Articolo di Daniele Capezzone pubblicato lunedì 8 luglio 2019 da la Verità.
Scuola? Mi do 10. E ora dico basta alla propaganda
«E ora cambiamo i libri di testo. Meno cari e meno propaganda». Il ministro dell’Istruzione: «La Buona scuola di Renzi? Smontata, è soltanto un ricordo. Perciò merito 10 in pagella. Il nuovo obiettivo? Con gli editori rivoluzionerò i manuali»
Marco Bussetti, insegnante e dirigente scolastico, leghista, è ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca.
Ministro, com’è andato l’anno scolastico?
«Penso sia stato un buon anno, il bilancio è positivo. Abbiamo affrontato molte questioni che avevamo ereditato. Occorreva uscire da diversi danni e criticità provocati dalla cosiddetta Buona scuola, in particolare rispetto a mobilità, arruolamento e avvio dell’anno scolastico».
Quindi il lascito dell’era renziana è stato carico di guasti.
«Abbiamo lavorato sul rinnovo dell’esame di Stato, tolto la chiamata diretta sulla mobilità, dato voce a precari che attendevano una stabilizzazione da anni, avviato procedure concorsuali… E sono pronti i bandi per reclutare ancora».
Ha annunciato l’arrivo di altri 58.000 docenti, di cui oltre 14.000 di sostegno.
«Confermo. Abbiamo avuto l’autorizzazione dal ministero dell’Economia a immettere in ruolo questo numero. In ogni caso, proprio per stabilizzare il maggior numero di docenti, abbiamo riaggiornato le graduatorie anche riaprendo quelle chiuse».
L’obiettivo è che siano in cattedra a settembre.
«Sì, anche se il mancato allineamento tra l’anno scolastico – che parte a settembre – e la legge di bilancio – che va da gennaio a dicembre – non sempre aiuta. Ma non sono promesse: siamo davanti a un’operazione vera e concreta. Stabilizzare significa permettere alle persone di realizzare finalmente un progetto di vita».
Non teme che la scuola italiana spenda poco per ogni singolo docente, ma complessivamente troppo in stipendi e troppo poco in strutture e mezzi?
«È evidente: il 90% delle risorse a bilancio è destinato alla retribuzione del personale scolastico. Rendere più efficiente il sistema è certamente un nostro obiettivo. Anche in questo modo possiamo creare le condizioni per aumentare gli stipendi degli insegnanti, che sono fermi da anni».
Come va la messa in sicurezza degli edifìci scolastici?
«Abbiamo trovato una situazione molto critica: scuole che non avevano la certificazione della protezione antincendio, o di messa a norma degli impianti… Abbiamo per prima cosa recuperato risorse ingentissime: 7 miliardi di euro più altri 2. E ora sono somme a disposizione delle Regioni, affinché sostengano i Comuni o le Province che sono proprietari degli edifici».
Fondi per l’università. Che programmi ha?
«Abbiamo aumentato i fondi. E ci siamo concentrati sul tema della carenza di medici, aumentando i posti, e allineando le borse di specializzazione con il numero dei laureati in medicina. In accordo con la conferenza dei rettori, stiamo anche affrontando un problema di spazi: se aumenta il numero degli iscritti a queste facoltà, occorrono ambienti adeguati».
Telefonini a scuola. Lei come la pensa? Proibire del tutto è forse materialmente impossibile, e magari perfino controproducente. Ma qualcosa andrà fatto per arginare una deriva ingestibile.
«Ogni istituto, nella sua autonomia, adotta un regolamento condiviso con le famiglie. E quasi sempre in questi regolamenti è previsto che non sia consentito l’uso del telefonino in classe. La mia posizione generale è non proibire a priori: ma il telefonino deve stare spento e nello zaino».
È immaginabile – anche con le opportune sponsorizzazioni e partnership private – una sempre maggiore informatizzazione del singolo banco scolastico?
«Abbiamo investito in laboratori tecnologici e nuove tecnologie didattiche. Sul resto, a mio parere, non bisogna correre troppo: è la tecnologia che deve essere al servizio della didattica».
Domanda «antropologica». La soglia di attenzione dei ragazzi è sempre più bassa e breve, e al contrario i modelli a cui si ispirano (dal calcio alla musica) sono potentissimi. Come fa un povero docente di liceo a competere, a conquistarsi l’attenzione e la stima dei ragazzi? Non c’è il rischio di una distanza sempre maggiore?
«I nostri docenti conoscono bene i principi pedagogici che sostengono l’azione formativa. Certo, l’analisi dei contesti territoriali è importante, come pure ricordare che non esistono solo i bisogni primari, ma anche quelli secondari di ogni persona… Insomma, i ragazzi vanno capiti uno per uno».
In tutti i settori della vita (dallo sport alla medicina) si procede verso percorsi individuali: allenamento personalizzato, cura personalizzata. Non le pare che invece nelle nostre scuole sia ancora troppo forte il grado di insegnamento generalizzato? Non sarebbe preferibile più flessibilità? Magari quel ragazzo è più bravo nelle materie letterarie e meno in matematica…
«Però non dimentichiamo che l’insegnamento non è solo un rapporto tra docente e discente, ma una relazione che si attua in un contesto educativo collegiale. Si parte dunque da una progettazione d’istituto, con una collegialità forte tra insegnanti e dirigenti scolastici, che insieme progettano l’attività. E questo già consente di personalizzare l’approccio. Voglio sottolineare che l’attenzione al singolo può essere potenziata anche da un buon rapporto con la famiglia: gli insegnanti vedono il ragazzo per 6 ore e occorre capire bene che cosa accade nelle altre 18. Collaborazione e scambio di informazioni sono fondamentali».
Ministro, a questo giornale sono giunte diverse segnalazioni di docenti universitari che, utilizzando la mail con l’account ufficiale della loro università pubblica, hanno promosso collette per la «capitana» della Sea Watch, con giudizi politici molto violenti verso il governo. È normale?
«I docenti, nel loro contratto di lavoro, hanno un codice comportamentale e disciplinare che sono tenuti a rispettare. Mi sembra di essere stato chiaro».
Una questione su cui il nostro giornale si è battuto con una campagna: i libri di testo. Dai manuali di letteratura a quelli di storia, passando per quelli di geografìa, è diffusissimo il fenomeno di testi propagandistici, politicamente orientati.
«È un tema che non è gestito direttamente dal governo, ma è rimesso all’autonomia scolastica. Noi però come governo stiamo parlando intensamente con editori e associazioni di librai con due obiettivi. Primo: far spendere meno alle famiglie. Secondo: la propaganda politica deve stare fuori dai libri di testo».
Ferma restando la libertà di insegnamento di ciascun insegnante, e il doveroso rispetto di autori e editori, se ne potrà discutere? Sono testi indirizzati a chi deve essere formato e informato, non indottrinato…
«Condivido. Io confido nel senso di responsabilità degli insegnanti: la cosa importante è aiutare i ragazzi a ragionare con la propria testa».
Non pensa che ci sia un problema – diciamolo socraticamente – «maieutico»? Cioè alcuni docenti, anziché – come dovrebbero – «tirar fuori» qualcosa dallo studente, sembrano impegnati a «mettergli dentro» le loro idee e opinioni?
«Ovviamente le eccezioni negative hanno risalto mediatico. Ma confido che siano eccezioni».
Non voglio farla litigare con il corpo docente delle superiori. Ma vogliamo parlare di quelle che chiamerei le «professoresse democratiche»? Repubblica come il Vangelo, e propaganda politica troppo frequente.
«Voglio essere ottimista, lo ripeto. E voglio anche aggiungere che oggi, per fortuna, i ragazzi hanno molti più strumenti di una volta per verificare ciò che viene detto loro. E quindi sono meno soggetti a condizionamento».
Come sono i ragazzi che incontra? Uno stereotipo li descrive maturi e palestrati fisicamente, ma fragili emotivamente, davanti alle prime difficoltà. Ci dia una visione paterna, non solo da ministro.
«Vedo ragazzi che hanno una marcia in più rispetto alle generazioni precedenti. Ma l’adolescenza resta sempre un periodo delicato: li vedo attenti, non superficiali, desiderosi di essere trattati da adulti. Certo, ci sono le crisi, i momenti difficili: ma anche quelli possono essere utili a crescere e rafforzarsi».
La scuola boccia e punisce troppo poco? L’asticella dovrebbe essere alzata?
«Da tanti anni, manca un certo rispetto verso la scuola. Mettiamola così: credo si debba costruire e lavorare per ridare alle istituzioni scolastiche e al loro personale rispetto e la giusta considerazione».
Ci rassicuri. È determinato a una battaglia anti mediocrità?
«La mia visione è che il voto sia la misura di un compito e di un’interrogazione, mai del valore di una persona. I nostri ragazzi sono molto altro: hanno emozioni, rapporti, sentimenti, anche una dimensione affettiva, tutte cose che vanno coltivate, seguite, comprese. Se giudico un ragazzo solo da un voto, rischio di sbagliare».
Che si può fare per «allenare» di più i ragazzi più bravi? Nello sport, se c’è un ragazzo dotato, troviamo normale che ci siano allenamenti extra. Perché, quando invece si tratta di doti intellettuali, abbiamo timore di spingere troppo e di essere considerati troppo esigenti?
«Può esserci il timore che la loro energia cessi. Anche nello sport, serve un periodo di recupero. E poi non vorrei confondere l’educazione con l’addestramento: quest’ultimo presuppone una risposta a stimoli precisi. Mentre l’educazione è basata sul sapersi adeguare e adattare: una delle definizioni che si può dare all’intelligenza è sapersi adattare ai cambiamenti e agli ambienti. L’intelligenza esprime proprio questo adattamento. Ecco, se per allenamento intendeva questo, sono d’accordo».