L’università è un ingrediente centrale di qualsiasi strategia di sviluppo, soprattutto quando l’oggetto sia la trasformazione delle vocazioni imprenditoriali verso settori a maggiore valore aggiunto. Anche le pietre sanno che non esisterebbe Silicon Valley senza Stanford, UC Berkeley e UC San José, così come non avrebbe senso parlare di Silicon Beach senza USC e UCLA.
Le traiettorie verso un ruolo di hub dell’innovazione e della trasformazione sono evidenti anche in Europa, come evidenzia ad esempio l’Imperial College a Londra con l’iniziativa Imperial Innovations. Scopriamo che anche la Repubblica Ceca a Brno sta investendo grazie al supporto europeo nell’Università Masaryk.
In Italia le ricette sono sempre le stesse, ripetute all’ossessione: più risorse, più STEM (acronimo che indica i percorsi di studio in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), più meritocrazia e più controlli. L’università (oltre che di più risorse che però sarebbero una conseguenza di quanto sto per descrivere) ha oggi bisogno di ben altro, ovvero di essere liberata!
L’università italiana contrariamente al senso comune ha bisogno di più libertà, di un’iniezione vera di responsabilità che le consenta di trasformare l’enorme potenziale in quel volano per lo sviluppo del paese che oggi manca del tutto.
I tre grandi problemi da affrontare sono sostanzialmente legati alle modalità di funzionamento, all’organizzazione (il sacro Graal di qualsiasi problema in questo paese, ma sempre disatteso – non è un caso che gli esperti siano sempre giuristi o economisti, mai coloro che studiano come far funzionare le cose…) e dipendono da una autonomia incompleta e dalla voracità del centralismo ministeriale.
Il primo problema è la mancanza di una vera autonomia che implichi anche la responsabilità e la possibilità di fallire. Contrariamente a quanto dovrebbe far supporre l’approvazione della cosiddetta autonomia universitaria, la realtà è una quantità imbarazzante di regole e norme che vincolano le decisioni e che si traducono in un controllo ossessivo della forma, spesso senza nessuna valutazione del supposto beneficio.
Per esempio, per molto tempo alle università pubbliche è stato di fatto quasi impedito di investire in comunicazione esterna anche qualora avessero scelto di destinare a ciò risorse proprie e questo non è che uno dei mille lacci e lacciuoli che riportano ai ministeri romani. Un altro aspetto riguarda l’autonomia didattica nella configurazione dei percorsi formativi.
I nostri corsi di laurea devono rispondere a delle tabelle astratte che fanno riferimento a settori disciplinari presenti solo nel nostro paese con questa formalizzazione pubblica. Queste tabelle sono frutto di rapporti di forza negli organi ai tempi della loro redazione. Oggi sono “tabelle della legge” e creano vincoli irragionevoli all’innovazione didattica, il tutto soprattutto a causa del valore legale del titolo di studio, altro simulacro di cui fare volentieri a meno.
È infatti il valore legale che impone una uniformità tra percorsi che forza all’utilizzo di tabelle astratte, quanto meno per alcuni percorsi di formazione. Su questo primo punto non sarebbe difficile intervenire. Si potrebbe per esempio consentire alle università di decidere se vogliono o meno rimanere nell’alveo del valore legale del tutto o solo su alcuni percorsi, per esempio quelli a forte vocazione internazionale.
Inoltre, andrebbe creata una vera autonomia con un budget vincolato solo ad obiettivi, questi sì tassativi e ben misurati. Probabilmente gioverebbe una trasformazione per esempio in Fondazioni per inserire i giusti correttivi rispetto alla concessione di autonomia. Forse, alcune università potrebbero essere gestite male e fallire, ma altre potrebbero finalmente definire piani strategici che non siano esercizi di stile come accade oggi.
Il secondo problema è il deficit di imprenditorialità delle università italiane che ha radici ancora una volta in una regolazione assurda di stampo centralistico. Oggi, di fatto, la variabilità delle strutture retributive di docenti e non docenti è limitatissima ed esistono in molti atenei tetti arbitrari a prescindere dal contributo. Non è possibile per esempio definire una retribuzione ad hoc per reclutare docenti particolarmente capaci anche all’estero o ricompensare chi sia in grado di attrarre fondi e opportunità o abbia voglia di lavorare davvero di più.
Questa ipocrisia tutta del sistema pubblico italiano non ha alcuna ragione di esistere in un settore che non ha il ruolo di custodire l’esistente ma di stimolare il nuovo e il cambiamento. E non si tratta di meritocrazia, altro vuoto simulacro che si agita sempre quando si parla di università. È il mercato, che non deve certo definire cosa studiare, ma nemmeno rimanere fuori dalla porta dell’università, quasi fosse una cosa disdicevole.
Un altro aspetto che limita l’imprenditorialità è la visione dello studente come cliente. Gli studenti sono una componente vitale del processo stesso di esistenza dell’università e si dovrebbero considerare tali non solo per la partecipazione (sempre minoritaria) ai vari organi di governo, ma anche per la creazione di una comunità estesa nella quale apprendimento, sperimentazione, sviluppo di idee e creazione di nuovi business diventino gli elementi fondamentali di concezione stessa dell’università.
Il terzo problema è la scarsa attenzione all’innovazione nel funzionamento operativo dell’università. L’innovazione deve diventare uno dei temi se non il tema centrale dell’attenzione nel disegno dei percorsi didattici, per esempio, affiancando alle consuete tesi di laurea lo sviluppo di business plan su idee generate nell’alveo del percorso di studi.
Il vero grande malato dell’università italiana è il personale tecnico amministrativo, malato perché non necessariamente colpevole dello stato di abbandono in termini di mancanza di modelli di gestione e sviluppo moderni, soffocato dai vincoli dell’impiego pubblico e costretto da modelli organizzativi antichi e tayloristi.
L’innovazione deve riguardare anche un ripensamento del ruolo oggi fortemente distinto e subordinato culturalmente a quello dei docenti con una radicalità che non si trova in altri ordinamenti universitari nei paesi a maggiore sviluppo. Le strutture amministrative devono essere dei service di qualità, avere proprie strategie e contribuire al funzionamento dell’università, non essere trasformate nella caricatura di un mastino da controllo.
Anche sul ruolo della docenza si dovrebbe uscire dal ridicolo di contratti di insegnamento attribuiti con concorsi comparativi a fronte di compensi a volte meno che simbolici. Perché non istituire nell’alveo di una vera autonomia la possibilità di contratti annuali non-tenured, ad esempio per contribuire a quella didattica attiva che talvolta non è detto sia nelle corde o negli obiettivi dei docenti di ruolo.
L’università italiana non è una grande malata, l’università italiana non è indietro e nel contempo lo è, ma più per le condizioni di contesto alle quali ci siamo colpevolmente rassegnati. L’università italiana non ha avuto ancora il permesso di uscire dai box e competere alla pari; il suo fardello è un assetto centralista ossessivo.
Non è un caso se le università italiane private non sfigurino nella reputazione internazionale. In esse operano docenti molto simili se non del tutto uguali agli altri, certo con l’innesto di docenti derivanti da una mobilità internazionale oggi virtualmente impossibile per le università pubbliche.
Purtroppo, questi, che sono i veri problemi del paese, non sono al centro né dell’opinione pubblica, né dell’azione politica e temo che non si scatenerà alcun dibattito. L’università così come è non ha la possibilità di contribuire come potrebbe, ma a nessuno sembra interessare. E a voi?