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Più orientamento contro gli abbandoni

Articolo di Nicoletta Picchio pubblicato sabato 11 novembre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Più orientamento contro gli abbandoni

Gentiloni: «Stiamo cercando di risalire la china». Fedeli: «Investimenti significativi». Solo la metà dei ragazzi che prendono un diploma continua a studiare. Chi esce da un istituto tecnico spesso non trova dei percorsi adeguati

Troppo pochi: solo la metà dei ragazzi che prendono il diploma si iscrivono all’università. In Francia sono il 70 per cento. Approfondendo l’analisi sono soprattutto i ragazzi che escono dagli istituti tecnici e professionali a fermarsi, soprattutto perché non trovano un percorso di studio professionalmente adeguato alle loro aspettative. Ma non è finita: una percentuale consistente lascia gli studi, l’11% degli studenti se si considera l’anno accademico 2016-2017, quota che raggiunge il 25,1% per i ragazzi diplomati negli istituti professionali.

«Bisogna lavorare molto su una politica di orientamento, su cui stiamo investendo in maniera significativa». È uno degli impegni di Valeria Fedeli, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, in uno scenario che vede il nostro paese in recupero rispetto al passato sulle risorse destinate all’università: nel 2018, rispetto al 2015, che è stato l’anno peggiore dal punto di vista dei finanziamenti, il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei tornerà a crescere di circa il 6,4%, quasi mezzo miliardo di euro.

«Stiamo cercando, e faticosamente, di risalire la china», ha confermato il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Governo, rettori, il commissario Ue per la ricerca, scienza e innovazione, Carlos Moedas, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: sono stati i protagonisti della giornata “L’Università italiana nell’Europa di domani”, organizzata dal ministero. Un dibattito che si è svolto contemporaneamente a Orientagiovani, iniziativa ormai decennale di Confindustria per orientare i ragazzi verso lo studio e il lavoro.

«Scuola, università, formazione e lavoro sono fattori fondamentali. In una società dove la persona è al centro», ha detto Boccia, che ha condiviso le linee di riforma della Fedeli e ha sottolineato che «l’università è il luogo di formazione del ceto dirigente, politico e tecnico», in un mondo «in continuo cambiamento, con le nuove tecnologie che hanno un forte impatto culturale, rendendo necessaria la contaminazione tra mondi diversi. C’è una questione di formazione nella società, ma anche nelle fabbriche».

Il presidente del Consiglio è stato esplicito: «Non ci possiamo permettere un livello così basso di immatricolazioni». Ed è importante investire, ha sottolineato la Fedeli «su tutta la filiera della conoscenza», annunciando a giorni un documento analisi e proposte. Anche per affrontare un altro tema preoccupante: il 35% degli occupati, cioè più di un italiano su tre, a fronte dall’uno su cinque della Germania e l’uno su otto della Svizzera, svolge un lavoro che non ha alcuna relazione con gli studi.

«Abbiamo ritardi, si spende poco nella ricerca, i giovani che concludono l’università da noi sono meno, ma dai nostri atenei escono eccellenze: la sfida è produrre una grande platea in grado di avere una conoscenza di base utile in questo mondo», ha detto Visco. Un mondo dove oltre a conoscenze e competenze «serve il pensiero critico, il problem solving, la capacità di innovazione e di aggiornarsi sempre».

È all’università, come ha detto Giuliano Amato, che spetta la formazione delle élite: «Ne produciamo in ambiti scientifici, in quelli politici e sociali c’è un decadimento reale del Paese». In questa sfida «l’autonomia deve essere la spinta alla qualità».

 

Atenei italiani a metà del guado, crescono i fondi ma non il merito

Articolo di Marzio Bartoloni pubblicato sabato 11 novembre 2017 da Il Sole 24 Ore.

Atenei italiani a metà del guado, crescono i fondi ma non il merito

I costi standard sono fermi al 20%

La ministra Valeria Fedeli l’ha chiamato il «decennio horribilis». La crisi ha scavato un solco profondo nelle università costrette a rinunciare nel giro di pochi anni a un miliardo di euro (su quasi 8), a 14 mila docenti (per il blocco del turn over) e a 70mila matricole (in un Paese con il record negativo dei laureati). Ieri la ministra e il premier Gentiloni hanno però rivendicato l’«inversione di marcia» e i «primi passi per risalire la china»: i fondi a disposizione degli atenei stanno crescendo di nuovo e il prossimo anno raggiungeranno 7,3 miliardi, la cifra più alta negli ultimi 5 anni (anche se mancano ancora 500 milioni per tornare al 2009).

La manovra di quest’anno (come quella di due anni fa) apre poi le porte a oltre un migliaio (1.300 per l’esattezza) di nuovi ricercatori che potranno ambire dopo 3 anni alla cattedra: una goccia nel mare dei 48mila docenti dove solo 20 professori ordinari hanno meno di 40 anni («l’università è fatta di vecchi», ha riconosciuto ieri il presidente dei rettori Gaetano Manfredi). E da quest’anno inoltre le nostre università sperimenteranno per la prima volta una no tax area che consentirà a 650mila famiglie di non pagare le tasse universitarie (nel caso di Isee sotto i 13mila euro) o di pagarle scontate (sotto la soglia di 30mila euro) visto che vantiamo un costo tra i più alti in Europa.

Ma a questa inversione di tendenza, timida ma reale, se n’è aggiunta un’altra: una frenata importante sul fronte della distribuzione dei fondi in base all’efficienza e al “merito”. L’ultimo riparto del Ffo (il Fondo di finanziamento ordinario) per il 2017 parla chiaro: il 22% dei fondi (1,535 miliardi) è stato distribuito come quota premiale sulla base delle performance di ogni ateneo. Una voce che a regime (non si sa ancora quando) peserà per il 30% dei fondi, ma che negli ultimi tempi ha subìto degli aggiustamenti: a fianco alla valutazione dei risultati della ricerca (misurata dall’Anvur) che pesa per il 60% della quota premiale e alla valutazione delle politiche di reclutamento che vale un altro 20%, si è aggiunto un nuovo criterio (che vale un altro 20%: circa 300 milioni) con il quale gli atenei ora si fanno valutare su una serie di indicatori che si scelgono da soli (si chiama «valorizzazione dell’autonomia responsabile»). In pratica per banalizzare si potrebbe evocare la “domanda a piacere” degli esami.

Ma non è tutto. L’arretramento più importante riguarda in realtà un altro criterio: il costo standard, introdotto 4 anni fa, per sostituire il vecchio riparto in base alla spesa storica con un parametro oggettivo basato sul “prezzo giusto” delle attività universitarie. Un criterio nato per evitare sprechi e valorizzare i più efficienti, basato sul fatto che chi ha più studenti fuori corso o troppe cattedre rispetto al necessario viene penalizzato nei fondi. Ebbene quest’anno solo il 20% dei fondi è stato distribuito con il «costo standard per studente». Nel 2016 era il 28% e nel 2015 il 25%, mentre da programma iniziale (deciso nel 2014) doveva sostituire addirittura il 100% della quota base (5 miliardi) entro il 2018. A questo va aggiunto il fatto che il costo standard, dopo una bocciatura della Consulta, è stato appena rivisitato nel decreto per il Sud dove ora è previsto che cresca solo tra il 2% e il 5% all’anno fino a un massimo del 70% della spesa storica (non più il 100%). Certo alle università va riconosciuto il merito di essere state tra le prime nella Pa a misurarsi con un parametro di efficienza (soprattutto in un periodo di risorse magre), ma ora che i fondi crescono di nuovo l’arretramento è meno giustificato.

Fin qui il fronte delle risorse. Perché sempre sul terreno del “merito” va segnalato anche l’affondamento di una misura – lanciata in pompa magna dall’ex premier Renzi – che puntava ogni anno alla chiamata diretta alla docenza per merito di 500 cervelli italiani o stranieri attraverso la creazione di un fondo dedicato al nostro premio Nobel Giulio Natta. La misura dopo due anni non è mai partita, soprattutto a causa della levata di scudi del mondo accademico che l’ha giudicata da subito un corpo estraneo e un’ingiustizia per i tanti aspiranti docenti che seguono le lunghe trafile ordinarie (abilitazione, concorsi, ecc.). La ministra Fedeli, dopo una mezza bocciatura del Consiglio di Stato, aveva annunciato di voler ripresentare la misura con alcuni aggiustamenti. Ma non si è visto nulla. Almeno fino alla nuova legge di bilancio dove le «Cattedre Natta» sono state svuotate di parte delle risorse per finanziare borse di studio e stipendi più alti ai dottorandi.

Legge di bilancio inaccettabile: solo briciole per università ed enti di ricerca

Articolo di Adriana Spera pubblicato giovedì 19 ottobre 2017 sul sito di Il Foglietto della Ricerca.

Legge di bilancio inaccettabile: solo briciole per università ed enti di ricerca

Giovedì 5 ottobre, avevamo dato notizia di quelli che potevano essere i provvedimenti governativi per università ed enti di ricerca presenti nella emananda legge di bilancio.

Lunedì scorso, il premier Gentiloni e il ministro dell’economia, Padoan, hanno illustrato alla stampa, per sommi capi, il testo della proposta di legge che, nella versione completa, dovrebbe arrivare soltanto domani al Senato e, per la quale, siamo certi che verrà chiesto l’ennesimo voto di fiducia.

Da quanto emerso finora, appare ben poca cosa – soprattutto rispetto alle ingenti risorse pubbliche che fino a oggi sono state destinate a ripianare le voragini create dolosamente da tanti istituti di credito – sia per l’Università che per gli Enti di ricerca, dal momento che le assunzioni complessive di ricercatori difficilmente potranno superare le 1500/1600 unità (in un primo momento, si era parlato di più del doppio), di cui appena 300 per gli Epr, mentre per l’annosa vicenda del recupero degli scatti stipendiali “sottratti” ai docenti dal 2011 al 2015, la soluzione sarebbe quella meno costosa, ovvero la trasformazione degli stessi scatti da triennali a biennali, che permetterebbe il recupero del maltolto in tempi biblici e non per tutti, ma solo per i più giovani.

Possiamo dire che la montagna ha partorito il topolino, che lascerà sul tavolo del tutto irrisolti i gravi problemi che affliggono università e ricerca, in primis, il problema del precariato.

Una manovra miope, che rivela l’assenza di qualsiasi progetto di sviluppo per il Paese se non quello di arrivare a vincere la prossima tornata elettorale. E sì perché, questo governo si illude di vincere, con una legge elettorale costruita ad hoc e con una legge di bilancio che prevede ulteriori bonus alla propria base elettorale e sociale. La speranza, forse, è che la maggioranza degli italiani, ormai nauseata da un ceto politico sordo e incapace, non vada a votare. Ma non è detto, perché le condizioni di vita della gran parte dei cittadini sono sempre più difficili e chissà che non ci sia una richiesta forte di cambiamento. Un fatto è certo, si è persa l’ultima occasione per dare al paese una prospettiva di sviluppo, specialmente considerato che da dicembre comincerà a chiudersi l’ombrello del quantitative easing della Bce.

Piuttosto che investire in istruzione, ricerca e università, nel lavoro per i giovani si è preferito proseguire con la politica dei bonus ai diciottenni e a chi recupera il proprio giardino o terrazzo (36% di detrazione sulle spese).

Una classe politica che, ancora una volta, si è dimostrata avulsa dalla realtà che la circonda si è rifiutata di abolire i super ticket sulla sanità e stanzia appena 600 milioni per il reddito di inclusione. E dire che diverse indagini confermano un aumento della mortalità, dovuto al fatto che sempre più persone non hanno le risorse per curarsi. Un dato, quello della mortalità e, quindi, della speranza di vita, di cui il governo non vuol tener conto, soprattutto per il calcolo dell’età pensionabile che nel 2019 salirà di 67 anni. Alle donne verrà concesso uno “sconto” sugli anni di contribuzione di 6 mesi per ogni figlio, con un tetto massimo di due anni. E chi figli non ha potuto o voluto farne proprio per le difficili condizioni di lavoro e sociali in cui si trovava?

Si investono 338 milioni per il taglio del cuneo fiscale a favore di chi assume gli under 35 ma senza porre alcuna sanzione a chi alla fine del triennio licenzia. In dettaglio, vi sono due diverse misure: una per gli under 29 ,che potranno essere assunti con un contratto a tempo indeterminato e il 50 per cento dei contributi per tre anni; mentre per i figli di un dio minore, che hanno tra i 29 e i 35 anni, sarà possibile godere della decontribuzione del 50% per un solo anno e a condizione che si tratti del primo contratto a tempo indeterminato. Ma non basta, nei prossimi anni, l’età di chi potrà beneficiare dello sconto, scenderà ancora.

Al Sud, invece, grazie all’uso dei fondi europei, la decontribuzione sarà del 100% per le assunzioni di giovani tra i 16 e i 24 anni o disoccupati da almeno sei mesi. Sgravi del 50%, per 18 mesi, anche a chi assume a tempo indeterminato (o 12 mesi se a tempo determinato) lavoratori in cassa integrazione.

Si tratta di provvedimenti che, oltre a porre un ingiustificato discrimine in base all’età, ripetono gli errori di un recente passato quando, alla fine del periodo di decontribuzione, sono piovuti i licenziamenti.

Nei giorni scorsi, dal Fmi alla Bce hanno affermato che per consolidare la ripresa occorre aumentare i redditi dei lavoratori dipendenti, ma lo stato italiano, dopo 8 anni di mancato rinnovo dei contratti pubblici, stanzia appena 1,7 mld per i propri dipendenti, pari – sì e no – a 85 euro mensili lorde pro capite a regime, per il triennio 2016-2018: un’elemosina.

Viceversa, il governo è stato generoso con le imprese, destinando 10 mld all’innovazione tecnologica (impresa 4.0). Speriamo non sia la ripetizione del caso della Fiat a fine anni ’80, quando lo Stato finanziò la robotizzazione nelle fabbriche, che portò al licenziamento di decine di migliaia di operai.

Per Gentiloni, «il primo obiettivo era quello di evitare aumenti dell’Iva e l’introduzione di nuove tasse, gabelle, accise» e di ricorrere – aggiungiamo – all’ennesimo condono fiscale, che poi non importa se ciò avvenga a discapito delle fasce sociali più disagiate.

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, forse sognando, in conferenza stampa ha affermato che «il deficit scende così come il debito e la disoccupazione giovanile», grazie alla buona politica economica di questi anni e alle riforme del governo Renzi.

Se con questa legge, i partiti che oggi compongono la maggioranza di governo, sperano di confermarsi anche per la prossima legislatura, vuol dire che vivono su un altro pianeta.

Manovra, la Fedeli batte cassa

Articolo di Alessandra Ricciardi pubblicato martedì 10 ottobre 2017 da ItaliaOggi.

Manovra, la Fedeli batte cassa

Le misure all’esame di Palazzo Chigi per la legge di Bilancio. In testa i salari dei prof. Presidi equiparati a dirigenti statali, più Ata e fondi Its

Ci sono i dirigenti scolastici che, sobbarcati di oneri con la riforma della Buona scuola, si sono messi di traverso proprio sull’attuazione della riforma pretendendo l’equiparazione agli altri dirigenti pubblici: aumentare la parte fissa agli 8 mila presidi costa 95 milioni. Forse 100. Ci sono poi i docenti, che chiedono di poter continuare ad avere il bonus degli 80 euro anche se nella fascia a rischio, quella del reddito tra i 24 mila e i 26 mila euro annui, che potrebbe perderlo con gli 85 euro di aumento medio mensile promessi dal governo Renzi con il prossimo rinnovo del contratto. E qui il costo complessivo della parte rimanente degli 85 euro (che è ancora da finanziare) e del bonus dipende anche dai conteggi delle retribuzioni dei precari. Stima circa 700 milioni di euro. La soluzione per consentire la convivenza delle due misure sarà di tipo fiscale e si applicherà a tutto il pubblico impiego. Il pacchetto delle misure predisposto dalla ministra Valeria Fedeli in vista della prossima legge di bilancio è stato inviato a Palazzo Chigi. Vi figura anche lo sblocco degli scatti per i professori universitari, la richiesta di assunzione per 1.500 ricercatori, nuove assunzioni per il ministero stesso, circa 500.

C’è poi il personale ausiliario, tecnico e amministrativo delle scuole: per loro il nodo di nuove assunzioni, almeno 6 mila in più rispetto al turnover, e il ripristino delle supplenze brevi eliminate dal governo di Mario Monti. Per gli its, gli istituti tecnici superiori, un fondo di 14 milioni per far raddoppiare gli studenti dei corsi, oggi 8mila, visti i brillanti risultati: 81% di occupati a un anno dal diploma. Questo capitolo però potrebbe andare sull’Industria 4.0, e dunque sul bilancio del ministero dello sviluppo economico. Ci sono poi altri titoli che potrebbero però finire negli emendamenti parlamentari di maggioranza: organico del potenziamento anche sulla scuola dell’infanzia, stabilizzare una quota delle supplenze in deroga sul sostegno.

Il capitolo più impegnativo riguarda quello contrattuale. I sindacati chiedono che la Fedeli sia coerente con quanto affermato sulle basse retribuzioni dei docenti e che dunque metta mano al portafogli con aumenti ad hoc. Se un docente di scuola media a metà carriera ha un cedolino di 30 mila euro lordi, la media Ue è di 36 mila, che sale a 44 mila a fine carriera contro i 37 mila dell’Italia. L’obiettivo è avere più soldi sulla parte fissa, ma anche su quella variabile, riportando a contrattazione il bonus per l’aggiornamento professionale e quello per il merito a favore dell’avvio di un nuovo sistema di welfare. Si tratterebbe però di definanziare due capitoli importanti della riforma della Buona scuola, una mossa dalle evidenti ricadute politiche che è arduo per il governo di Paolo Gentiloni portare avanti.

Dalla formalizzazione della legge di bilancio dipende anche l’invio dell’atto di indirizzo per l’aperture delle trattative. Cgil, Cisl, Uil e Confsal hanno deciso di giocare di anticipo e di andare comunque a una fase di mobilitazione per chiedere che la direttiva all’Aran ci sia subito, visto che l’accordo sullo sblocco dei contratti, fermi da nove anni, risale a quasi un anno fa. Ma è evidente che fino a quando non sarà trovata la quadra sulla manovra, dal ministero dell’economia non giungerà nessuna autorizzazione ad aprire tavoli contrattuali. E non è solo una questione economica. Anche sulla ricontrattualizzazione dell’organizzazione del rapporto di lavoro, a cui apre la riforma Madia, ci sono da soppesare ambiti di applicazione ed effetti. Non solo in termini di controbilanciamenti di poteri nella pubblica amministrazione e di funzionamento della macchina, ma anche di posizionamento in campagna elettorale.

 

 

La guerra all’istruzione produce laureati precari e docenti sottopagati

Articolo di Roberto Ciccarelli pubblicato mercoledì 13 settembre 2017 da il manifesto.

La guerra all’istruzione produce laureati precari e docenti sottopagati

I risultati della guerra all’istruzione, all’università e alla ricerca nel rapporto Ocse 2017. Nove miliardi di euro sono stati tagliati a scuola e università tra il 2008 e il 2011. Da allora questi fondi non sono stati recuperati. L’Italia è un caso unico tra i paesi Ocse. Gli unici ad opporsi contro queste politiche catastrofiche sono stati i movimenti tra il 2008 e il 2010 e nel 2015 contro la «Buona Scuola». Da qui si potrebbe ripartire oggi

Maglia nera per la spesa pubblica nell’istruzione nei paesi Ocse, penultima per numero di laureati e ultima per occupati con il questo titolo di studio, l’Italia conferma anche il record dei giovani «Neet»: un ragazzo su 4 tra i 15 e i 29 anni non è impegnato nello studio, in un lavoro retribuito ufficialmente, né in un percorso formativo.

IL RAPPORTO OCSE «Uno sguardo sull’istruzione 2017» rappresenta il bilancio di due tendenze che hanno trasformato radicalmente la scuola e l’università nell’ultimo ventennio. La prima tendenza è misurabile sul tempo relativamente breve. Tra il 2008 e il 2012, regnante Berlusconi, nel nostro paese è stata condotta la più efferata guerra sociale contro l’intelligenza diffusa, i saperi e l’istruzione pubblica. Nessun paese Ocse, in coincidenza con la crisi più devastante dal 1929, ha tagliato 9 miliardi di euro ai bilanci di scuola e università. A questi bisogna aggiungere i miliardi risparmiati con il blocco degli stipendi degli insegnanti e personale: 12 mila euro a testa in sette anni. Oggi, sostiene l’Ocse, la retribuzione lorda di un prof di liceo con 15 anni di anzianità è inferiore di 9 mila dollari rispetto alla media (37 mila contro 46 mila). In termini generale, ancora nel 2014, era investito il 7,1% in istruzione (siamo ultimi tra i paesi Ocse) e l’1,6% in educazione terziaria a fronte di una media del 3,1%. La percentuale del Pil dedicato all’istruzione è del 4% contro il 5,2% nell’Ocse. Rispetto al 2010, il taglio è stato del 7%.

SUGLI STUDENTI SI INVESTE sempre meno: 9317 dollari a testa a fronte di una media europea di 10.897 dollari (media Ocse 10.759 dollari). Sull’educazione universitaria, l’Italia impiega 11.510 dollari. In Francia sono quasi cinquemila in più: 16.422 dollari. La Germania è irraggiungibile: 17.180 dollari. Dal 2014 a oggi, è ragionevole pensare, questi dati non sono cambiati di molto. Nell’ultimo triennio, quello per intendersi del governo Renzi-Gentiloni, all’istruzione sono andate briciole rispetto ai tagli inflitti nel triennio precedente e non sono stati rovesciati i devastanti effetti dell’offensiva berlusconiana. Il cospicuo bottino ottenuto dalla «flessibilità» concessa dall’Unione Europea al nostro paese è stato usato per i bonus alle imprese (i 18 miliardi di euro bruciati inutilmente per aumentare l’occupazione fissa con il Jobs Act) o per dare spiccioli al ceto medio del lavoro dipendente in crisi (i 9 miliardi degli «80 euro»). Nell’orizzonte politico del renzismo-Pd non rientrano gli investimenti pubblici su istruzione e ricerca. La plateale assenza del tema nella campagna elettorale nascente è una conferma.

LA SECONDA TENDENZA rilevata dal rapporto Ocse riguarda il tempo lungo, quello della riforma dei cicli e dei crediti voluta dal centro-sinistra Prodi-D’Alema-Amato, con ministri dell’Istruzione Berlinguer e Zecchino, dal 1996 al 2001. Non occorreva aspettare gli ultimi dati sui laureati per capire che quella riforma neoliberale è stata un fallimento. Vale la pena allora rispolverarli, considerata la forte capacità di rimozione delle responsabilità politiche e culturali in questo paese. Nel 2016, tra i 25 e 64enni, il 18% aveva una laurea. La media europea è del 33%. Tra i 25-34enni il 26% aveva una laurea. La media europea: 40%. Solo il Messico fa peggio con il 22% di laureati. Dati da scolpire nella pietra perché i «riformatori» neoliberali del «centro-sinistra» avevano un unico obiettivo: aumentare i laureati, riducendo i saperi a competenze («soft skills») usa-e-getta su un mercato che sta sostituendo il lavoro dipendente con quello precario a breve e brevissimo termine, mentre gli «inattivi», i «neet» e gli «scoraggiati» sono arrivati alla cifra choc di 13 milioni (dati Istat di ieri). A questo risultato ha contribuito il combinato disposto dell’esplosione della bolla formativa creata dagli anni Novanta e i tagli degli anni Dieci.

L’UNICO «SUCCESSO» è l’età media della prima laurea, 25 anni, in linea con l’Europa e inferiore ai paesi Ocse. Il prossimo ministro dell’Istruzione che insulterà i «fuori corso» come «costi sociali» o «choosy» è avvertito: non è vero. Cosa fanno questi (pochi) laureati? Sono precari. In più il tasso di occupazione è del 64% contro la media dell’83%, il più basso tra i paesi industrializzati, e inferiore a quello dei diplomati. Un caso raro nei paesi Ocse.

L’ENORME MOVIMENTO che, al tempo della «riforma Gelmini» tra il 2008 e il 2010, animò una contro-offensiva di massa è stato l’unico soggetto sociale a opporsi contro queste politiche catastrofiche. Un ritorno di fiamma è stato quello contro la «Buona Scuola» di Renzi nel 2015, un provvedimento che ha rafforzato l’approccio neoliberale all’istruzione dopo averlo aggravato nel mercato del lavoro. Da qui si potrebbe ripartire. Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio, ha scritto Samuel Beckett. Una massima che vale anche oggi.

 

 

Ricerca, ora il ministero attinge al “tesoretto” lit

Articolo di Gianni Barbacetto pubblicato martedì 12 settembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

Ricerca, ora il ministero attinge al “tesoretto” lit

Dopo le critiche, la Fedeli “preleva” 250 milioni dai conti dell’istituto genovese. Doppia sconfitta: iI direttore Cingolani restituisce una parte del malloppo, e non ha più la guida di Human Technopole

Perfino la prestigiosa rivista internazionale Science ha segnalato l’arrivo di 400 milioni per la ricerca scientifica di base in Italia. L’annuncio lo aveva dato il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli, al Forum Ambrosetti di Cernobbio: “Sono 400 milioni che mettiamo sulla ricerca di base, quindi sui Prin (Progetti di ricerca di interesse nazionale): è la ricerca più importante, pura, libera, sviluppata dalle università, con una particolare attenzione ai giovani ricercatori”. Aveva subito dichiarato la sua soddisfazione anche Elena Cattaneo, volto internazionale della ricerca italiana e senatrice a vita: “Questo è il più grande investimento in fondi competitivi per la ricerca di base degli ultimi 20 anni”, aveva detto a Science. I numeri le danno ragione. Negli ultimi anni i governi avevano assegnato alla ricerca di base non più di 100 milioni l’anno. Qualche esempio: 99 milioni il ministro Fabio Mussi nel 2007, 102 Mariastella Gelmini nel 2009, 92 Stefania Giannini nel 2016. Ora il governo di Paolo Gentiloni sembra cambiare marcia, mettendo sul piatto la cifra record di 400 milioni. Ma sembra soprattutto cambiare metodo: basta con i fondi non competitivi, garantiti agli “amici” senza gara.
Proprio Cattaneo aveva nei mesi scorsi protestato contro i finanziamenti all’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova, che da oltre un decennio gode di una “rendita” assicurata di circa 100 milioni l’anno, a cui va sommata l'”eredità” ex Iri (128 milioni) assegnata dal governo nel 2008. Nel Paese in cui i ricercatori fanno fatica a trovare i soldi per continuare a lavorare, l’Iit aveva accumulato negli anni tanti finanziamenti da non riuscire a spenderli: oltre 1 miliardo di euro in 11 anni, di cui quasi la metà non spesi. Lo aveva rilevato già una relazione della Corte dei conti nel 2013, che aveva trovato 430 milioni di Iit messi sotto la voce “disponibilità liquide” e “per la maggior quota detenute nel conto corrente infruttifero aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato”, mentre una quota minore – circa 21 milioni nel 2013 – era depositata nelle casse di alcune banche private (ne scrisse Laura Margottini sul Fatto quotidiano nell’aprile 2016). A fine 2016, il “tesoretto” di Iit era di 426 milioni presso la Tesoreria Centrale dello Stato e di 22 milioni in conti bancari. Proprio da questi soldi la ministra Fedeli ora preleva 250 milioni dei 400 che andranno alla ricerca di base. “La restituzione annunciata – ha commentato Elena Cattaneo – rende giustizia all’iniziativa promossa da coloro che, negli anni, hanno denunciato l’abnormità scientifico-finanziaria dei sovrafinanziamenti a Iit”. L’accordo era stato trovato nel maggio 2017, quando la ministra Fedeli e il suo collega dell’Economia Pier Carlo Padoan avevano convinto il direttore di lit Roberto Cingolani a firmare un accordo che diceva così: “È stato convenuto di esplorare un comune percorso volto a impiegare risorse messe a disposizione dall’Iit, previo parere favorevole dei propri organi deliberativi, allo scopo di promuovere, su obiettivi strategici condivisi, progetti di ricerca di interesse nazionale per lo sviluppo del sistema economico del Paese, nonché azioni destinate all’ingresso di giovani nel modo della ricerca”. Così almeno 250 milioni sono stati “liberati”. Il 16 maggio in Parlamento erano stati dichiarati ammissibili alcuni emendamenti alla legge finanziaria che chiedevano di tagliare i finanziamenti statali concentrati sull’Iit di Genova e di distribuire più democraticamente quei soldi alla ricerca di base italiana. Presentati da Francesco Laforgia (Articolo 1-Mdp) e da Daniel Alfreider (Partito popolare sudtirolese), erano poi stati ritirati. Ma il 26 maggio era arrivato l’accordo tra i due ministri e Cingolani.
Non è stata l’unica sconfitta del direttore di Iit. Sono cambiate, dopo le proteste del mondo scientifico, anche le modalità di finanziamento di Human Technopole (Ht), il polo scientifico da costituire sulle aree Expo di Milano. Matteo Renzi, da presidente del Consiglio, aveva promesso a Iit la guida dell’operazione, con finanziamenti di 1,5 miliardi di euro in dieci anni. Dopo le proteste del mondo dell’università e della ricerca, a cui si era unito anche il presidente emerito Giorgio Napolitano, la regia di Ht è stata affidata a un comitato indipendente guidato dal professor Stefano Paleari.

 

 

 

 

 

 

Ilvo Diamanti – Ragazzi, non tornate

Articolo pubblicato lunedì 4 settembre 2017 da la Repubblica.

 

Ragazzi, non tornate

I giovani, in Italia, sono un’emergenza grave. Che non accenna a diminuire. L’ha riconosciuto, con realismo e onestà, il premier, Paolo Gentiloni, al tradizionale Forum Ambrosetti di Cernobbio. D’altronde, i dati più recenti dell’Istat rilevano che la disoccupazione giovanile è oltre il 33%. Secondo talune stime, anche più elevata. Insomma, oltre 1 giovane su 3 è senza lavoro.
Secondo i dati Eurostat: il doppio rispetto alla zona Euro. Solo la Grecia e la Spagna starebbero peggio di noi. Naturalmente, occorre aggiungere che i giovani, in Italia, sono ormai una specie rara, in via di estinzione. Ma questa constatazione a me suscita pena ulteriore. Che ha origini lontane e misure crescenti. È, infatti, dagli anni 70 che siamo in declino demografico. Ma, negli ultimi anni, il declino è divenuto un crollo. Perché si associa all’invecchiamento della popolazione. Gli italiani, infatti, invecchiano e non fanno più figli. Perfino gli stranieri, quando si stabilizzano, smettono di “riprodursi”. Ma la popolazione italiana invecchia anche perché i giovani, appena possono, se ne vanno. Verso Nord. Come gli immigrati che, secondo la retorica della paura, ci “invadono”. I nostri giovani, invece, “evadono”. Per ragioni, ovviamente, diverse. Circa 2 italiani su 3, infatti, come abbiamo scritto altre volte (commentando le indagini di Demos-Coop), sostengono che “per i giovani che vogliano fare carriera, l’unica speranza è andarsene”. Fuori dall’Italia. Ed è ciò che fanno, ormai da anni. In generale, emigrano dall’Italia oltre 100 mila italiani, ogni anno. Per capirci, negli anni 90 il flusso annuale era intorno a 30 mila. A differenza del passato, però, oggi non se ne va la “forza lavoro”. Se ne vanno i giovani. Soprattutto i più istruiti. I più qualificati. Circa 3 su 4, in possesso di un titolo di studio. Secondo il Censis, quasi 9 su 10 di essi sono laureati. Si dirigono prevalentemente in Europa. Soprattutto in Germania e nel Regno Unito. Ma anche in Francia, Austria, Svizzera. Insomma: altrove. Perché “altrove” trovano occasioni di impiego migliori rispetto a qui. Carolina Brandi, ricercatrice Irpps-Cnr, al proposito, parla di brain drain, drenaggio dei cervelli, causato da una evidente condizione di overeducation. Sottoccupazione. Così i nostri “dottori”, dopo essersi “formati” in Italia, se ne vanno a fare ricerca altrove. Dove trovano opportunità e soluzioni. Migliori e più adeguate. In altri termini: sono richiesti da più soggetti scientifici, da più istituzioni, da più imprese. D’altronde, in Italia (dati Eurostat) l’investimento e la produzione del sistema formativo restano limitati. Il nostro Paese, infatti, si colloca all’ultimo posto in Europa per il numero di persone che hanno concluso un percorso di istruzione terziaria (24,9%), mentre la media Ue è del 38,5%. Sotto la media Ue (17,6%) risulta anche il numero di laureati in ingegneria e discipline scientifiche (12,5%). Infatti, se, negli ultimi anni, la spesa pubblica in Italia ha continuato a crescere, gli investimenti in ricerca, università e scuola sono, invece, diminuiti. Più in generale, come ha sostenuto ieri Ferdinando Giugliano su queste pagine, «il principale aumento delle disuguaglianze, in Italia, negli ultimi vent’anni, è stato quello fra giovani e anziani». Non per caso. Metà degli iscritti ai sindacati confederali, infatti, sono pensionati. Mentre la maggioranza degli elettori dei partiti di governo (in particolare di centro- sinistra) è composta da persone anziane. Comunque, (molto) adulte. È difficile immaginare che le politiche sociali possano privilegiare i giovani piuttosto che gli anziani. Tutelare i nuovi lavori e lavoratori piuttosto che i pensionati. E i lavoratori già occupati. Che ambiscono (comprensibilmente) ad andare in pensione prima. Mentre, secondo oltre 8 italiani su 10 (Demos-Coop, aprile 2017), “i giovani d’oggi avranno pensioni con cui sarà difficile vivere”.
Tuttavia, il sistema scolastico superiore e le Università, in Italia, dispongono di un credito molto elevato, fra i cittadini e gli studenti. Ma anche presso le istituzioni europee. I dati dell’Ocse, infatti, rilevano che la scuola italiana è ancora uno strumento di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale”. Per altro verso, i nostri laureati e i nostri ricercatori trovano spazio e vengono valorizzati, altrove. Mentre in Italia si devono rassegnare a condizioni di sotto-occupazione. Con prevedibili e inevitabili conseguenze di de-qualificazione. Così, per noi si tratta di una perdita “economica”. Di un investimento in-utilizzato. Peggio: sfruttato da altri Paesi. Perché, come osserva la Fondazione Migrantes, “la mobilità è una risorsa, ma diventa dannosa se è a senso unico”. Come avviene in Italia. Che forma ed “esporta” molti talenti. Ma non è capace di attrarne altri, da altri Paesi. Peggio, non è neppure in grado di fare rientrare i propri. Se, un tempo, gli italiani che partivano pensavano — e sognavano — di tornare, oggi avviene raramente. Le figure più qualificate, i nostri “dottori”: partono e non ritornano. Perché, per loro, avrebbe poco senso, tornare in Italia. Non troverebbero spazi e occupazione. Adeguati. Certo, mantengono forti legami con l’Italia. In particolare, stretti e frequenti rapporti con le famiglie di origine. Le quali costituiscono, per loro, riferimenti certi. Essenziali, quando si affrontano percorsi e destini incerti. In tempi incerti.
Per queste ragioni, i nostri giovani continuano a partire, sempre più numerosi. I nostri (miei) figli, i nostri (miei) studenti. E per queste ragioni è forte la tentazione, da parte mia, di rivolgere loro un invito neppure troppo provocatorio. Ragazzi: non tornate. Restate altrove. Fuori dal nostro, vostro Paese. Almeno fino a quando il nostro, vostro, Paese non si accorgerà di voi. E deciderà di investire sui giovani invece che sugli anziani. Sulla scuola. Sui nuovi lavori. Invece che sulle rendite, sulle pensioni, sui privilegi. Ma finché questo Paese che invecchia continuerà ad aggrapparsi al presente — e al passato. Incapace di guardare al futuro. Al destino dei — propri — giovani. Almeno fino ad allora: ragazzi, non tornate!