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Difendiamo la scuola del Sud

Articolo di Armida Filippelli pubblicato mercoledì 24 luglio 2019 da la Repubblica ed. Napoli.

Difendiamo la scuola del Sud

Si è molto parlato dei risultati delle prove Invalsi: il 35 per cento degli studenti di terza media legge un testo di italiano senza capirlo, il Meridione è in grande sofferenza e tutti dobbiamo allarmarci e contribuire a trovare soluzioni. È soprattutto alle medie che crescono le difficoltà, che poi diventano rilevanti alle superiori. Ancora una volta è comprovato che al Sud e nelle isole il sistema scolastico registra le maggiori difficoltà, strettamente legate allo status socioeconomico delle famiglie. Il direttore dell’Invalsi, Ricci, fa notare che al Sud gli studenti affrontano l’esame di terza media, avendo competenze da quinta elementare. All’esame di maturità i candidati con gravi lacune sono il 42 per cento, ma in Campania, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna i ”gravi ritardi” superano il 60 per cento! In Calabria 7 maturandi su 10 non riescono a leggere l’inglese. A una lettura più attenta dei dati Invalsi, però, non deve sfuggire che c’è un aumento statisticamente significativo rispetto ai dati del 2018, di 2,3 punti nel Nord Ovest, di 4 nel centro, di 2,5 nel Sud e di 4,1 nelle isole. Quindi si registra un miglioramento e prima di aumentare il coro dei catastrofisti e di concionare sulle colpe della scuola e dei docenti, occupiamoci subito di efficaci azioni politiche per cercare soluzioni adeguate. Se analizziamo meglio i problemi, scopriamo che il 35 per cento degli studenti del Sud che non capisce quello che legge, non ha frequentato il nido, non ha mai sperimentato il tempo pieno e ha accumulato più di una bocciatura. È evidente che bisogna agire con provvedimenti di sistema, soprattutto sull’incremento dei nidi perché quando parliamo di contesti deprivati, frequentare il nido aiuta a sviluppare le cellule neuronali e le abilità linguistiche. Bisogna potenziare il tempo pieno, favorire le compresenze dei docenti, che permettano maggiore permanenza a scuola e consentano una didattica individualizzata, con migliore assistenza pedagogica per contrastare l’alternativa pericolosa della strada e dei suoi modelli. Quindi uno studente di Napoli o di Palermo, quando si siede per la prima volta nei banchi, ha già accumulato tre anni di scuola in meno di uno studente di Milano o di Reggio Emilia. Quando il contesto familiare è degradato per difficoltà economiche e la genitorialità è fragile le difficoltà si manifestano da subito, determinando dispersione scolastica, bassi rendimenti e bocciature. Inoltre non dimentichiamo che uno dei fattori di miglioramento dell’istruzione è la formazione e la selezione dei docenti. Per diventare insegnante bisogna sapere ma anche “saper insegnare” e quindi occorre una formazione specialistica di pedagogia, di didattica, di psicologia oltre le competenze disciplinari. Bussetti, attuale ministro dell’Istruzione, oltre i tagli all’organico dei docenti, ha tagliato ogni possibilità di riforma della formazione docente. Spero vivamente che tutta l’attenzione mediatica solleciti ai decisori politici nuove strategie di potenziamento della scuola, con cospicui investimenti nel sapere, nelle tecnologie, con politiche di riequilibrio delle differenze di ricchezza e di conoscenza tra Nord e Sud. Insomma l’opposto dell’autonomia differenziata di cui tanto si discute, che vuole impadronirsi della scuola per farne uno strumento di governo della cultura e della conoscenza, condizionando la libertà e la democrazia del Paese. Occorre una grande mobilitazione per difendere la scuola organo costituzionale, “la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare, la scuola che è funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà” (Calamandrei). L’art. 34 recita: “La scuola è aperta a tutti. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. È l’articolo più importante della nostra Costituzione.

Michele Ainis: “Università e Magistratura senza maestri”

Articolo di Antonio Siracusano pubblicato lunedì 15 luglio 2019 dalla Gazzetta del Sud ed. Sicilia.

Università e Magistratura senza maestri

Il costituzionalista messinese, Michele Ainis, parla della “fuga” dei giovani siciliani e della crisi etica che investe la società italiana. «Siamo in piena deriva, classe dirigente selezionata da cricche, circoli lobbistici e massonici»

Uno sforzo laborioso ci spinge a mantenere le distanze dal nostalgismo, ricovero della memoria, via di fuga per allentare la pressione esercitata dall’incertezza che instilla disorientamento, insicurezza, sfiducia. Ed è un’altalena temporale tra resistenza e cedimento, alla ricerca di un raggio di sole che allontani l’ombra del passato. Ma senza un’analisi cruda, non adulterata dalla speranza, si rischia di precipitare nel vuoto dell’illusione spacciata come futuro. E allora il prof. Michele Ainis, costituzionalista messinese, tra i più lucidi e rigorosi opinionisti italiani, preferisce il pessimismo della ragione al conformismo edulcorato per esprimere il suo pensiero sugli scheletri che stanno uscendo fuori dagli armadi delle Università e della Magistratura: «Dico che si stava meglio quando si stava peggio».

Rimpiange i baronati negli atenei?

«I baroni erano maestri riconosciuti che avevano creato scuole accademiche. Certo, c’era anche lo spazio riservato al cretino, ma prevaleva lo spirito formativo e culturale che nutriva i giovani studiosi. Quando sono diventato ricercatore il presidente della mia commissione era Paolo Barile, fondatore della scuola fiorentina di diritto costituzionale, allievo di Calamandrei. Il mio maestro a Messina era Temistocle Martines. I baroni avevano una funzione nel mantenere e trasmettere la qualità del sapere universitario».

Lei cede alle sirene del passato.

«Lo so, vado controcorrente. Ma dopo si è innescata una deriva. I criteri di selezione sono monopolizzati da camarille, circoli lobbistici e massonici, non c’è più il maestro che svolge un ruolo di garanzia. Prevalgono le cricche, domina il mutuo soccorso. Quando sono morti personaggi come Bobbio, Eco, Margherita Hack, abbiamo perso un patrimonio umano che non si è rigenerato attraverso eredi. E questo vale anche per l’università e la magistratura, corrosa dalla patologia delle correnti. Non c’è un successore di Paolo Barile. Un vuoto che pesa sulle classi dirigenti di questo paese e sulla politica, con la conseguenza che siamo precipitati in serie C».

Dall’ultimo rapporto Censis sulle università italiane emerge un quadro sconfortante per gli atenei di Palermo, Catania e Messina. A questo si aggiunge la migrazione dei giovani siciliani. Come si ferma questa spirale?

«È in gran parte un problema che attanaglia le famiglie del Sud, ma serpeggia un sentimento di sfiducia anche altrove. La figlia del mio dentista ha studiato a Londra, neanche considerando la possibilità di formarsi in atenei eccellenti come la Bocconi o la Luiss. Per quanto riguarda la realtà del Mezzogiorno, se dovessimo cavarcela con una battuta paradossale, potremmo dire che è tutta colpa delle regioni. Prima che entrassero nell’assetto istituzionale la forbice tra Nord e Sud era meno divaricata. Questo può significare che le regioni hanno fatto cattivo uso delle loro autonomia. Se facciamo un salto di 50 anni, dal 1970 ad oggi, la “Questione meridionale” si è acuita, anche se è completamente scomparsa dal dibattito. E oggi l’autonomia differenziata può rappresentare un ulteriore macigno sulla qualità dell’istruzione nel Mezzogiorno».

Ma se si radica questo sentimento di sfiducia la Sicilia rischia di diventare una casa di riposo.

«Infatti. Per quanto riguarda la Sicilia la fuga dei giovani è riconducibile anche al territorio che perde la sua identità; nel caso di Messina, per esempio, allo smarrimento della vocazione marinara. La nostra città ha voltato le spalle al mare. Penso che questo fenomeno migratorio sia provocato dall’incapacità di valorizzare le proprie radici. Ed è anche da questa consapevolezza che dobbiamo ripartire se vogliamo arginare il fenomeno».

Più volte in questi anni le hanno chiesto un impegno politico e amministrativo a Messina. In questo caso non cede al nostalgismo?

«A chi gli chiedeva cosa fare nel caso in cui arrivasse alla polis un uomo di grande saggezza, intelligenza e valore morale, Platone rispose: “Lo riempiamo di onori e lo accompagniamo alle porte della città”. La democrazia non ha bisogno di eroi e salvatori della patria. È solo una fuga dalle proprie responsabilità. Nel mio piccolo svolgo un’importante funzione istituzionale come componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. E partecipo attivamente al dibattito pubblico, con passione e senso civico. Mi auguro sempre che ciascuno s’impegni a dare il proprio contributo».