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FLC CGIL – Ministro Bussetti, giù le mani dalla scuola nazionale e costituzionale. E si ricordi dell’intesa che ha sottoscritto con noi il 24 aprile 2019

Comunicato stampa di Francesco Sinopoli, Segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL, pubblicato lunedì 8 luglio 2019.

Ministro Bussetti, giù le mani dalla scuola nazionale e costituzionale. E si ricordi dell’intesa che ha sottoscritto con noi il 24 aprile 2019

Il Ministro Bussetti mostra due volti: uno quando parla con i giornali nazionali e con i Sindacati e un altro quando parla dai giornali locali.

Da quel che egli sostiene sul Corriere del Veneto del 7 luglio 2019 sembra emergere una totale dimenticanza di quanto ha sottoscritto con i maggiori sindacati della Scuola e dell’Istruzione il 24 aprile 2019.
Glielo ricordiamo noi, allora, quanto ha sottoscritto nell’Intesa:

“Il Governo si impegna a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo status giuridico di tutto il personale regolato dal CCNL, e la tutela dell’unitarietà degli ordinamenti statali, dei curricoli e del sistema di governo delle istituzioni scolastiche autonome”.

Ora, il Ministro dice che il suo modello si ispira a quello della Val d’Aosta e del Trentino, dove – ricorda in altro articolo lo stesso Corriere del Veneto – risorse, orario, piano di studio, contratti di lavoro, mobilità, aggiornamento del personale docente e ATA, reclutamento dei dirigenti scolastici, non sono più nazionali.

Dicendo ciò si confessa candidamente che il sistema scolastico e di istruzione non esisterà più perché diventa regionale a statuto speciale.
Non è questo che si legge in Costituzione.

I patti vanno rispettati e noi ci attendiamo che il Ministro recuperi l’unitarietà di memoria e di pensiero rileggendo quanto egli stesso ha sottoscritto insieme al Presidente del Consiglio il 24 aprile 2019.

La FLC CGIL non starà a guardare inerte allo scempio che si vuole fare della Carta Costituzionale e del sistema scolastico e dell’istruzione del Paese e si prepara fin d’ora alla mobilitazione del personale nelle forme democratiche necessarie, nessuna esclusa, fino a che questo sciagurato disegno non venga deposto definitivamente nel cassetto.

Luca Solari (Università di Milano) – È tempo di una (nuova) riforma dell’università?

Articolo di Luca Solari pubblicato mercoledì 15 maggio 2019 sul sito di Huffington Post.

È tempo di una (nuova) riforma dell’università?

L’università è un ingrediente centrale di qualsiasi strategia di sviluppo, soprattutto quando l’oggetto sia la trasformazione delle vocazioni imprenditoriali verso settori a maggiore valore aggiunto. Anche le pietre sanno che non esisterebbe Silicon Valley senza Stanford, UC Berkeley e UC San José, così come non avrebbe senso parlare di Silicon Beach senza USC e UCLA.

Le traiettorie verso un ruolo di hub dell’innovazione e della trasformazione sono evidenti anche in Europa, come evidenzia ad esempio l’Imperial College a Londra con l’iniziativa Imperial Innovations. Scopriamo che anche la Repubblica Ceca a Brno sta investendo grazie al supporto europeo nell’Università Masaryk.

In Italia le ricette sono sempre le stesse, ripetute all’ossessione: più risorse, più STEM (acronimo che indica i percorsi di studio in scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), più meritocrazia e più controlli. L’università (oltre che di più risorse che però sarebbero una conseguenza di quanto sto per descrivere) ha oggi bisogno di ben altro, ovvero di essere liberata!

L’università italiana contrariamente al senso comune ha bisogno di più libertà, di un’iniezione vera di responsabilità che le consenta di trasformare l’enorme potenziale in quel volano per lo sviluppo del paese che oggi manca del tutto.

I tre grandi problemi da affrontare sono sostanzialmente legati alle modalità di funzionamento, all’organizzazione (il sacro Graal di qualsiasi problema in questo paese, ma sempre disatteso – non è un caso che gli esperti siano sempre giuristi o economisti, mai coloro che studiano come far funzionare le cose…) e dipendono da una autonomia incompleta e dalla voracità del centralismo ministeriale.

Il primo problema è la mancanza di una vera autonomia che implichi anche la responsabilità e la possibilità di fallire. Contrariamente a quanto dovrebbe far supporre l’approvazione della cosiddetta autonomia universitaria, la realtà è una quantità imbarazzante di regole e norme che vincolano le decisioni e che si traducono in un controllo ossessivo della forma, spesso senza nessuna valutazione del supposto beneficio.

Per esempio, per molto tempo alle università pubbliche è stato di fatto quasi impedito di investire in comunicazione esterna anche qualora avessero scelto di destinare a ciò risorse proprie e questo non è che uno dei mille lacci e lacciuoli che riportano ai ministeri romani. Un altro aspetto riguarda l’autonomia didattica nella configurazione dei percorsi formativi.

I nostri corsi di laurea devono rispondere a delle tabelle astratte che fanno riferimento a settori disciplinari presenti solo nel nostro paese con questa formalizzazione pubblica. Queste tabelle sono frutto di rapporti di forza negli organi ai tempi della loro redazione. Oggi sono “tabelle della legge” e creano vincoli irragionevoli all’innovazione didattica, il tutto soprattutto a causa del valore legale del titolo di studio, altro simulacro di cui fare volentieri a meno.

È infatti il valore legale che impone una uniformità tra percorsi che forza all’utilizzo di tabelle astratte, quanto meno per alcuni percorsi di formazione. Su questo primo punto non sarebbe difficile intervenire. Si potrebbe per esempio consentire alle università di decidere se vogliono o meno rimanere nell’alveo del valore legale del tutto o solo su alcuni percorsi, per esempio quelli a forte vocazione internazionale.

Inoltre, andrebbe creata una vera autonomia con un budget vincolato solo ad obiettivi, questi sì tassativi e ben misurati. Probabilmente gioverebbe una trasformazione per esempio in Fondazioni per inserire i giusti correttivi rispetto alla concessione di autonomia. Forse, alcune università potrebbero essere gestite male e fallire, ma altre potrebbero finalmente definire piani strategici che non siano esercizi di stile come accade oggi.

Il secondo problema è il deficit di imprenditorialità delle università italiane che ha radici ancora una volta in una regolazione assurda di stampo centralistico. Oggi, di fatto, la variabilità delle strutture retributive di docenti e non docenti è limitatissima ed esistono in molti atenei tetti arbitrari a prescindere dal contributo. Non è possibile per esempio definire una retribuzione ad hoc per reclutare docenti particolarmente capaci anche all’estero o ricompensare chi sia in grado di attrarre fondi e opportunità o abbia voglia di lavorare davvero di più.

Questa ipocrisia tutta del sistema pubblico italiano non ha alcuna ragione di esistere in un settore che non ha il ruolo di custodire l’esistente ma di stimolare il nuovo e il cambiamento. E non si tratta di meritocrazia, altro vuoto simulacro che si agita sempre quando si parla di università. È il mercato, che non deve certo definire cosa studiare, ma nemmeno rimanere fuori dalla porta dell’università, quasi fosse una cosa disdicevole.

Un altro aspetto che limita l’imprenditorialità è la visione dello studente come cliente. Gli studenti sono una componente vitale del processo stesso di esistenza dell’università e si dovrebbero considerare tali non solo per la partecipazione (sempre minoritaria) ai vari organi di governo, ma anche per la creazione di una comunità estesa nella quale apprendimento, sperimentazione, sviluppo di idee e creazione di nuovi business diventino gli elementi fondamentali di concezione stessa dell’università.

Il terzo problema è la scarsa attenzione all’innovazione nel funzionamento operativo dell’università. L’innovazione deve diventare uno dei temi se non il tema centrale dell’attenzione nel disegno dei percorsi didattici, per esempio, affiancando alle consuete tesi di laurea lo sviluppo di business plan su idee generate nell’alveo del percorso di studi.

Il vero grande malato dell’università italiana è il personale tecnico amministrativo, malato perché non necessariamente colpevole dello stato di abbandono in termini di mancanza di modelli di gestione e sviluppo moderni, soffocato dai vincoli dell’impiego pubblico e costretto da modelli organizzativi antichi e tayloristi.

L’innovazione deve riguardare anche un ripensamento del ruolo oggi fortemente distinto e subordinato culturalmente a quello dei docenti con una radicalità che non si trova in altri ordinamenti universitari nei paesi a maggiore sviluppo. Le strutture amministrative devono essere dei service di qualità, avere proprie strategie e contribuire al funzionamento dell’università, non essere trasformate nella caricatura di un mastino da controllo.

Anche sul ruolo della docenza si dovrebbe uscire dal ridicolo di contratti di insegnamento attribuiti con concorsi comparativi a fronte di compensi a volte meno che simbolici. Perché non istituire nell’alveo di una vera autonomia la possibilità di contratti annuali non-tenured, ad esempio per contribuire a quella didattica attiva che talvolta non è detto sia nelle corde o negli obiettivi dei docenti di ruolo.

L’università italiana non è una grande malata, l’università italiana non è indietro e nel contempo lo è, ma più per le condizioni di contesto alle quali ci siamo colpevolmente rassegnati. L’università italiana non ha avuto ancora il permesso di uscire dai box e competere alla pari; il suo fardello è un assetto centralista ossessivo.

Non è un caso se le università italiane private non sfigurino nella reputazione internazionale. In esse operano docenti molto simili se non del tutto uguali agli altri, certo con l’innesto di docenti derivanti da una mobilità internazionale oggi virtualmente impossibile per le università pubbliche.

Purtroppo, questi, che sono i veri problemi del paese, non sono al centro né dell’opinione pubblica, né dell’azione politica e temo che non si scatenerà alcun dibattito. L’università così come è non ha la possibilità di contribuire come potrebbe, ma a nessuno sembra interessare. E a voi?

Maria Pia Veladiano – Ma ora serve il coraggio di non fare marcia indietro

Articolo pubblicato sabato 14 ottobre 2017 da la Repubblica.

Ma ora serve il coraggio di non fare marcia indietro

L’alternanza scuola lavoro esisteva ben prima della legge 107 della “buona scuola”. Ne facevano esperienza gli studenti che lo richiedevano, in contesti significativi, legati al corso di studi e al progetto di vita. Chi intendeva studiare giurisprudenza andava in uno studio legale o da un notaio e metteva alla prova il suo sogno con la realtà. Chi studiava in un indirizzo economico andava in azienda. In alternanza le scuole accompagnavano anche studenti in difficoltà e demotivati: era un formidabile strumento di rimotivazione.

Nessuna protesta e nessun problema per anni. Anzi, gli studenti si mettevano in fila.

Perché adesso si scatena la bufera? Perché la legge 107 l’ha introdotta da un giorno all’altro, obbligatoria per tutti e con un numero di ore oggettivamente spropositato: 200 ore nei licei e 400 negli istituti tecnici, da fare negli ultimi tre anni di scuola. Il che significa che un tecnico di media grandezza, che ha 15 classi nel triennio, ciascuna di 30 studenti, deve organizzare 180mila ore di alternanza, ovvero 60mila all’anno.

Indipendentemente dal contesto (ci sono aziende? ci sono aziende preparate? ci sono insegnanti preparati a questo?) e dalle risorse. E ogni ragazzo deve fare i corsi per la sicurezza, deve avere un progetto formativo specifico. È stata una corsa forsennata, ed è possibile che qualche scuola non abbia trovato la formula giusta e qualche azienda ne abbia approfittato. Le scuole che avevano già una rete di contesti lavorativi coltivata negli anni riescono a offrire esperienze splendide. I licei artistici realizzano l’alternanza nella forma della “committenza” e le classi dipingono refettori, ospedali, stazioni. I ragazzi dell’indirizzo sanitario vanno nei laboratori, nelle farmacie e negli ospedali e si mettono in gioco nelle relazioni, nelle competenze, vanno a studiare la sera quel che capiscono che servirà il giorno dopo in laboratorio e sul lavoro più avanti. Perfetto. Ma in nessun momento lo studente deve avere la percezione che l’alternanza sia una formalità da adempiere o una forma subdola di sfruttamento.

Bisogna ripensare la quantità di ore: 400 sono troppe, soprattutto in realtà svuotate dalla crisi. Anche le scuole più virtuose sono in gravissimo affanno. Bisogna sorvegliare sugli abusi, favoriti dalla fretta con cui tutto è accaduto.

Bisogna non stritolare le scuole e dare risorse amministrative oltre che economiche. Qualcuno ha idea di quante carte, letteralmente, le segreterie devono produrre per ogni progetto individuale di alternanza? Ma interrompere il dialogo fra scuola e mondo del lavoro è sbagliato e anacronistico. Ora il Miur deve avere il coraggio di tenere il punto ma di cambiare quello che non va.

Imparare in azienda ma servono le risorse

Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sabato 14 ottobre 2017 da Il Corriere della Sera.

Imparare in azienda ma servono le risorse

Una scelta giusta. Ma dietro alla legge non c’era nessun piano di attuazione concreto

Nel 2015 la «Buona Scuola» ha reso la alternanza scuola-lavoro obbligatoria per tutti. Evidentemente una scelta giusta. Ma dietro alla legge non c’era nessun piano di attuazione concreto. Il Governo di allora pensava che presidi e insegnanti avrebbero saltato gli ostacoli tirandosi su per i capelli, come il barone di Münchhausen. Alcuni volenterosi ci sono riusciti, è vero. E quasi miracolosamente diverse promettenti iniziative sono state avviate. Ma sono isole in un mare nel quale la maggioranza delle scuole rischia oggi di affondare. Eppure non ci voleva molto a capire che senza risorse, preparazione e organizzazione l’alternanza non poteva decollare. Bastava guardare agli altri Paesi europei. I quali per realizzare l’alternanza hanno investito denaro pubblico, formato i docenti per svolgere compiti nuovi, creato nuove figure di «insegnanti-in-impresa» specializzati nella didattica work-based. Nessuno studente è pagato, ma tutti imparano realmente. Le parti sociali, gli enti locali, le associazioni intermedie sono state sensibilizzate e incentivate. Senza provvedimenti del tipo «fiat lux», ma con un paziente lavoro politico (nel senso nobile del termine: l’impegno a risolvere i problemi collettivi). A chi vuole farsi un’idea della superficialità con cui questa delicatissima riforma è stata gestita consiglio di visitare il sito del Miur alla voce alternanza. Un misto di roboanti paroloni e stucchevole burocratese. Le sezioni più interessanti del sito sono «coming soon»: aspetta e spera. La conseguenza più grave (anch’essa facilmente prevedibile) di questo colossale fallimento è l’esasperazione degli studenti e la loro tentazione a considerare l’insuccesso di una politica governativa come la prova che mercato, imprese, globalizzazione hanno come vero e principale obiettivo lo sfruttamento selvaggio dei più deboli. Una piccola riforma utile ma irresponsabilmente gestita rischia così di causare una spirale non solo di protesta, ma anche di delegittimazione dell’intero processo di riforma del sistema educativo. Le sirene massimaliste (quelle che «tanto peggio, tanto meglio») sono già all’opera. I nostri giovani saranno così ulteriormente incoraggiati a rimpiangere il mondo di ieri invece di impegnarsi per costruire quello di domani.

Gian Guido Balandi (Università di Ferrara) – In difesa della cooptazione (e degli onesti)

Articolo pubblicato mercoledì 11 ottobre 2017 sul sito della rivista Il Mulino.

In difesa della cooptazione (e degli onesti)

La recente vicenda dei concorsi di diritto tributario ha riportato all’attenzione delle cronache il tema della selezione del personale universitario. Consultando – per altra ragione – la raccolta di scritti di Luigi Einaudi Lo scrittoio del Presidente (Einaudi, 1956), mi sono imbattuto in una nota del 28 gennaio 1952, nella quale l’autore esprimeva approvazione per il progetto di individuare tramite sorteggio almeno una parte dei commissari dei concorsi a cattedra: «L’esigenza più sentita, in questa materia, è quella di ridurre al minimo l’influenza dei gruppi organizzati, di professori e di candidati [e] giova ridurre al minimo il peso degli accordi per candidature» (p. 608).

«Ridurre al minimo» consente di entrare subito in medias resIl meccanismo della cooptazione, unico sistema di selezione degli studiosi da parte di altri studiosi, praticato in tutto il mondo, porta con sé inevitabilmente un certo livello di confronto, e dunque potenzialmente anche di accordo, all’interno della comunità scientifica che deve operare la cooptazione. Questo meccanismo può patire delle irregolarità – che, ovviamente, è opportuno cercare di «ridurre al minimo» – al limite anche penalmente rilevanti, come quando si tenti di esercitare violenza su un candidato perché non partecipi. Ma non può essere sostituito da un meccanismo che si pretenda privo di valutazioni soggettive.

Si pensi al sistema delle lettere di presentazione, molto utilizzato a livello internazionale, grazie alle quali uno studioso affermato «presenta» un candidato: mi sembra evidente la legittima pressione, almeno psicologica, esercitata da una presentazione «pesante» rispetto a una più «leggera». Tuttavia, nell’approccio pubblico e mediatico al sistema della cooptazione, questo appare quasi sempre disinformato ed è fondato il sospetto che lo sia ad arte, tanto grossolano è in alcuni casi. Si pensi all’affermazione scandalizzata «si sapeva prima chi avrebbe vinto», con tanto di candidato bocciato che deposita dal notaio i nomi dei futuri vincitori. Posto che i concorsi universitari non si basano su una gara nella quale tutti partono eguali perché poi «vinca il migliore», il che si vedrà nel corso della prova stessa, ma sul valore scientifico di materiali pubblicati negli anni precedenti, lo scandalo sarebbe – e in alcuni casi certamente è anche stato – che vincesse chi «non si sapeva» che avrebbe vinto, perché privo dei requisiti necessari.

Ma se le difficoltà della cooptazione e dei necessari giudizi soggettivi sull’opera dei candidati – che le aree disciplinari delle scienze della natura e della tecnica cercano di sostituire con opinabili meccanismi quantitativi – sono un problema «di sempre», come già mostrava Einaudi 65 anni orsono, oggi risultano aggravate da alcune normative che governano l’università italiana.

Penso alla valutazione e al suo utilizzo. In modo assai imperfetto e con un impiego poco trasparente e limitato, la valutazione dell’attività degli universitari è iniziata e comincia a svolgere i suoi effetti, seppure per ora in modi (anche) assai criticabili. Si tratta, tuttavia, di un principio irrinunciabile. I processi di valutazione dovranno proseguire, seppur migliorati nei numerosi punti tuttora difettosi. Gli obiettivi della valutazione sono molteplici e uno emerge, per quanto interessa il reclutamento: assumere mediocri o addirittura somari deve divenire seriamente penalizzante per la struttura che li accoglie.

A questo fine è essenziale che il costo dell’assunzione del meno bravo «interno» debba essere uguale a quello del bravo «esterno», mentre oggi è assai inferiore. Questa perversa conseguenza della autonomia finanziaria delle sedi ha favorito una endogamia accademica del tutto preoccupante: ormai i cinquantenni hanno fatto, in gran numero, tutta la carriera – laurea, dottorato, assegno di ricerca, ricercatore, associato, ordinario – nella stessa sede. E di conseguenza si è rarefatta, fino quasi a scomparire, la mobilità. La convenienza ad assumere in ogni caso gli interni – indipendentemente dal loro valore – che garantiscano comunque i numeri per la didattica, favorisce e sollecita evidentemente anche i «traffici» per la loro abilitazione.

Altra questione antica – e sulla quale di tanto in tanto viene focalizzata l’attenzione mediatica, seppure sempre in un quadro di forte spregio per l’università tutta, identificata in «baronie» per vero ampiamente minoritarie – è quella del rapporto con le attività professionali. Si dice che i danari delle ricche, ricchissime libere professioni collegate ad alcuni settori scientifico-disciplinari siano il motore di molto mercimonio accademico concorsuale, anche se a volte vi restano impigliati, con la conseguente volgare esposizione mediatica, stimatissimi tempopienisti. Se questa è una delle componenti del problema delle irregolarità nei reclutamenti, si trovi il coraggio di tagliare il nodo ambiguo, e in alcuni casi perverso, tra professione e ricerca/insegnamento. Se in qualche area disciplinare si giudica significativo e importante l’apporto didattico dello stimato professionista, gli si attribuiscano incarichi temporanei di insegnamento ma lo si tenga lontano dalla cooptazione delle nuove leve accademiche.

Infine, il problema delle risorse. Un celebre riformatore liberale, Lord William Beveridge, scriveva all’inizio del secolo scorso che «la miseria genera odio». I liberisti degli ultimi quattro decenni sembrano invece ritenere che la miseria generi competizione e miglioramento. Così gli epigoni nostrani hanno applicato questa ricetta all’università, tagliando, ormai da quasi un ventennio, le risorse e le teste, dando un bel contributo, anziché al miglioramento, alla lotta di tutti contro tutti, eccellente brodo di coltura di pratiche oscure, con lo svilimento sia della ricerca sia della didattica, altro ineguagliabile fomento di irresponsabilità.

In tutto questo la classe accademica alla quale appartengo ha certamente pesanti responsabilità, la più grave delle quali tuttavia non credo siano concorsi o idoneità irregolari, bensì quella di non essere stata capace di reggere alla trasformazione da università di élite – quella in vigore fino alla metà degli anni Settanta, con numeri ristretti, sbocchi certi sul mercato del lavoro per gli studenti e selezione del personale guidata in buona misura dall’appartenenza di ceto – a università di massa, con tutti i problemi che non sto qui a elencare e che formano il contenuto di un’ormai ampia bibliografia.

Oggi siamo tutti esposti al pubblico discredito. L’università come istituzione pubblica, innanzitutto, e i molti corretti che vi operano. Tante precedenti clamorose iniziative giudiziarie sono finite in nulla: vedremo cosa sarà di quella in corso, iniziata in modo tanto clamoroso, con gravi misure interdittive e limitatrici della libertà. L’accertamento in un lontano domani delle responsabilità di pochi – se ci sarà – non sanerà comunque i guasti dell’odierno compiaciuto clamore.

Dario Braga (Università di Bologna) – Ripartire da trasparenza e mobilità

Articolo pubblicato venerdì 6 ottobre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Ripartire da trasparenza e mobilità

La deriva si arresta con CV pubblici e disincentivando le promozioni interne

Quando il Sole ha pubblicato a fine luglio l’articolo sulla perpetua discussione sulle carriere universitarie con il titolo “Quarant’anni persi” sono rimasto sorpreso. Un titolo un po’ forte, ho pensato, ma si sa, i titolisti devono catturare l’attenzione del lettore.

Ne è nato un thread e gli interventi che ne sono seguiti hanno disegnato un panorama in chiaroscuro della nostra accademia con diverse sottolineature sui temi delle risorse, del blocco degli scatti, del reclutamento, del dottorato, della valutazione e dell’Anvur, ecc. Andava tutto bene, si stava riflettendo in modo utile – e certamente non solo sul Sole 24 ore – sul presente e sul futuro dell’università, sulla necessità di aumentare in modo significativo l’investimento in ricerca e didattica, e sul ruolo dell’università in una società colta, scientificamente e tecnicamente in grado di confrontarsi con i Paesi evoluti.

Poi è arrivata l’ennesima “concorsopoli”, con tanto – e questa è stata certamente la novità più eclatante – di arresti domiciliari e sospensione dal servizio per un numero ampio di illustri colleghi. Abbiamo ricominciato a parlare di concorsi, di ricorsi e di terapie più o meno fantasiose per “curare” questo male cronico della accademia italiana. E tutti i ragionamenti hanno fatto un salto indietro, come nel gioco dell’oca. Altro tempo perso?

Proviamo a rispondere, ma prima, però, mettiamo in chiaro una cosa: l’università italiana funziona. A dirlo non siamo noi, ce lo dicono le valutazioni internazionali e ce lo dice la vasta rete di relazioni scientifiche che coinvolgono i nostri studiosi e ricercatori. E questo nonostante la scarsità di finanziamenti, l’obsolescenza di molte strutture e la irrazionale distribuzione delle risorse, le sacche di inefficienza, il numero stravagante di settori disciplinari, la burocrazia soffocante e in continua espansione, ecc…

Se normalizziamo i nostri risultati rispetto allo sforzo finanziario del Paese, alcune delle nostre università salgono tra le prime nel mondo. In termini di numero di pubblicazioni e di qualità delle pubblicazioni siamo addirittura superiori, nel confronto pro-capite, ai ricercatori di Paesi più avanzati del nostro. I nostri laureati sono ambìti all’estero e sono in grado di ottenere risultati enormi. Siamo un Paese “generoso”: investiamo molto nella loro formazione e non chiediamo nulla in cambio.

Dato questo doveroso riconoscimento al lavoro di docenti e ricercatori il problema dei concorsi universitari ci rimane incollato addosso. Ed è un problema che non risolveremo – nell’opinione di chi scrive e anche di molti altri commentatori – fino a quando all’università saremo costretti a “cooptare mediante concorso”. Costretti a praticare un ossimoro da una percezione errata del lavoro accademico.

Il professore universitario insegna e fa ricerca. È la ricerca il grande discrimine, la caratteristica peculiare, la grande differenza con i docenti delle scuole primarie e secondarie (ai quali non vogliamo togliere nulla, perché sono proprio loro a gettare le basi sulle quali noi costruiamo). Ed è proprio la ricerca che rende indispensabile la cooptazione: un ateneo, un dipartimento deve poter scegliere il tipo di competenza che serve perché i ricercatori non sono intercambiabili. È un concetto difficile da assimilare per chi non conosce le università del mondo o è legato a una visione burocratica della docenza.

Per questo è stato introdotto un passaggio a monte: la Abilitazione scientifica nazionale (Asn). Non un concorso (come purtroppo la maggior parte della stampa ha riportato commentando l’inchiesta di Firenze) ma una “patente” per accedere ai concorsi successivi banditi sulle necessità di ricerca e didattica dei dipartimenti.

L’Asn non è a numero chiuso, richiede che venga superata una soglia di qualità/quantità di produzione scientifica per potersi poi presentare ai concorsi. La mancata abilitazione preclude la possibilità di partecipare a qualsiasi competizione. È come la selezione per una gara sportiva internazionale, o per un concorso canoro. Solo se ti qualifichi potrai partecipare ai concorsi che verranno.

L’inchiesta di Firenze sembra spingere a rimettere tutto in discussione. La stampa e i social network sono pieni di commenti indignati, di polemiche e di proposte contraddittorie.

Non credo sia una buona idea rimettere tutto in discussione. Se lo facessimo bloccheremmo di nuovo il turnover universitario e aumenteremmo gli anni da buttare via. È tuttavia possibile agire da subito nell’ambito della normativa attuale su due “fondamentali” del reclutamento: mobilità e trasparenza.

Per incentivare la mobilità (e contrastare i rapporti di fedeltà accademica) è sufficiente eliminare l’oggettivo vantaggio economico per le casse degli atenei derivante dalla promozione di interni. Meglio ancora se si renderà vantaggioso chiamare ricercatori e professori da altre sedi con risorse ad hoc di mobilità e di installazione.

Per elevare il livello di trasparenza dei momenti concorsuali basta esporre i CV dei candidati – come le partecipazioni di matrimonio – in modo che tutti possano rendersi conto di quali competenze sono a confronto (e non si tiri fuori la privacy: sono concorsi per ruoli pubblici), chiedere referenze, e chiamare tutti i candidati a svolgere seminari pubblici dipartimentali. Chi partecipa potrà porre domande e valutare le risposte che riceve. Le commissioni decideranno in piena autonomia ma con maggiore accountability.

Non sono idee originali: si fa così in molti dei Paesi con i quali ci confrontiamo.

Due “accorgimenti” semplici ma… elettoralmente impopolari. Eppure, da soli potrebbero contribuire ad arrestare una deriva che sta allontanando l’università italiana da quelle dei Paesi più avanzati.

Carlo Rovelli – Perché difendo l’Università: ha solo bisogno di risorse e fiducia

Articolo pubblicato venerdì 29 settembre 2017 da Il Corriere della Sera.

Perché difendo l’Università: ha solo bisogno di risorse e fiducia

Troppe regole e vincoli, con questo sistema si bloccano assunzioni meritatissime e si spingono i giovani a pubblicare tanto e male. Io non sono stato felice quando gli atenei italiani hanno scelto di fare a meno di me, ma generare anche scontentezza è inevitabile

Recenti denunce di episodi di corruzione hanno gettato un’ombra sull’Università italiana. È un’ombra che alimenta un sentimento di sfiducia verso l’Università diffuso in alcuni settori del nostro paese, e risuona con lamentele sentite molte volte: fuga dei cervelli, parzialità nel reclutamento, numero eccessivo di università o corsi di laurea.

Forse l’Università italiana è malata? Ha bisogno di tutela, cura o ridimensionamento? Mi sembra che ci siano alcuni equivoci riguardo all’Università, e una percezione incorretta della situazione reale. L’Università italiana è, e resta, una delle migliori del mondo, custodisce competenze uniche, che non esistono altrove, continua ad educare una delle popolazioni più colte, intellettualmente brillanti e vivaci del pianeta. Non è priva di difetti, ma è fra le migliori del mondo. Certo, non abbiamo Cambridge o Harvard, ma non abbiamo neanche il brutale elitarismo sociale che le nutre, per fortuna. Non abbiamo le «grandes écoles» francesi, ma molte delle altre università francesi sembrano terzo mondo rispetto alle nostre. Qualcuno si lamenta che abbiamo troppi laureati? Fra i Paesi avanzati siamo il Paese che ne ha percentualmente meno. Qualcuno si lamenta che abbiamo troppe università? L’Inghilterra ne ha molte più di noi.

La riduzione delle risorse

Vivo da molti anni in università estere, e da questa prospettiva i problemi dell’Università italiana mi sembrano altri. Il primo è che il periodo di difficoltà economica che il Paese ha attraversato ha portato diversi governi a decidere per un ridimensionamento drastico delle risorse che il Paese investe nell’educazione. Gli investimenti a lungo termine sono i primi che nei momenti difficili vengono tagliati, io direi incautamente. La prima malattia di cui soffre l’università italiana è la riduzione delle risorse. Non ha bisogno di ridimensionamento: ha bisogno di risorse.

La sfiducia nella cultura

Il secondo problema di cui soffre l’Università è la perdita di fiducia. In primo luogo da parte della politica. Invece di vedere nella cultura e nell’intelligenza di cui l’Università è depositaria una risorsa cruciale a cui fare appello, come succede nei Paesi che funzionano meglio, una parte della classe polita ha cominciato a sentirla come fastidiosa sorgente di critica. La sfiducia nella cultura è il primo risultato di ogni scivolamento verso il populismo. L’università italiana non ha bisogno di tutela, ha bisogno di fiducia.

Reclutamento e ricambio

La grande idea che fonda l’Università risale al Medioevo: una singola istituzione che custodisce la cultura, continua a farla crescere, e la trasmette alle nuove generazioni facendone la base dell’educazione di una parte il più possibile ampia della popolazione. Come tutte le istituzioni, l’Università è fatta da persone ed è la qualità di queste che conta. La chiave della sua efficacia è la spinosa questione del reclutamento e del ricambio. Ovunque nel mondo, fiorisce quando riesce a reclutare i giovani migliori, stranieri e nazionali, e sa fare scelte oculate e lungimiranti sulle direzioni verso cui rinnovarsi. L’attuale situazione di strozzamento rende questo difficilissimo e genera comportamenti difensivi e talvolta miopi. Ma il punto essenziale è che i tentativi di rimedio, a mio giudizio, stanno andando nella direzione sbagliata: aggiungere regole, moltiplicare automatismi e vincoli, togliendo responsabilità e fiducia a chi decide, come se l’eccellenza fosse qualcosa che si potesse riconoscere con algoritmi.

Norme devastanti

Una norma recentemente introdotta dal ministero richiede un numero minimo di pubblicazioni e citazioni per essere assunti in posizioni universitarie, senza possibilità di deroga. L’effetto è devastante: un collega italiano che guida uno degli esperimenti internazionali più importanti del mondo mi scrive recentemente disperato perché, in un campo come il suo dove il numero di pubblicazioni e citazioni è strutturalmente basso, la norma gli impedisce di fatto il reclutamento dei giovani più brillanti che lavorano sull’esperimento. L’intenzione della norma era quella di evitare assunzioni immeritate, il risultato è bloccare assunzioni meritatissime, e spingere i giovani a pubblicare tanto e male, anziché poco e bene. La norma è state recentemente criticata in una lettera indirizzata al ministro firmata da numerosi premi Nobel da tutto il mondo. Non sorprende, in fondo a ben guardare si tratta di una norma che impedirebbe di fatto all’università italiana di assumere diversi vincitori del Nobel.

La libertà dei singoli

La soluzione a mio giudizio va nella direzione opposta: non moltiplicare automatismi e paletti, ma dare fiducia alla capacità dei singoli di scegliere; valutare poi successi e insuccessi a posteriori, premiando i successi. Questo avviene nei sistemi universitari migliori del mondo e questo è il modo in cui l’Università ha dato il meglio di sé nel passato anche in Italia. La grande scuola di Fisica di Roma, per esempio, uno dei vanti dell’università italiana, è esistita perché Edoardo Amaldi ha saputo riconoscere straordinari giovani talenti attorno a sé, e guidare con lungimiranza la politica scientifica della fisica italiana. Aveva risorse, fiducia, e la possibilità di assumere responsabilità in prima persona. Così si è fatta una grande università, piena di intelligenza e di profondità culturale a cui tutto il Paese attinge.

La possibilità di scegliere

Le scelte di politica scientifica non sono facili, ci si sbaglia nelle valutazioni e il futuro è difficile da prevedere. Ma qualcuno deve poterle farle, disponendo di risorse e di possibilità di scelta. Scegliere implica anche scontentare. Io non sono stato contento quando l’Università italiana ha scelto ripetutamente di fare a meno di me; ma generare anche scontentezza è inevitabile. Io sono impegnato in una direzione di ricerca che comporta alto rischio, e comprendo la ripetuta esitazione ad investire in questa direzione. Se quella scelta sia stata una buona o cattiva non sta a me giudicare, ma da parte mia non ho certo perso stima e rispetto, sia scientifico che umano, per gli scienziati italiani che ne sono stati coinvolti. Conosco le difficoltà nel gestire la complessità della politica scientifica e mi sono trovato poi nella vita a dover io decidere carriere degli altri: so quanto sia difficile. L’ultima cosa che vorrei è che esperienze come la mia fossero prese ad argomento per alimentare la sfiducia verso l’università italiana. L’università italiana non ha bisogna né di sfiducia, né di tutela, né di ridimensionamento, per superare le attuali difficoltà. Ha bisogno di risorse e di fiducia.

 

 

Tomaso Montanari – E ora facoltà e ministero si costituiscano parte civile

Articolo pubblicato mercoledì 27 settembre 2017 da la Repubblica.

E ora facoltà e ministero si costituiscano parte civile

Ora che queste provvidenziali intercettazioni ci hanno messo di fronte a un terrificante specchio, l’università italiana non può distogliere lo sguardo. Noi professori non possiamo minimizzare, o rimuovere. Perché non c’è dubbio che gli onesti siano più dei corrotti: ma questa maggioranza non si comporta come l’esemplare Philip Laroma Jezzi. Per pigrizia, quieto vivere, convenienza o paura essa tace, non denuncia, subisce: in un silenzio che è un colpevole assenso.

Questa storia, questa pazzesca umiliazione collettiva deve segnare il riscatto. Ogni singola università e il Miur devono costituirsi parte civile nei processi che probabilmente si celebreranno: per far capire senza equivoci che le vittime non sono solo i meritevoli umiliati ed esclusi, ma tutta la comunità universitaria. Nella sua immagine, certo: ma prima, e assai più profondamente, nel suo stesso fondamento, che è l’onestà intellettuale, primo presupposto della ricerca e della formazione dei più giovani.

Parlando alla Costituente il 22 aprile 1947, il fisico Antonio Pignedoli sostenne la necessità di includere (come avvenne) la promozione della ricerca tra i compiti della Repubblica per fermare «il doloroso andarsene degli scienziati italiani», che «se ne vanno dall’Italia per ragioni di trattamento, per ragioni proprio inerenti alla possibilità di vivere: dovrà finire dunque questo esodo!». Per farlo finalmente finire ci vogliono le risorse, e questo dipende dalla politica. Ma non è meno importante la giustizia: che dipende solo da noi.