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FLC CGIL – Ministro Bussetti, giù le mani dalla scuola nazionale e costituzionale. E si ricordi dell’intesa che ha sottoscritto con noi il 24 aprile 2019

Comunicato stampa di Francesco Sinopoli, Segretario generale della Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL, pubblicato lunedì 8 luglio 2019.

Ministro Bussetti, giù le mani dalla scuola nazionale e costituzionale. E si ricordi dell’intesa che ha sottoscritto con noi il 24 aprile 2019

Il Ministro Bussetti mostra due volti: uno quando parla con i giornali nazionali e con i Sindacati e un altro quando parla dai giornali locali.

Da quel che egli sostiene sul Corriere del Veneto del 7 luglio 2019 sembra emergere una totale dimenticanza di quanto ha sottoscritto con i maggiori sindacati della Scuola e dell’Istruzione il 24 aprile 2019.
Glielo ricordiamo noi, allora, quanto ha sottoscritto nell’Intesa:

“Il Governo si impegna a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo status giuridico di tutto il personale regolato dal CCNL, e la tutela dell’unitarietà degli ordinamenti statali, dei curricoli e del sistema di governo delle istituzioni scolastiche autonome”.

Ora, il Ministro dice che il suo modello si ispira a quello della Val d’Aosta e del Trentino, dove – ricorda in altro articolo lo stesso Corriere del Veneto – risorse, orario, piano di studio, contratti di lavoro, mobilità, aggiornamento del personale docente e ATA, reclutamento dei dirigenti scolastici, non sono più nazionali.

Dicendo ciò si confessa candidamente che il sistema scolastico e di istruzione non esisterà più perché diventa regionale a statuto speciale.
Non è questo che si legge in Costituzione.

I patti vanno rispettati e noi ci attendiamo che il Ministro recuperi l’unitarietà di memoria e di pensiero rileggendo quanto egli stesso ha sottoscritto insieme al Presidente del Consiglio il 24 aprile 2019.

La FLC CGIL non starà a guardare inerte allo scempio che si vuole fare della Carta Costituzionale e del sistema scolastico e dell’istruzione del Paese e si prepara fin d’ora alla mobilitazione del personale nelle forme democratiche necessarie, nessuna esclusa, fino a che questo sciagurato disegno non venga deposto definitivamente nel cassetto.

Manfredi: «Lo Stato investa perché il lavoro sia di qualità»

Articolo di Marco Esposito pubblicato martedì 5 dicembre 2017 da Il Mattino Napoli.

Manfredi: «Lo Stato investa perché il lavoro sia di qualità»

Il rettore della Federico II: «Gli investimenti vanno orientati verso Mezzogiorno»

Il Censis nel suo ultimo rapporto descrive «un Paese invecchiato incapace di vedere nel Mezzogiorno una riserva di ricchezza preziosa per tutti». I ventenni del Sud sono fantasmi per questa Italia?

«E’ un tema nazionale – risponde Gaetano Manfredi, rettore della Federico II e presidente della Conferenza dei rettori – non si riesce a comprendere che nell’economia della conoscenza quel che conta di più è il capitale umano. La formazione e la valorizzazione dei giovani è decisiva ovunque, nel Mezzogiorno più di altrove perché se non si colma il divario di opportunità i giovani vedranno l’emigrazione come un destino obbligato dopo gli studi».

Anche prima di finire gli studi: molti ragazzi meridionali si iscrivono direttamente in atenei del Nord.

«Il fenomeno è molto forte in alcune regioni del Sud, meno in Campania. Vorrei esser chiaro: la mobilità è un valore. Chiediamoci quindi perché non vengono a studiare e a lavorare da noi. Il nostro impegno è per offrire ai ragazzi un’università di qualità, aperta, internazionalizzata, dove il merito sia la regola. Non sempre le politiche universitarie sono andate in questa direzione».

Parla di merito, ma intanto le cronache giudiziarie raccontano di professori che si assicurano le cattedre con metodi non edificanti.

«La malattia non è la norma. Tuttavia su questo tema il nostro rigore deve essere assoluto perché se il merito non è al centro di tutte le nostre scelte, le persone migliori semplicemente vanno via».

Quanto incidono le classifiche di qualità degli atenei nelle scelte degli studenti?

«Sono strumenti di marketing territoriale: fotografano più la qualità del contesto che l’offerta formativa degli atenei. Ma esistono e ci obbligano a migliorarci, lavorando insieme agli enti locali perché il contesto cambi».

Il calo demografico rende i giovani un «bene raro». C’è in corso una politica per trasferire tale risorsa al Nord?

«Il problema non è chi si trasferisce al Nord, il punto è diventare attrattivi noi. Abbiamo grandi bacini ai quali riferirci, dal Medio Oriente all’Africa. I corsi in inglese vanno in questa direzione. Ma il vero attrattore è dato dalla possibilità di trovare dopo la laurea un lavoro di qualità».

Facile a dirsi…

«In Campania abbiamo 2.000 ingegneri e 1.500 laureati in economia all’anno. Rappresentano un potenziale di sviluppo enorme. Se lasciamo che l’imprenditore faccia la sua scelta, continuerà a investire a Milano più che a Napoli, confidando nel fatto che i laureati si trasferiranno. Tocca allo Stato, alla politica, ribaltare questa situazione e creare le condizioni perché le imprese preferiscano investire a Napoli per attività di qualità: ricerca, innovazione. Gli investimenti vanno orientati verso Mezzogiorno. E tocca agli enti locali migliorare la qualità della vita, penso in primo luogo ai trasporti pubblici».

Gli iscritti all’università sono una minoranza dei ventenni del Sud. Come si inverte una situazione che ci vede in coda in Europa?

«In due modi. Da un lato le famiglie vanno informate perché comprendano che la laurea è decisiva per il futuro dei loro figli. Può sembrare una verità scontata, ma non lo è affatto. Poi deve diversificarsi l’offerta formativa in modo da dare una concreta opportunità di iscrizione per i ragazzi che escono dagli istituti tecnici e professionali, pochissimi dei quali oggi si iscrivono all’università».

A che soluzioni pensa?

«Alla Federico II stiamo mettendo a punto con l’Unione industriali un corso triennale di Ingegneria meccatronica, con meno teoria e una formazione più pratica, in linea con gli obiettivi di Industria 4.0. Partiremo il prossimo settembre».

Gian Guido Balandi (Università di Ferrara) – In difesa della cooptazione (e degli onesti)

Articolo pubblicato mercoledì 11 ottobre 2017 sul sito della rivista Il Mulino.

In difesa della cooptazione (e degli onesti)

La recente vicenda dei concorsi di diritto tributario ha riportato all’attenzione delle cronache il tema della selezione del personale universitario. Consultando – per altra ragione – la raccolta di scritti di Luigi Einaudi Lo scrittoio del Presidente (Einaudi, 1956), mi sono imbattuto in una nota del 28 gennaio 1952, nella quale l’autore esprimeva approvazione per il progetto di individuare tramite sorteggio almeno una parte dei commissari dei concorsi a cattedra: «L’esigenza più sentita, in questa materia, è quella di ridurre al minimo l’influenza dei gruppi organizzati, di professori e di candidati [e] giova ridurre al minimo il peso degli accordi per candidature» (p. 608).

«Ridurre al minimo» consente di entrare subito in medias resIl meccanismo della cooptazione, unico sistema di selezione degli studiosi da parte di altri studiosi, praticato in tutto il mondo, porta con sé inevitabilmente un certo livello di confronto, e dunque potenzialmente anche di accordo, all’interno della comunità scientifica che deve operare la cooptazione. Questo meccanismo può patire delle irregolarità – che, ovviamente, è opportuno cercare di «ridurre al minimo» – al limite anche penalmente rilevanti, come quando si tenti di esercitare violenza su un candidato perché non partecipi. Ma non può essere sostituito da un meccanismo che si pretenda privo di valutazioni soggettive.

Si pensi al sistema delle lettere di presentazione, molto utilizzato a livello internazionale, grazie alle quali uno studioso affermato «presenta» un candidato: mi sembra evidente la legittima pressione, almeno psicologica, esercitata da una presentazione «pesante» rispetto a una più «leggera». Tuttavia, nell’approccio pubblico e mediatico al sistema della cooptazione, questo appare quasi sempre disinformato ed è fondato il sospetto che lo sia ad arte, tanto grossolano è in alcuni casi. Si pensi all’affermazione scandalizzata «si sapeva prima chi avrebbe vinto», con tanto di candidato bocciato che deposita dal notaio i nomi dei futuri vincitori. Posto che i concorsi universitari non si basano su una gara nella quale tutti partono eguali perché poi «vinca il migliore», il che si vedrà nel corso della prova stessa, ma sul valore scientifico di materiali pubblicati negli anni precedenti, lo scandalo sarebbe – e in alcuni casi certamente è anche stato – che vincesse chi «non si sapeva» che avrebbe vinto, perché privo dei requisiti necessari.

Ma se le difficoltà della cooptazione e dei necessari giudizi soggettivi sull’opera dei candidati – che le aree disciplinari delle scienze della natura e della tecnica cercano di sostituire con opinabili meccanismi quantitativi – sono un problema «di sempre», come già mostrava Einaudi 65 anni orsono, oggi risultano aggravate da alcune normative che governano l’università italiana.

Penso alla valutazione e al suo utilizzo. In modo assai imperfetto e con un impiego poco trasparente e limitato, la valutazione dell’attività degli universitari è iniziata e comincia a svolgere i suoi effetti, seppure per ora in modi (anche) assai criticabili. Si tratta, tuttavia, di un principio irrinunciabile. I processi di valutazione dovranno proseguire, seppur migliorati nei numerosi punti tuttora difettosi. Gli obiettivi della valutazione sono molteplici e uno emerge, per quanto interessa il reclutamento: assumere mediocri o addirittura somari deve divenire seriamente penalizzante per la struttura che li accoglie.

A questo fine è essenziale che il costo dell’assunzione del meno bravo «interno» debba essere uguale a quello del bravo «esterno», mentre oggi è assai inferiore. Questa perversa conseguenza della autonomia finanziaria delle sedi ha favorito una endogamia accademica del tutto preoccupante: ormai i cinquantenni hanno fatto, in gran numero, tutta la carriera – laurea, dottorato, assegno di ricerca, ricercatore, associato, ordinario – nella stessa sede. E di conseguenza si è rarefatta, fino quasi a scomparire, la mobilità. La convenienza ad assumere in ogni caso gli interni – indipendentemente dal loro valore – che garantiscano comunque i numeri per la didattica, favorisce e sollecita evidentemente anche i «traffici» per la loro abilitazione.

Altra questione antica – e sulla quale di tanto in tanto viene focalizzata l’attenzione mediatica, seppure sempre in un quadro di forte spregio per l’università tutta, identificata in «baronie» per vero ampiamente minoritarie – è quella del rapporto con le attività professionali. Si dice che i danari delle ricche, ricchissime libere professioni collegate ad alcuni settori scientifico-disciplinari siano il motore di molto mercimonio accademico concorsuale, anche se a volte vi restano impigliati, con la conseguente volgare esposizione mediatica, stimatissimi tempopienisti. Se questa è una delle componenti del problema delle irregolarità nei reclutamenti, si trovi il coraggio di tagliare il nodo ambiguo, e in alcuni casi perverso, tra professione e ricerca/insegnamento. Se in qualche area disciplinare si giudica significativo e importante l’apporto didattico dello stimato professionista, gli si attribuiscano incarichi temporanei di insegnamento ma lo si tenga lontano dalla cooptazione delle nuove leve accademiche.

Infine, il problema delle risorse. Un celebre riformatore liberale, Lord William Beveridge, scriveva all’inizio del secolo scorso che «la miseria genera odio». I liberisti degli ultimi quattro decenni sembrano invece ritenere che la miseria generi competizione e miglioramento. Così gli epigoni nostrani hanno applicato questa ricetta all’università, tagliando, ormai da quasi un ventennio, le risorse e le teste, dando un bel contributo, anziché al miglioramento, alla lotta di tutti contro tutti, eccellente brodo di coltura di pratiche oscure, con lo svilimento sia della ricerca sia della didattica, altro ineguagliabile fomento di irresponsabilità.

In tutto questo la classe accademica alla quale appartengo ha certamente pesanti responsabilità, la più grave delle quali tuttavia non credo siano concorsi o idoneità irregolari, bensì quella di non essere stata capace di reggere alla trasformazione da università di élite – quella in vigore fino alla metà degli anni Settanta, con numeri ristretti, sbocchi certi sul mercato del lavoro per gli studenti e selezione del personale guidata in buona misura dall’appartenenza di ceto – a università di massa, con tutti i problemi che non sto qui a elencare e che formano il contenuto di un’ormai ampia bibliografia.

Oggi siamo tutti esposti al pubblico discredito. L’università come istituzione pubblica, innanzitutto, e i molti corretti che vi operano. Tante precedenti clamorose iniziative giudiziarie sono finite in nulla: vedremo cosa sarà di quella in corso, iniziata in modo tanto clamoroso, con gravi misure interdittive e limitatrici della libertà. L’accertamento in un lontano domani delle responsabilità di pochi – se ci sarà – non sanerà comunque i guasti dell’odierno compiaciuto clamore.

Dario Braga (Università di Bologna) – Ripartire da trasparenza e mobilità

Articolo pubblicato venerdì 6 ottobre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Ripartire da trasparenza e mobilità

La deriva si arresta con CV pubblici e disincentivando le promozioni interne

Quando il Sole ha pubblicato a fine luglio l’articolo sulla perpetua discussione sulle carriere universitarie con il titolo “Quarant’anni persi” sono rimasto sorpreso. Un titolo un po’ forte, ho pensato, ma si sa, i titolisti devono catturare l’attenzione del lettore.

Ne è nato un thread e gli interventi che ne sono seguiti hanno disegnato un panorama in chiaroscuro della nostra accademia con diverse sottolineature sui temi delle risorse, del blocco degli scatti, del reclutamento, del dottorato, della valutazione e dell’Anvur, ecc. Andava tutto bene, si stava riflettendo in modo utile – e certamente non solo sul Sole 24 ore – sul presente e sul futuro dell’università, sulla necessità di aumentare in modo significativo l’investimento in ricerca e didattica, e sul ruolo dell’università in una società colta, scientificamente e tecnicamente in grado di confrontarsi con i Paesi evoluti.

Poi è arrivata l’ennesima “concorsopoli”, con tanto – e questa è stata certamente la novità più eclatante – di arresti domiciliari e sospensione dal servizio per un numero ampio di illustri colleghi. Abbiamo ricominciato a parlare di concorsi, di ricorsi e di terapie più o meno fantasiose per “curare” questo male cronico della accademia italiana. E tutti i ragionamenti hanno fatto un salto indietro, come nel gioco dell’oca. Altro tempo perso?

Proviamo a rispondere, ma prima, però, mettiamo in chiaro una cosa: l’università italiana funziona. A dirlo non siamo noi, ce lo dicono le valutazioni internazionali e ce lo dice la vasta rete di relazioni scientifiche che coinvolgono i nostri studiosi e ricercatori. E questo nonostante la scarsità di finanziamenti, l’obsolescenza di molte strutture e la irrazionale distribuzione delle risorse, le sacche di inefficienza, il numero stravagante di settori disciplinari, la burocrazia soffocante e in continua espansione, ecc…

Se normalizziamo i nostri risultati rispetto allo sforzo finanziario del Paese, alcune delle nostre università salgono tra le prime nel mondo. In termini di numero di pubblicazioni e di qualità delle pubblicazioni siamo addirittura superiori, nel confronto pro-capite, ai ricercatori di Paesi più avanzati del nostro. I nostri laureati sono ambìti all’estero e sono in grado di ottenere risultati enormi. Siamo un Paese “generoso”: investiamo molto nella loro formazione e non chiediamo nulla in cambio.

Dato questo doveroso riconoscimento al lavoro di docenti e ricercatori il problema dei concorsi universitari ci rimane incollato addosso. Ed è un problema che non risolveremo – nell’opinione di chi scrive e anche di molti altri commentatori – fino a quando all’università saremo costretti a “cooptare mediante concorso”. Costretti a praticare un ossimoro da una percezione errata del lavoro accademico.

Il professore universitario insegna e fa ricerca. È la ricerca il grande discrimine, la caratteristica peculiare, la grande differenza con i docenti delle scuole primarie e secondarie (ai quali non vogliamo togliere nulla, perché sono proprio loro a gettare le basi sulle quali noi costruiamo). Ed è proprio la ricerca che rende indispensabile la cooptazione: un ateneo, un dipartimento deve poter scegliere il tipo di competenza che serve perché i ricercatori non sono intercambiabili. È un concetto difficile da assimilare per chi non conosce le università del mondo o è legato a una visione burocratica della docenza.

Per questo è stato introdotto un passaggio a monte: la Abilitazione scientifica nazionale (Asn). Non un concorso (come purtroppo la maggior parte della stampa ha riportato commentando l’inchiesta di Firenze) ma una “patente” per accedere ai concorsi successivi banditi sulle necessità di ricerca e didattica dei dipartimenti.

L’Asn non è a numero chiuso, richiede che venga superata una soglia di qualità/quantità di produzione scientifica per potersi poi presentare ai concorsi. La mancata abilitazione preclude la possibilità di partecipare a qualsiasi competizione. È come la selezione per una gara sportiva internazionale, o per un concorso canoro. Solo se ti qualifichi potrai partecipare ai concorsi che verranno.

L’inchiesta di Firenze sembra spingere a rimettere tutto in discussione. La stampa e i social network sono pieni di commenti indignati, di polemiche e di proposte contraddittorie.

Non credo sia una buona idea rimettere tutto in discussione. Se lo facessimo bloccheremmo di nuovo il turnover universitario e aumenteremmo gli anni da buttare via. È tuttavia possibile agire da subito nell’ambito della normativa attuale su due “fondamentali” del reclutamento: mobilità e trasparenza.

Per incentivare la mobilità (e contrastare i rapporti di fedeltà accademica) è sufficiente eliminare l’oggettivo vantaggio economico per le casse degli atenei derivante dalla promozione di interni. Meglio ancora se si renderà vantaggioso chiamare ricercatori e professori da altre sedi con risorse ad hoc di mobilità e di installazione.

Per elevare il livello di trasparenza dei momenti concorsuali basta esporre i CV dei candidati – come le partecipazioni di matrimonio – in modo che tutti possano rendersi conto di quali competenze sono a confronto (e non si tiri fuori la privacy: sono concorsi per ruoli pubblici), chiedere referenze, e chiamare tutti i candidati a svolgere seminari pubblici dipartimentali. Chi partecipa potrà porre domande e valutare le risposte che riceve. Le commissioni decideranno in piena autonomia ma con maggiore accountability.

Non sono idee originali: si fa così in molti dei Paesi con i quali ci confrontiamo.

Due “accorgimenti” semplici ma… elettoralmente impopolari. Eppure, da soli potrebbero contribuire ad arrestare una deriva che sta allontanando l’università italiana da quelle dei Paesi più avanzati.