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Lorenzo Fioramonti: «Tassa sulle bibite. All’università serve un miliardo»

Articolo di Luca Telese pubblicato lunedì 22 luglio 2019 da La Verità.

«Tassa sulle bibite. All’università serve un miliardo»

Il viceministro all’Istruzione: «L’università ha bisogno di un miliardo che possiamo ricavare con imposte su bevande e merendine zuccherate. Meno obesi, più risorse. Se non arrivano i soldi, a dicembre mi dimetto

«Lei sta parlando con un viceministro condizionato…».

In che senso?

«Ho preso questa decisione: resterò al governo solo se nella prossima manovra ci sarà un miliardo in più per l’università e per la ricerca».

È serio?

«Più che serio. Determinato».

Però lei stesso ricorda che questo governo è il primo ad avere aumentato gli stanziamenti per l’università.

«Vero, ma non basta. Negli ultimi vent’anni, chi ci ha preceduto ha tagliato in ogni forma e ogni modo. Solo la Grecia ha fatto peggio».

E voi?

«Abbiamo scelto di investire 110 milioni in più. Poi abbiamo rischiato che questi fondi venissero congelati».

Quando?

«A dicembre, dopo l’accordo con l’Europa, Tria aveva bloccato 100 milioni, fino a luglio, per una sorta di autosalvaguardia. Poi, dopo una trattativa serrata ne abbiamo sbloccati 70».

E da 100 milioni vuole passare a un miliardo?

«Sì. Ma senza toglierlo a nessuno».

Come si fa?

«Ho sviluppato un modello di nuove entrate ottenute con disincentivi economici a cose che fanno male alla salute e all’ambiente».

Nuove tasse?

«Soltanto su alcuni prodotti: bevande, snack e merendine ad alto contenuto zuccherino. E poi voli aerei, industrie fossili, gratta e vinci».

Il prelievo migliora i consumi?

«L’ordine di grandezza lo stiamo valutando. Potrebbe essere 10 centesimi su una bibita da 1 litro o su una merendina da 100 grammi. Meno bambini obesi e più fondi: risultato straordinario».

Vuole punire?

«No. Mandare un messaggio».

Lorenzo Fioramonti: cresciuto in periferia a Roma. Professore universitario, si è formato tra Africa, Sudamerica e Nord Europa. Viceministro dell’Istruzione con delega per l’università. Era il volto più noto del famoso «governo ombra» del M5S. Serio, quadrato, ma anche molto critico: «Dobbiamo finire di fare ridicole guerre tra gialli e verdi: pensare non all’immagine di un partito, o di un governo, ma di tutto il Paese».

Si è laureato in storia economica a Tor Vergata. Poi?

(Allarga le braccia). «Inizio a girare».

Dove?

«In Belgio, a Gand, servizio volontario europeo. Vinsi una borsa di studio per lavorare in un’associazione ambientalista».

Per fare che cosa?

(Risata). «Prima le pulizie. Poi cucinare in un ristorante dell’associazione…».

Grandioso.

«Molto utile per perfezionare francese e inglese. Quindi in Inghilterra, una summer school di macroeconomia e statistica a Essex».

E poi?

«Prendo un dottorato tra Siena e l’istituto europeo di Fiesole. Il terzo anno vado a fare una ricerca sul campo, sul tema che studiavo: come cambiano i Paesi post autoritari quando tornano alla democrazia».

E dove va?

«A Pretoria, in Sudafrica. Dopo un po’ di tempo inizio a lavorare per la cooperazione allo sviluppo».

Mette su famiglia.

«Conosco e mi innamoro di Janine. Che è tedesca, ma nata e cresciuta in Venezuela. Per cinque anni abbiamo vissuto tra il Sudafrica, il Venezuela e l’Europa».

Mi dica una cosa sul Sudafrica.

«È un paradiso ricco di contraddizioni. L’unico posto dove i vantaggi tecnologici del “primo mondo” convivono con quelli ecologici e ambientali del “terzo mondo”».

Esempio?

«In una delle foto a cui siamo più affezionati Janine allatta il nostro secondo figlio in un parco, e al fianco ha una zebra che fa altrettanto con il suo cucciolo».

Fantastico. E com’è stata la vita a Caracas?

«In Venezuela sono stati usati presupposti giusti per fare cose sbagliate».

Lo dice mai ai tifosi chavisti del M5s?

«Sempre, ma non sono sicuro di averli convinti. Anch’io ero appassionato di Chavez all’inizio».

Poi ha cambiato idea.

«Era diventata una dittatura. Sostenuta dal 20% della popolazione. Non producono nulla, importano tutto, dipendono totalmente dal petrolio».

Quindi, fuga.

«Nel 2008 provo a tornare in Italia con un assegno di ricerca all’università di Bologna. Io e mia moglie vogliamo aprire un centro di ricerca, investiamo tutti i nostri risparmi, 120.000 euro in un terreno, dove edificarlo».

E come va a finire?

«Un doppio disastro. All’università quando c’è il concorso mi dicono: “Non ti presentare”».

Perché?

«Mi fanno capire che “non è leale” presentarsi con un curriculum come il mio: “Metti in difficoltà un’altra persona che lavora da tanti anni”».

E come pensano che lei accetti?

«Dicono: “Verrà anche il tuo momento”».

Per il centro avevate comprato il terreno a Ripoli.

«Ma durante gli scavi per il tunnel della variante di valico si produce una frana che colpisce il nostro Comune. Perdiamo tutto. Siamo in causa con Autostrade da 10 anni».

Vuole ritirare le concessioni?

«Mi basterebbe che pagassero i danni che producono».

Dopo le batoste, altra fuga.

«Stava per nascere il mio primo figlio e mi propongono un contratto da junior professor di economia politica a Heidelberg, in Germania. Avevo 32 anni. Passo da 1.200 euro al mese (di cui 800 per l’affitto) a 2.500 netti più casa e asilo pagati e 5.000 euro annui per i viaggi».

Quanto resiste?

«Tre anni. Poi arriva una offerta da Pretoria e torniamo in Sudafrica».

È il 2012, e lei diventa professore associato.

«Ottengo anche un secondo stipendio per restare in ateneo. Apro il mio centro di ricerca con oltre 30 ricercatori ed elaboro il progetto di un campus universitario completamente ecosostenibile».

E lo accettano?

(Sorriso). «Mi affidano 50 milioni di dollari per realizzarlo. Viene costruito in tre anni. A oggi ci lavorano 300 persone».

A questo punto scrive il libro che la porterà in Parlamento: Gross domestic problem, tradotto in italiano con Presi per il Pil.

«Il Pil è un indice molto imperfetto e obsoleto. Misura solo i consumi di mercato».

Indicatore non attendibile?

«Gli Stati Uniti che spendono quasi la metà del Pil in spese militari e mediche appaiono più virtuosi del Costarica, dove l’esercito è abolito per legge, le scuole sono gratis, i tassi di istruzione molto più alti di quelli dello Zio Sam, l’aspettativa di vita è altissima grazie alla sanità pubblica che costa una frazione di quella americana. Ma per il Pil, gli Usa sono sviluppati e il Costarica no».

Come arriva al M5s?

«Un giorno mi chiama Giorgio Sorial, ex parlamentare 5 stelle e oggi nello staff del ministero dello Sviluppo».

Perché?

«Aveva letto il mio libro quando faceva l’ingegnere in Irlanda e mi propone di presentarlo alla Camera nel 2017».

E lì conosce Di Maio.

«A dicembre, mentre ero a Roma per le feste di Natale, Luigi mi invita a pranzo a Milano. Accetto. E lui mi dice: “Vuoi stare nella squadra di governo e aiutarmi a costruirla?”».

Lei arruola Pasquale Tridico, futuro presidente dell’Inps, e Filomena Maggino, che doveva essere ministro della Qualità della vita.

«Ministero purtroppo mai nato. Ora lei lavora con Conte, nella cabina di regia di Benessere Italia».

Quando ha saputo del contratto di governo con la Lega?

«Guardando il telegiornale».

E di essere viceministro?

(Sorride). «Mezz’ora prima del comunicato stampa, la sera prima del giuramento. Via Whatsapp».

II ricercatore cui si diceva di non presentarsi è diventato il responsabile dell’università italiana.

«Mi impegno molto per questo settore, però non ho mai avuto la delega alla ricerca, nonostante fosse nei patti».

Come si trova?

«Un ministro ha decine di uffici e centinaia di collaboratori. Io ho 7 persone. Facciamo i salti mortali».

Il rapporto con Bussetti?

«Cordiale con lui e il suo gabinetto. Tuttavia, molto spesso, lavoro dalla mattina alla sera solo per capire che cosa fanno, e come, sui miei temi».

Sembra folle.

«Talvolta apprendo di decisioni che riguardano le mie deleghe solo dal passaparola».

Che cosa pensa del governo?

«Siamo diversi dalla Lega, per questo bene il contratto. Avrei preferito meno sbaciucchiate all’inizio, in cui si voleva far credere di andare d’amore e d’accordo. E meno litigate nei sei mesi successivi: più compostezza avrebbe giovato al Paese».

Sembra folle.

«Il bisticcio continuo è soffocante. Facciamo cose belle che si perdono nell’infantilismo dei tweet».

Faccia un esempio su che cosa migliorare.

« Ho seguito i dossier europei. Ho la fortuna di parlare inglese, francese e tedesco».

E che cosa ha capito?

«Per anni l’Italia non è stata all’altezza. Abbiamo mandato burocrati a leggere discorsi quando avremmo dovuto avere politici all’altezza».

Perché?

«L’autorevolezza è il frutto di competenze e avremmo dovuto mandare i migliori. Le decisioni vere si chiudono a cena, nei coffee break, parlando le lingue».

E quindi?

«Dobbiamo proiettare autorevolezza, soprattutto in Europa. Ne va del futuro del Paese. Serve progettualità nel lungo periodo».

Davvero senza fondi si dimette?

«Non sono venuto qui per una poltrona, ma per cambiare. Se non ci riesco, a Pretoria sto benissimo».