comparabile).

Le tasse italiane sono tuttavia mediamente inferiori rispetto ad un discreto numero di altri Paesi dell’OCSE, come USA, Nuova Zelanda, Canada, Giappone, Cile e Australia.

La rilevazione OCSE si riferisce ovviamente alle medie/paese e, per quanto riguarda l’Italia, tiene conto anche del principio di progressività, per il quale chi ha di più paga di più.

Così, ad esempio, nell’Università della mia città, con un ISEE di 100.000,00 euro si arriva a sostenere un costo complessivo annuo di 2.504 €. Con un ISEE di 10.000,00 euro un costo complessivo di 153,59 €.

Nell’Università pubblica italiana i più ricchi pagano infatti di più.

Che dire allora della proposta di Pietro Grasso di rendere l’Università completamente gratuita per tutti?

Siccome parte da un presupposto sbagliato, ossia che i più abbienti frequentino solo istituti privati, ci pare una proposta sbagliata.

La gratuità totale finirebbe invero per premiare i figli dei più ricchi e, come dice il nome del movimento politico che la propugna (Liberi e Uguali), finirebbe per rendere così formalmente uguali tutti gli studenti, ma sostanzialmete annullando anche ogni. Una dannosa omologazione al ribasso. Rendendoli inoltre meno liberi, perché la libertà in democrazia ed in condizioni di concorrenza necessariamente imperfetta (quella perfetta non appartiene a questo mondo), di sacche di privilegio e monopolio, impone correttivi per assicurare le medesime possibilità a tutti, senza avvantaggiare qualcuno a scapito di altri.

In un paese che già spende molto poco in istruzione (vedi la tabella che segue, sempre tratta da EAG 2017), pensare di finanziare l’Università facendo a meno delle rette e ricorrendo interamente alla fiscalità generale ci appare quindi decisamente sbagliato.

Total Government Expenditures

Molto meglio, se proprio vogliamo agire sulla tassazione per rendere più equo il sistema, alzare le aree di esenzione, aumentare gli scaglioni di progressività ed il numero di borse di studio.

Ma c’è un’altra ragione per cui non riteniamo opportuno riversare interamente sulla fiscalità generale i costi dell’Università.

La tassazione diretta in capo allo studente (salvo il principio di progressività, per quanto ci riguarda) crea con l’istituto un conflitto, assolutamente genuino, che costringe quest’ultimo a fornire un’offerta formativa sempre migliore per non perdere introiti.

Trarre le risorse in maniera indistinta dalla fiscalità generale toglie invece incentivi agli istituti per migliorarsi, spingendoli verso una dannosa omologazione al ribasso.

Laddove possibile sarà quindi sempre preferibile un costo legato direttamente al servizio (una tassa o addirittura una tariffa), perché più democratico. Un simile sistema mette infatti l’utente nella condizione di poter contestare attivamente le scelte di spesa rifiutando il servizio e, quindi, di influire sulle decisioni di chi quelle scelte assume, politici od amministratori che siano.

Del resto, il futuro della democrazia si gioca anche, e forse soprattutto, su una maggiore politicizzazione del tributo. Su una maggiore vicinanza del contribuente alle scelte di spesa. Su una maggiore presenza di tributi locali e di scopo, che costringono il governante ad una maggiore trasparenza e consentono una migliore verifica da parte dell’elettore dell’impiego dei fondi.

Il finanziamento tratto dalla fiscalità generale, invece, annacqua l’impiego delle risorse, allontana il contribuente dalle decisioni di spesa e rende più difficile giudicare il servizio rispetto alle risorse impiegate.

Si obietterà che è interesse generale che l’Università sia sussidiata dalla collettività piuttosto che dai suoi utenti, perché il ritorno in termini di investimento in istruzione è un ritorno di cui beneficia tutta la comunità.

Ma siccome la coperta è sempre la stessa, a parità di risorse è preferibile un sistema, pur a tassazione progressiva, che metta l’utente del servizio in conflitto diretto con l’ente che lo eroga, perché ciò offre maggiori garanzie di qualità.

E se si vuole evitare l’esborso diretto a carico degli studenti, allora un’altra soluzione preferibile è quella del prof. Paolo Gubitta della Scuola di Economia dell’Università di Padova: finanziare direttamente gli studenti (e non gli atenei), affinché questi possano scegliersi l’università di maggior gradimento.

Una proposta che ha l’enorme pregio di spingere al massimo la competizione fra istituti e migliorare enormemente l’offerta formativa.

Di certo, i cattivi esempi di spesa degli ultimi decenni scoraggiano finanziamenti diretti in capo agli istituti tratti dalla fiscalità generale.

Purtroppo, la modernità democratica ci sta portando troppo spesso a dolerci del principio “No taxation without representation” (nessuna imposta se non votata dai rappresentanti in Parlamento) e se va avanti così ci porterà all’estremo di preferire un sistema con “No more taxation with representation”, ossia un sistema che riduca il più possibile le scelte di impiego delle nostre risorse da parte dei governanti, troppo spesso legate a tornaconti personali lontani dalle effettive esigenze della comunità.