Archivi tag: Informatica

Camerino abbandonata, la rivolta dei prof

Articolo di Alessandra Camilletti pubblicato domenica 28 gennaio 2018 da Il Messaggero.

Camerino abbandonata, la rivolta dei prof

Sisma, 56 docenti universitari al governo: «Nessuna casetta consegnata»

Nella zona rossa sono chiusi gli edifici storici che ospitavano la scuola di Giurisprudenza, la facoltà di Informatica, il Rettorato, la direzione amministrativa e il polo di alta formazione. Strutture danneggiate dal sisma che ha colpito al cuore l’Italia, alcune completamente inagibili dopo, in particolare, le due scosse del 26 e del 30 ottobre 2016 e poi quella del 18 gennaio. E nessuna casetta, di poco più di trecento previste, ancora consegnata. La zona rossa di Camerino, città di settemila anime nelle Marche, è la più estesa del cratere. E da qui, da 56 professori che all’Università di Camerino hanno insegnato, parte un appello al Governo a fare presto, a riaprire la città. Ad accelerare la ricostruzione di Camerino e del prestigioso Ateneo, che si sono sempre rispecchiati e riconosciuti l’una nell’altro. Ateneo che nella città ducale conta settecento anni di storia, tra i più antichi d’Italia, e nomi illustri come Norberto Bobbio ed Emilio Betti e che negli ultimi due anni è riuscito anche ad aumentare le iscrizioni.

I NUMERI

Sono circa 1.200 le matricole su un totale di 8.150 iscritti, con una crescita del 20 per cento forse aiutata dall’azzeramento delle tasse universitarie. Le strutture chiuse dal sisma si sono trasferite. Al Campus già operativo hanno dovuto trovar posto anche Rettorato, uffici, Alta formazione e Giurisprudenza. La facoltà di Informatica è attiva nel Polo informatico. Ma la ricostruzione, la restituzione del centro storico ai suoi cittadini e agli studenti, sottolineano i professori, va accelerata. Il quadro più complessivo, dice che sono poco più di 300 le casette per i cittadini richieste alla Regione, una sessantina di queste “aggiunte” a dicembre. E al momento, risultano anche pronte 118 Sae. Il Comune ha pubblicato l’elenco degli assegnatari. Il problema è che non sono completate ancora le opere di urbanizzazione e non è possibile consegnare le chiavi.

L’ISTANZA

L’Appello per una tempestiva ricostruzione di Camerino e della sua università è stato inviato al premier Paolo Gentiloni, che il 6 novembre scorso intervenne all’inaugurazione dell’anno accademico. A promuovere l’Appello, il professor Alessandro Monti, già ordinario di Politica economica alla facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo ed esponente del comitato scientifico della Fondazione Bruno Visentini. «Ho cercato di rintracciare i colleghi, alcuni dei quali, come me, non insegnano più a Camerino ma restano ancora molto legati all’Università. E molto volentieri tutti hanno aderito. Abbiamo inviato la lettera alcuni giorni fa, ancora non abbiamo avuto risposte», spiega Monti. Tra gli aderenti molti nomi noti del mondo accademico e istituzionale. Tra loro Luciano Violante, già presidente della Camera dei deputati, e l’avvocato, già senatore, Guido Calvi, Giovanni Verde, già vice presidente del Csm, i costituzionalisti Antonio Baldassarre e Romano Vaccarella. Il giudice della Corte internazionale di giustizia all’Aia Giorgio Gaja, gli economisti Piervicenzo Bondonio, Giorgio Brosio, Mauro Marconi, Luciano Milone, Mario Sebastiani. Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli, che di Bobbio è stato allievo. Tra gli obiettivi prioritari, riaprire il centro storico, con un cronoprogramma chiaro. «È trascorso quasi un anno e mezzo e la situazione si trascina un po’ – sottolinea il professore Alessandro Monti -. Quando ci sono terremoti è sempre difficile, ma nella precedente esperienza del ’97 furono iniziati subito i lavori. Oltre a puntellare gli edifici, sono necessari gli adempimenti per arrivare agli appalti: i cantieri non si vedono. Sostanzialmente, si procede a rilento e si tratta di capire se è possibile accelerare un po’. Capiamo che non si può capovolgere la situazione da un momento all’altro, ma magari dare un po’ più lena. Per fortuna a Camerino non ci sono state vittime. Ma molti si sono trasferiti, la cittadinanza vive una situazione di precarietà, la facoltà di Giurisprudenza soffre. Il Rettorato e le sedi che si trovavano nel centro storico restano chiuse. Una chiusura che allontana la ripresa della vita quotidiana. Il timore di ulteriori scosse fa procedere con molta prudenza nella realizzazione delle opere strutturali». Così l’appello, per sollecitare «soluzioni intermedie» per ridare respiro a Camerino e di far superare una «drammatica situazione di stallo». Passaggio importante, si spiega nella lettera, anche dotare di risorse il commissario straordinario, Paola De Micheli.

LE ATTIVITÀ

A fine dicembre è stata inaugurata l’area commerciale “Vallicenter”, con otto attività economiche e produttive delocalizzate a seguito del sisma. È stata realizzata dalla Regione con i fondi europei ed è la prima delle tre urbanizzazioni cittadine previste per il settore terziario. Per l’area maggiore, la “San Paolo”, dove si prevedono 69 attività, i lavori di urbanizzazione sono stati aggiudicati nei giorni scorsi, come la direzione dei lavori. Si tratta di un centro commerciale progettato proprio da Unicam. Certo, i cittadini non mollano. Camerino partecipa al progetto di crowdfunding lanciato dall’Anci per ricostruire le aree terremotate anche con piccoli progetti, con sottoscrizioni. In questo caso, l’obiettivo è il turismo all’aperto, con la ristrutturazione dell’area camper e l’ampliamento da 8 a 26 piazzole: servono 149 mila euro. Da subito, inoltre, è stata creata un’associazione, “Io non crollo”, con l’obiettivo dichiarato di «contribuire alla ricostruzione fisica, morale e sociale dell’intero territorio camerte».

Data science e informatica: è boom

Articolo di Luca Orlando pubblicato martedì 23 gennaio 2018 da Il Sole 24 Ore.

Data science e informatica: è boom

Nelle università nuovi corsi e master sui temi di Industria 4.0. Il nodo competenze trasversali

Domanda, offerta. La crescente richiesta di know ­how “digitale” da parte delle aziende trova già un primo riscontro nell’offerta formativa delle università, che si adegua per aggiornare i profili forniti al mercato.

Molte delle “etichette” di Industria 4.0, da internet delle cose ai big data, sono in effetti già presenti da tempo tra gli insegnamenti erogati. Con le Università che tuttavia sono impegnate in una sorta di fine tuning dell’offerta, con un arricchimento visibile su più fronti. Uno dei trend più evidenti è il rafforzamento dell’area informatica, lo sviluppo più immediato in relazione al trattamento dati. Materia prima disponibile ormai a prezzi contenuti, che deve però essere “lavorata” e tradotta in algoritmi utili alla manutenzione predittiva, al controllo dei processi, all’analisi dei comportamenti di consumo. «Per informatica abbiamo circa un migliaio di richieste di iscrizione ­- spiega il rettore del Politecnico di Torino Marco Gilli ­- ed è una delle aree di maggiore crescita». In generale, sui temi di Industria 4.0, la scelta di Torino è stata quella di creare centri interdipartimentali per aggiornare i curriculum, lavorando sui corsi di studio esistenti. «Per preparare queste figure ­- aggiunge ­- servono competenze trasversali, sempre costruite però su solide fondamenta, conoscenze di base necessarie per gestire le tecnologie che cambiano». Boom di informatica anche a Milano e al Politecnico di Bari (che l’anno prossimo avvierà anche una magistrale in automation engineering in inglese) che in due anni ha quasi raddoppiato a quota 350 le “matricole”, «solo per il numero chiuso­ – spiega il rettore Eugenio di Sciascio -­ perché in realtà la richiesta supera quota 500». La creazione di un profilo ad hoc di “scienziati” dei dati, percorso avviato in Italia dalla Sapienza di Roma, è la strada battuta ora da numerosi atenei, tra cui la Bicocca di Milano. Che da quest’anno ha avviato un corso di laurea magistrale biennale per fornire competenze avanzate sia di informatica che di statistica. In movimento anche la Luiss Guido Carli di Roma, che ha inserito un master full­time in big data management in partenza a marzo e una laurea triennale proprio in Data Science che prenderà il via a settembre con 40 posti. «C’è un forte interesse da parte delle aziende­ – spiega il prorettore Andrea Prencipe -­ che ci chiedono ora di finanziare cattedre specifiche. Su questi temi siamo voluti entrare quasi “a gamba tesa” perché crediamo che la digitalizzazione stia già avendo e in prospettiva avrà un impatto sempre più pervasivo nella vita delle imprese».

L’analisi dei dati è anche il focus della nuova laurea magistrale di Padova, avviata quest’anno proprio per formare nuovi data scientist. «Un percorso interdisciplinare in cui crediamo l’Università debba dare un contributo ­- spiega il prorettore al trasferimento tecnologico Fabrizio Dughiero -­ dove pensiamo che i numeri possano solo crescere. Nel primo anno ci sono 30 studenti ma abbiamo voluto limitare il numero per tenere alta la qualità. In generale le nuove matricole di ingegneria sono più di 3.800, il nostro record». Altro percorso in crescita per l’ateneo è quello in meccatronica, arrivato a sfiorare le 100 unità. Strada battuta anche dalla Liuc di Castellanza, dove il master su questi temi costruito insieme alle aziende fa il pieno di iscritti e ha un tasso di occupazione del 100%.

Area in cui dal prossimo anno accademico l’Università Federico II di Napoli punta ad avviare un percorso triennale sperimentale professionalizzante, creando una sorta di ingegnere “junior”, già però direttamente spendibile sul mercato del lavoro, con un target iniziale di 50 iscritti. Altra area di sviluppo 4.0 è nell’area di ingegneria meccanica, dove dallo scorso anno è attivo un curriculum ad hoc in advanced manufacturing. «Idea sviluppata insieme al gruppo Ge ­- spiega il presidente della scuola politecnica Piero Salatino -­ per trattare temi chiave quali la prototipazione virtuale o la stampa 3D, percorso che vale la metà dei crediti dell’intera laurea». Altro esempio di aggiornamento sui temi 4.0 è Venezia. Grazie ad una partnership con l’incubatore di start­up H­Farm, l’Università Ca’ Foscari ha appena avviato una laurea triennale in digital management, partita in numero chiuso con 84 iscritti. Percorso in inglese che tratta temi quali ecommerce, sicurezza informatica, gestione dei sistemi informativi. start­up e trasformazione digitale di imprese mature. L’università, in sintesi, si muove.

Paola Campadelli (Università Statale di Milano): “Zero analisi, vedo altri interessi dietro…”

Articolo di Marco Maroni pubblicato domenica 10 dicembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

“Zero analisi, vedo altri interessi dietro…”

Paola Campadelli, ex preside di matematica e scienze: “Soldi spesi con criteri dubbi”. Non hanno fatto nessuna valutazione e hanno scartato a priori l’alternativa. L’università rischia di perdere studenti

Ordinario di Informatica ed ex preside della Facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali della Statale di Milano, Paola Campadelli considera il progetto di trasferimento nelle aree dell’Expo delle facoltà scientifiche un’operazione che ha ben poco di scientifico. Ci tiene a precisare che non è una posizione aprioristica, né di convenienza, visto che lascerà l’ateneo milanese a fine anno. Quello che soprattutto non condivide la studiosa, il cui campo d’interesse è quel territorio che sta tra la neurofisiologia e l’informatica (per intendersi, le analogie tra mente e computer) è il metodo con cui sono state prese le decisioni dal consiglio di amministrazione della Statale: nessuno studio preliminare, nessuna analisi delle alternative, e scelte calate dall’alto, senza neppure consultare il corpo docente.

Cos’è che non va nella soluzione Expo?

Ci sono degli elementi di fatto, oggettivi, come i minori spazi a disposizione e i costi, che rendono criticabile il progetto, ma soprattutto non è accettabile il modo in cui si sta conducendo l’operazione, fa pensare che ci siano altri interessi in gioco, più che il bene della didattica e della ricerca. I professori ritengono che sarebbe più saggio investire in Città studi, ma comunque abbiamo pochi elementi per giudicare. Noi siamo abituati a studiare i problemi prima di dire se una soluzione c’è o non c’è. Invece la possibilità di rimanere in città non è stata praticamente neppure presa in considerazione. Teniamo presente che se nell’area attuale ci sono situazioni critiche, come l’edificio di Chimica, irrecuperabile, altre come Fisica e Matematica avrebbero bisogno solo di manutenzione, per non parlare d’Informatica che ha un edificio nuovo appena costruito; ci sono inoltre spazi che si liberano dal trasloco di Veterinaria. Certo se avessimo visto uno studio che motivava la scelta, il nostro approccio avrebbe anche potuto essere diverso.

Sembra che i professori siano arrabbiati soprattutto perché sono stati lasciati fuori.

No, è il non aver fatto una comparazione sulle diverse possibilità, non avere preso in considerazione un progetto alternativo, la cosa grave. Invece c’è questa scelta su un progetto che ad oggi non ha visto nessuno. Non solo non è stato discusso, ma nemmeno spiegato.

Tutta l’efficienza del polo scientifico di cui parlano i promotori e la stampa è quindi è solo marketing?

Non posso giudicare perché non ho visto niente ma, per fare un esempio, mi hanno riferito che c’era l’intenzione di mettere assieme tutti i laboratori, ma è difficile pensare che laboratori di discipline scientifiche diverse possano essere accorpati in un’unica struttura. Poi è comprensibile che gli studenti e i docenti preferiscano rimanere in centro. E anche questo non è stato considerato, non c’è alcuno studio serio sulla previsione dei flussi degli studenti. Col rischio che molti, soprattutto coloro che vengono da fuori, scelgano un altro ateneo, con gravi perdite per la Statale. Tutte le principali università italiane, ma anche quelle estere, investono nelle loro sedi dei centri cittadini.

I prof della Statale in rivolta contro il trasloco all’Expo

Articolo di Marco Maroni pubblicato domenica 10 dicembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

I prof della Statale in rivolta contro il trasloco all’Expo

I docenti delle facoltà scientifiche bocciano il piano di governo, Comune e Regione. L’ateneo spenderebbe almeno 130 milioni, che non ha

Prima i residenti e i commercianti con una fiaccolata, poi sindacati e sigle studentesche. Ora è la rivolta dei professori. A votare una mozione contro il trasferimento delle facoltà scientifiche dell’università Statale di Milano dalla storica sede di Città studi all’area Expo sono stati, il 27 novembre, il 93% dei docenti e tecnici di Informatica. Già aveva votato No Matematica, mentre Fisica ha chiesto che a decidere sia il nuovo rettore, che si insedierà nel settembre 2018. Agli informatici il trasferimento sembra una beffa: “Siamo in una sede distaccata per cui paghiamo 1,1 milioni l’anno d’affitto a Intesa e Fondazione Cariplo – dice un ricercatore – e dovremmo andare a Rho adesso che è pronta la nuova sede in Città studi, costata 21 milioni di euro”.

Lo spostamento dal semi-centro all’hinterland può essere difficile da digerire, anche per chi commercia o lucra sugli alti affitti studenteschi. Ma gli argomenti dei professori sono altri. Soprattutto gli spazi, che passeranno da 250 a 150 mila metri quadrati non espandibili (l’area è confinata tra due autostrade, un carcere e un cimitero) a fronte di un atteso incremento degli studenti del 15% nei prossimi cinque anni, e poi la sostenibilità economica. Il senato accademico, fatto quasi tutto di expo-entusiasti, il rettore Gianluca Vago in testa, sostiene che la nuova sistemazione è più razionale, consente forme nuove di organizzazione della didattica e della ricerca, e risparmi di energia e servizi da 7 milioni l’anno. Quanto alle superfici, quelle nette, fruibili, sarebbero il 20% in più che a Città studi. L’Ateneo, inoltre, sarebbe porta a porta con lo Human technopole, centro da 1.600 ricercatori, erede del genovese Iit, che il governo Renzi ha voluto trasferire a Rho; mentre da Città studi stanno traslocando anche il neurologico Besta e l’Istituto dei tumori.

Il costo dell’operazione è stimato in 380 milioni: 130 ce li metterebbe la Regione, 130 la Statale, forse 100 verrebbero dalla vendita delle vecchie aree. Un piano finanziario che per il momento traballa, visto che la Statale quei soldi non li ha e dovrebbe indebitarsi, e che ricavi e tempi di realizzo dei 120 mila metri quadrati vendibili, non sottoposti a vincolo, sono molto incerti, col rischio che l’urgenza faccia il gioco dei compratori. Manca invece una vera stima del costo per ristrutturare le strutture di Città studi. Il rettore parla di una stima di 1.500-1.700 euro al metro quadrato per gli edifici del demanio, tra i più malmessi. Ma sono 60 mila metri quadrati. Altre aree hanno bisogno solo di manutenzione.

Sulla carta il “Parco della Scienza” a Rho è il trionfo del regno della conoscenza e dell’efficienza, ma la scelta sembra dettata soprattutto dall’urgenza di sistemare il milione di metri quadrati su cui nel 2015 si è svolta l’esposizione, e di recuperare i soldi che Arexpo, la società di Governo, Regione, Comune e Fiera, ha speso per i terreni a un prezzo dieci volte quello di mercato, e infrastrutturati a colpi di mazzette e appalti truccati, con sei indagati solo per l’infrastruttura principale. I dubbi sulla sostenibilità economica dell’operazione in privato sono condivisi anche da qualche membro del senato accademico. Il problema è che la Regione ha puntato una pistola alla tempia della Statale: i suoi 130 milioni ci sono solo se si va a Expo. L’asta del 2014 andata deserta, ha reso infatti evidente che gli investitori privati senza un aiuto istituzionale non avrebbero messo piede a Rho. Il governatore lombardo Roberto Maroni e l’ex sindaco milanese Giuliano Pisapia hanno quindi tirato dentro la Statale. Così lo “sviluppatore” s’è trovato: gli australiani di Lendlease, che un mese fa hanno vinto la concessione: 99 anni per 670 milioni di euro a valori attuali.

Le facoltà da trasferire contano 18 mila studenti, 4 mila vengono da oltre 100 chilometri da Milano, “fuorisede” che in città pagano mediamente 580 euro al mese per una stanza singola (dati Immobiliare.it). Lendlease prevede 50 mila metri quadrati di studentato.

Il piano post Expo l’hanno escogitato le società di consulenza Pwc e Roland Berger, già beneficiate di appalti milionari per Expo; le stesse due si ritrovano ora consulenti di Lendlease, assieme alla Sec di Fiorenzo Tagliabue, storico portavoce dell’ex governatore Roberto Formigoni, anche lui già beneficiato da Expo. Il rettore Gianluca Vago ha più volte chiarito che le decisioni non le prende lui, ma il cda sentito il Senato accademico. Istituzioni di cui è presidente. Numero due alla Statale è Walter Bergamaschi, ex direttore generale della Sanità lombarda considerato un fedelissimo di Maroni.

Chi resta defilato nella vicenda è il sindaco Beppe Sala. Forse di Expo, dopo il rinvio a giudizio per falso, per cui ha chiesto il giudizio immediato, non ne vuole più sapere.

Giuseppe De Rita: «Il mercato è cambiato ora nuove opportunità»

Articolo di Francesco Pacifico pubblicato domenica 15 ottobre 2017 da Il Mattino Napoli.

«Il mercato è cambiato ora nuove opportunità»

De Rita: competenze superate, più chance con l’informatica

«Più che un cambiamento nel mercato del lavoro, è una rivoluzione in quello delle opportunità». Lo studioso Giuseppe De Rita, padre del Censis e uno dei maggiori esperti dei mutamenti nella società italiana, non si sorprende della fuga dei professionisti. «Tutto si decide in base alle opportunità del momento. In fondo è successo anche a me. Negli anni Cinquanta, neo laureato in giurisprudenza, ho iniziato a lavorare al Cnel e da allora ho fatto il mestiere che facevano tutti i miei amici che hanno studiato sociologia. Ma non per questo posso fregiarmi del titolo di sociologo».

Quanto è ampia la fuga dei professionisti?

«Non so calcolare le dimensioni del fenomeno in corso, perché ogni dato in questo ambito porta con sé un’ambiguità di fondo: negli ultimi anni si è avuta una proliferazione di professioni, tradizionali e legate agli Ordini come quelle che al Cnel chiamammo “nuove professioni”. E tutte sono un po’ rinsecchite, perché i giovani cercano di mettersi in proprio, si trasformano in consulenti finali, fanno i battitori liberi».

Battitori liberi?

«Mi spiego meglio: un tempo, si diceva, un padre al figlio gli faceva la casa e la laurea, per poi garantirgli una professione. Oggi la casa è un appartamentino più piccolo nel quale il giovane, per valorizzare la sua più costosa istruzione, crea anche lo studio per la sua attività. Che s’inventa al momento, in base alle richieste del mercato e ai suoi contatti. Un laureato in legge, per esempio, non ci pensa più a fare l’esame da avvocato e usa le sue conoscenze per far il consulente. Magari scrive anche sul biglietto da visita “digital consulting”, perché ha studiato le normative che più s’intersecano con il mondo digitale. Poi inizia a cercare possibili clienti tra i suoi coetanei, magari s’imbatte in altri ragazzi che si sono dati all’agricoltura, quindi si offre loro come consulente, ma presto si allarga a tutta la filiera: dai ristoratori a quelli che fanno il prezzo del peperone».

Ma questo non è il perito agricolo?

«No, è un’attività più complessa. È una consulenza moderna, spot, nata sulla voglia di imprenditorialità del singolo e sulle capacità di fare leva finanziaria, senza i recinti professionali. Non si lavora più in relazione alla domanda di quel settore, ma di una filiera trasversale. La prestazione si allarga, ma anche l’algoritmo per gestire una spedizione o un’operazione finanziaria. Prendiamo gli Ordini, oggi resistono quei mestieri ordinistici che permettono una certa elasticità di comportamenti: il commercialista, per esempio, fa ancora le dichiarazioni dei redditi ma può occuparsi di un fallimento o entrare in un collegio sindacale di un’azienda. Notai o periti invece soffrono di più, perché hanno un perimetro di azione più limitata».

La morale?

«Se io posso offrire al mio cliente anche l’algoritmo, perché, e lo dico con tutto il rispetto per la categoria, dovrei fare l’avvocato dei sinistri automobilistici, pagare l’Ordine e guadagnare poco?».

Allora è una questione economica? Non sarebbe il caso di introdurre l’equo compenso o degli strumenti di welfare protettivi come quelli dei dipendenti?

«Sono pezze che non possono invertire la tendenza in atto. Che premia i giovani che hanno sia una preparazione generalista di base sia quella specialistica, conoscono le lingue, sanno usare i mezzi informatici, muovere quattro numeri per realizzare gli algoritmi che danno soluzioni. Personalmente credo che la parte economica in questa vicenda non sia così importante».

Resta il fatto che calano gli iscritti agli Ordini e alle casse professionali.

«Chi frequenta come me convegni e raduni professionali, da sempre si sente dire “ci pagano poco” o “non ci sono clienti”. Secondo me centrale è la questione delle opportunità. È vero che il mercato si restringe, il che aiuta l’espulsione dal mondo ordinistico, ma la spinta vera è data dall’attrattività dei nuovi lavori, dalle possibilità che si creano in un’economia sempre più molecolare, liquida, se volete, chiamiamola individuale».

Cresce invece la voglia di andare all’estero.

«Perché oltre confine si trovano mercati più ricchi e attività professionali più avanzate».

Lo scenario che lei dipinge vale anche al Sud?

«Naturalmente la differenza con il Nord c’è, perché nel Mezzogiorno l’appartenenza a un Ordine è ancora uno status sociale: chi ne è iscritto, si sente superiore. Ma anche qui il fenomeno, seppure più flebile rispetto al resto del Paese, è ben visibile. Soltanto che la spinta è diversa: nel Meridione me ne vado perché non ho altra scelta; nel Settentrione invece ci si sposta perché si cercano nuove esperienze. Ma tempo dieci anni e, su questo versante, non ci saranno grandi differenze tra le due parti d’Italia».

Non c’è il rischio di impoverire la nostra società, perdere conoscenze e tradizioni?

«Certo, questo rischio esiste. Ma la società mica finisce perché si esauriscono le competenze consolidate dei vecchi ingegneri. Il vero problema, casomai, è che una parte delle professioni sono rimaste spiazzate dai nuovi bisogni di formazione e dall’attuale domanda di servizi e prestazioni. Per questo dovremmo domandarci che restano a fare una parte degli Ordini esistenti».

Per concludere, come sta il ceto medio, categoria che lei ha battezzato?

«Il ceto medio, come tutti sappiamo, non è una classe precisa. L’errore è che si potesse sostituire a quelle storiche: la classe operaia, quella professionale, quella padronale. È un grande contenitore dove al suo interno ci sono tante piccole montagne, così vario che di fatto non esiste».

Senza professioni la sua dissoluzione è più veloce.

«La “cetomedializzazione” della società, un termine centrale nel lavoro del Censis, era un processo dove la popolazione saliva con l’ascensore sociale dal pianoterra al primo piano e così via più su. Il problema è che ora l’ascensore non ce la fa, perché i piani, le occasioni, non ci sono. E bisogna andare a cercarle altrove».

Università, continuiamo a farci del male

Articolo di Stefano Feltri pubblicato mercoledì 13 settembre 2017 da il Fatto Quotidiano.

Università, continuiamo a farci del male

Associazioni di studenti e politici (soprattutto a sinistra) hanno esultato per la sentenza del Tar che boccia il numero chiuso in alcune facoltà umanistiche della Statale di Milano. E il rettore Gianluca Vago ha dovuto accettare i limiti di una legge anacronistica e un po’ ipocrita del 1997 che consente il numero chiuso in facoltà come Medicina con la scusa che prevedono l’uso di “laboratori ad alta specializzazione” e “sistemi informatici”. Ma a Filosofia o Lettere non si possono mettere limiti perché lì, di laboratori, non ce ne sono. La grande differenza, però, è che nei corsi dove viene programmato un accesso coerente con le possibilità di assorbimento del mercato del lavoro gli studenti hanno un destino sereno, in assenza di selezione all’ingresso invece vengono abbandonati. II rapporto sull’istruzione dell’Ocse presentato ieri certifica per l’ennesima volta una verità che gli italiani non vogliono capire: il tasso di occupazione per chi frequenta studi umanistici è il 71%. Per chi punta su Informatica o Ingegneria tra l’84 e l’85. C’è una bella differenza. Secondo i dati 2014 che usa l’Ocse, in Italia il governo investe solo il 7,1% del budget in istruzione, in coda ai Paesi Ocse. Ma se anche le risorse fossero maggiori, viene da pensare, leggendo il rapporto, cambierebbe poco, di sicuro non le preferenze degli studenti. Oggi l’università in Italia costa poco a chi la frequenta – il 27% in meno della media Ocse – ma rende anche poco, i benefici sono inferiori al 22% degli altri Paesi dell’area. Parte del problema sembra essere proprio nella facoltà scelta: il 39% sceglie facoltà umanistiche (incluso Giornalismo, un bel l’azzardo…) contro il 23% dell’Ocse. II problema non sembrano tanto le scienze dure, la quota è il 25% contro la media del 22%, ma i pochi che fanno Economia o Legge (dato curioso, visto che il Paese è pieno di avvocati): 14% contro la media Ocse del 23. Per trovare lavoro servono molte politiche pubbliche, ma qualche scelta personale più oculata aiuta.

 

 

 

 

Marco Rondina (rappresentante degli studenti Politecnico di Torino): “Collaborazione importante ma l’insegnamento non può piegarsi sempre all’impresa”

Articolo pubblicato mercoledì 13 settembre 2017 da la Repubblica Torino.

“Collaborazione importante ma l’insegnamento non può piegarsi sempre all’impresa”

«Sapevamo di non essere messi male, ma le graduatorie non vanno prese troppo sul serio». Non gongola Marco Rondina, rappresentante degli studenti, di fronte alle statistiche dell’istituto britannico QS. Pesarese, 23 anni, all’inaugurazione dell’anno accademico del Politecnico di Torino aveva rubato la scena con un discorso provocatorio: «La disoccupazione è a zero, l’università è gratuita, il numero chiuso non esiste…». E per qualche minuto la platea pensava dicesse sul serio.
La disoccupazione però è davvero quasi a zero per gli ingegneri che si laureano a Torino. Il suo “sogno” si è avverato?
«Il dato è un po’ gonfiato visto che il dato tiene conto della media occupazionale del Paese, che in Italia non è certo alta. Inoltre, trattandosi di un’università tecnica, può contare su settori che tirano tantissimo l’occupazione, come l’informatica e l’aerospaziale».
Quanto conta la qualità dell’insegnamento nel trovare lavoro?
«E’ un fattore importante e qui gli standard sono elevati, ma equivalenti ad altri atenei italiani».
Ha un ruolo il tessuto industriale? Sono le aziende del territorio ad assumere gli ingegneri di Torino?
«Credo che il tasso di occupazione comprenda anche i cervelli in fuga, tuttavia è vero che qui il tessuto industriale è particolarmente vivo, soprattutto in alcuni settori. In alcuni casi la collaborazione tra aziende e ateneo è molto forte, anche troppo».
In che senso?
«Il problema è di chi rincorre cosa. In un sistema ideale dovrebbe sempre essere l’università il motore trainante, la locomotiva del progresso, non fosse altro perché dovrebbe avere una visione di più lungo periodo rispetto a quella di un’azienda. La collaborazione con le aziende dunque è importante, non dico che ci debba essere chiusura, ma l’insegnamento non deve piegarsi alle esigenze dell’industria».
Se il Politecnico è al primo posto al mondo per l’occupazione degli studenti, scende nella classifica complessiva se si tiene conto di altri fattori. Se lo aspettava?
«Sì, i problemi sono molti: gli spazi, per esempio, che sono ridotti. O il numero chiuso, che ogni anno nega la possibilità di iniziare il Politecnico a moltissimi studenti che avrebbero le capacità di completare brillantemente il ciclo di studi».