Articolo di Nicoletta Picchio pubblicato sabato 11 novembre 2017 da Il Sole 24 Ore.
Più orientamento contro gli abbandoni
Gentiloni: «Stiamo cercando di risalire la china». Fedeli: «Investimenti significativi». Solo la metà dei ragazzi che prendono un diploma continua a studiare. Chi esce da un istituto tecnico spesso non trova dei percorsi adeguati
Troppo pochi: solo la metà dei ragazzi che prendono il diploma si iscrivono all’università. In Francia sono il 70 per cento. Approfondendo l’analisi sono soprattutto i ragazzi che escono dagli istituti tecnici e professionali a fermarsi, soprattutto perché non trovano un percorso di studio professionalmente adeguato alle loro aspettative. Ma non è finita: una percentuale consistente lascia gli studi, l’11% degli studenti se si considera l’anno accademico 2016-2017, quota che raggiunge il 25,1% per i ragazzi diplomati negli istituti professionali.
«Bisogna lavorare molto su una politica di orientamento, su cui stiamo investendo in maniera significativa». È uno degli impegni di Valeria Fedeli, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, in uno scenario che vede il nostro paese in recupero rispetto al passato sulle risorse destinate all’università: nel 2018, rispetto al 2015, che è stato l’anno peggiore dal punto di vista dei finanziamenti, il Fondo di finanziamento ordinario degli atenei tornerà a crescere di circa il 6,4%, quasi mezzo miliardo di euro.
«Stiamo cercando, e faticosamente, di risalire la china», ha confermato il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. Governo, rettori, il commissario Ue per la ricerca, scienza e innovazione, Carlos Moedas, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco: sono stati i protagonisti della giornata “L’Università italiana nell’Europa di domani”, organizzata dal ministero. Un dibattito che si è svolto contemporaneamente a Orientagiovani, iniziativa ormai decennale di Confindustria per orientare i ragazzi verso lo studio e il lavoro.
«Scuola, università, formazione e lavoro sono fattori fondamentali. In una società dove la persona è al centro», ha detto Boccia, che ha condiviso le linee di riforma della Fedeli e ha sottolineato che «l’università è il luogo di formazione del ceto dirigente, politico e tecnico», in un mondo «in continuo cambiamento, con le nuove tecnologie che hanno un forte impatto culturale, rendendo necessaria la contaminazione tra mondi diversi. C’è una questione di formazione nella società, ma anche nelle fabbriche».
Il presidente del Consiglio è stato esplicito: «Non ci possiamo permettere un livello così basso di immatricolazioni». Ed è importante investire, ha sottolineato la Fedeli «su tutta la filiera della conoscenza», annunciando a giorni un documento analisi e proposte. Anche per affrontare un altro tema preoccupante: il 35% degli occupati, cioè più di un italiano su tre, a fronte dall’uno su cinque della Germania e l’uno su otto della Svizzera, svolge un lavoro che non ha alcuna relazione con gli studi.
«Abbiamo ritardi, si spende poco nella ricerca, i giovani che concludono l’università da noi sono meno, ma dai nostri atenei escono eccellenze: la sfida è produrre una grande platea in grado di avere una conoscenza di base utile in questo mondo», ha detto Visco. Un mondo dove oltre a conoscenze e competenze «serve il pensiero critico, il problem solving, la capacità di innovazione e di aggiornarsi sempre».
È all’università, come ha detto Giuliano Amato, che spetta la formazione delle élite: «Ne produciamo in ambiti scientifici, in quelli politici e sociali c’è un decadimento reale del Paese». In questa sfida «l’autonomia deve essere la spinta alla qualità».